Posts written by Kasra;

view post Posted: 9/1/2015, 20:01 Für Elisa - Fanfiction non DN
Annyeong~
Eccomi tornata con una nuova commissione!
Stavolta mi sono dilettata nel far realizzare il
desiderio della mia sorellina Elisa di incontrare G-Dragon,
il suo bias, ed agire di conseguenza!
Ah, un'ultima nota: i dialoghi sono in italiano, ma in
realtà parlerebbero tutto il tempo in inglese e coreano!

ATTENZIONE!
Questa fic è ad alto contenuto demenziale, e se non
gradite vedere il vostro bias copulare con altrui ragazze
vi consiglio di chiudere immediatamente la pagina e
bruciare il computer!
Buona Lettura!







Für Elisa





«Incheon, airport of Incheon. Flight 6952 of Aeroflut Airlines has just lent at gate 12. It’s 11.10, there are 24°C and it’s a nice sunny day. Welcome to South Korea»




Le due ragazze sentivano ancora la dolce voce femminile dall’accento coreano che le aveva accolte nella caotica ed animata megalopoli, mentre sfrecciavano in taxi lungo l’autostrada, dirette all’albergo.
Scariche elettriche scorrevano lungo la loro spina dorsale, sotto la pelle e non riuscivano a smettere di sorridere come esaltate.
Ma come non farlo?
Fin da quando avevano diciassette anni avevano progettato quel momento, anche se allora niente era certo: i sogni degli adolescenti sono fugaci, e non sapevano nemmeno se dopo mezzo decennio sarebbero state ancora amiche, se avrebbero amato e stesse cose, condiviso le medesime aspirazioni.
Incredibilmente, era stato così. Dopo l’università, aver studiato e lavorato contemporaneamente e stretta la tanto agognata laurea tra le mani, eccole in quel paese che era una delle mete da loro agognate ardentemente.
«Ulineun dochaghaess-eoyo1» annunciò il tassista, e le giovani scesero dalla vettura, gli occhi lucidi per la commozione e la gioia.
Ringraziarono ed afferrarono le valigie, mentre la Kia faceva retromarcia verso l’aeroporto.
Il rumore delle ruote dei trolley le accompagnò all’interno dell’hotel, ben illuminato e dall’aria accogliente. Le due si guardarono curiose intorno per poi accostarsi alla reception e ritirare la loro prenotazione.
Sentivano il corpo fremere, non vedevano l’ora di abbandonare le valigie nella loro camera, afferrare la macchina fotografica e viversi quella città che sognavano fin da quando erano adolescenti.
Ringraziarono frettolosamente il consierge, le labbra all’insù quando l’uomo si inchinò e nel giro di pochi minuti erano già in centro con gli occhi luminosi di gioia e stupore continuo.


Il KLI 63, imponente, le sovrastava, mentre attorno a loro ruotavano auto, persone e voci. Erano in città già da una settimana e ancora non sapevano cosa vedere per prima, se il Fountain Bridge, il Seoul River o il santuario di Jongmyo, dato che fino a quel momento si erano accontentate di errare senza meta per quelle strade piene di vitalità.
Alla fine optarono per il fiume che attraversava il centro, così, cartina alla mano si misero in marcia, elettrizzate come mai prima d’allora. Probabilmente non avevano mai camminato tanto, ma non avevano neppure mai avuto tanta energia ed entusiasmo. Ovunque si voltassero partiva una raffica di foto, di sorrisi, di commenti, di sospiri ed esclamazioni di meraviglia.
Verso sera si diressero al parco del Gyeongbokgung per godersi l’armonia del polmone verde della capitale in mezzo ai grattacieli altissimi, rilassandosi e riposando le gambe prima di andare a cenare.
Giunte le sette e mezza lasciarono quell’oasi naturale e si incamminarono verso l’albergo. Quando voltarono l’angolo però rischiarono di causare un incidente a catena dato che se l’amica non avesse trattenuto Susy, probabilmente la ragazza sarebbe inciampata nel cane che era spuntato dalla strada laterale. Dopo lo spavento iniziale la giovane sorrise e cominciò a grattarlo dietro le orecchie e sotto il muso, mentre l’altra la pregava di sbrigarsi, cercando di evitare il contatto con il canide, dal momento che non amava particolarmente quella razza. Siccome poi la compagna sembrava voler continuare, la richiamò.
«Ahah, scusa Eli, andiamo!» si discolpò, allontanandosi dalla bestiolina.
Dando un’altra occhiata alla mappa, attraversarono la strada, senza accorgersi del ragazzo che, col fiato corto per la corsa, aveva recuperato l’animale subito dopo.


빅뱅~


«Mioddio non credevo possibile che in un solo isolato esistessero tante cose da vedere!» esclamò Susy mentre Elisa, stiracchiandosi, si dirigeva verso il bagno.
«Non ci sono infatti, sei tu che sei pazza, tutto qua!» replicò l’altra, senza però nascondere quanto anche lei non aveva fatto altro che guardarsi intorno.
«A proposito, cosa c’è per cena?».
«Non lo so», rispose la mora facendo spallucce. «Ora vado a dare un’occhiata»
Ciò detto, uscì dalla camera e si diresse al ristorante per informarsi.
Nel frattempo, intenta a piegare i vestiti e riporli nell’armadio, Elisa canticchiava VIP, muovendosi a tempo con la musica.
Ad un certo punto sentì raschiare contro la porta e si voltò in quella direzione.
«Susy?» chiamò, lanciando uno sguardo al tavolino. La chiave era lì e lei non aveva chiuso la porta con quella. Pensò che, com’era solita, l’amica le stesse solo facendo uno scherzo, quindi con aria disinvolta andò ad aprire.
«Allora, cos’è che mang-…».
Il resto della frase le morì in gola. Il cuore prese a martellarle furiosamente in testa e probabilmente aveva anche smesso di respirare. I suoi occhi, sgranati, erano fissi su una chioma che non sarebbe riuscita nemmeno impegandosi a confondere con un’altra.
“È lui… oddio è lui…” fece in tempo a pensare, prima che il cervello le andasse in blackout.
Il ragazzo stava accarezzando il cane che reggeva tra le braccia, cercando di farlo chetare visto che continuava a scodinzolare come un forsennato.
Poi sollevò lo sguardo, aprendosi in un sorriso luminoso ed imbarazzato.
«Mian-hamnida2» disse, e lo stomaco di Elisa fece una capriola.
“La sua voce…”
Lo ascoltò incantata continuare a parlare in coreano, senza capire una parola, ma non le importava.
Quando però lo sentì domandare “Arasseoyo?3”, riuscì a rispondere, con un filo di voce e la bocca secca: «Anio4».
A quel punto la ragazza si sarebbe aspettata un congedo o cose del genere. Tutto insomma, tranne che avrebbe cominciato a spiegarle l’accaduto in inglese.
Ad Elisa tremavano le ginocchia e se non avesse tenuto strette in una presa stritolatrice alla maniglia della porta, unica àncora di realtà in quella situazione surreale, probabilmente si sarebbe liquefatta in quel preciso istante.
Con quel poco di raziocinio che le rimaneva riuscì a captare qualcosa riguardo al fatto che Gaho avesse cominciato a tirare il guinzaglio verso l’albergo e che non era riuscito a riagguantarlo.
«I’m sorry he disturbed you».
Lei scosse la testa, accennando un sorriso, mentre cercava febbrilmente qualcosa da dire.
Rimasero in un silenzio teso che si ruppe solo quando udirono dei passi lungo il corridoio e che attirarono la loro attenzione.
“Grazie a Dio”
Elisa guardò colma di gratitudine l’amica appena arrivata che l’aveva inconsapevolmente salvata dal momento più imbarazzante della sua vita.
La sentì salutare il nuovo arrivato in coreano, sorridendogli affabile. Vedendo Gaho aveva capito subito e qualcosa le diceva che da quel momento in poi l’amica avrebbe adorato quel cane ancora di più.
Il ragazzo ricambiò la cortesia, e con un ultimo cenno del capo si allontanò lungo il corridoio.
Susy seguì i suoi passi con la vista finché non sparì nell’ascensore, mentre Elisa non riusciva a distogliere lo sguardo vitreo da un punto imprecisato del muro color panna di fronte a sé.
L’amica la guardò allarmata, muovendo un paio di volte la mano davanti ai suoi occhi, sollevando poi i propri al cielo. Anche lei era in fibrillazione, ma riuscì a mantenere la calma, estraendo la povera maniglia dalla presa ferrea di Elisa. Richiusa la porta, le permise di fluttuare fino al letto, sul quale si accomodò in trance.
«Eli…» tentò Susy in tono comprensivo.
La chiamò un paio di volte prima di riuscire a farla risvegliare. Quando finalmente la ragazza diede segni di vita, la guardò con le palpebre strabuzzate e la respirazione veloce.
“Ora esplode”
Ed infatti, come da previsione, fu quello che avvenne.
«Oh Cristo Santo, quello era Ji Yong Kwon e l’unica cosa che ho saputo dire è stata no?! Ma porca di quella…!»


빅뱅~


«THIS LOVE dashin sarang tawin
Haji anha nomuna yawin
Ne mosubur baraboni
Weiri babo gathunji
THIS LOVE imi tonaborin
Jabgienun sarajyo borin
Doraojido anhur sarama
Molli molli naragajo gurum dwiro…»

Elisa teneva il tempo con la testa, picchiettando le unghie bicromatiche sul display dell’iPod e battendo un piede in sintonia col ritmo sul pavimento della hall.
Lei e Susy sarebbero dovute uscire di lì a poco per vedere uno spettacolo dal nome impronunciabile nel quartiere opposto della città e se non andava errando, erano prossime all’arrivare irrimediabilmente in ritardo.
Sentì un rombo provenire dalle scale e l’istante successivo Susy le si parò davanti, ansante. Elisa si tolse gli auricolari e posò il lettore musicale sul tavolino, raggiungendo l’amica più morta che viva.
«Ho… ricontrollato… l’orario… dello spettacolo…» ansimò cercando di riprendere fiato mentre posava la tracolla sul tavolino e la compagna le faceva aria.
«E…?»
«È tra un quarto d’ora!» esplose l’altra con gli occhi a palla.
«Ma cavolo, Susy!»
«Lo so, lo so!» si schermì lei. «Ma ero stanca ed evidentemente ho letto male la locandina!»
«Direi!» replicò Elisa in tono di rimprovero.
Susy la fulminò e, presa la borsa, la trascinò letteralmente fuori dall’albergo
«Anziché stare qui ad urlarci addosso, diamoci una mossa!»
Si affrettarono alacremente lungo il marciapiede, borbottando concitate finché Elisa, tastandosi le tasche, non si accorse di aver dimenticato qualcosa.
«Ma porca… ho lasciato l’iPod nella hall!»
Susy si bloccò un attimo, scontrandosi con un passante e scusandosi frettolosamente.
«Non c’è tempo Eli! E poi penso che se ne occuperà qualcuno del personale, no?»
«Lo spero per te» la minacciò lei, allungando il passo.



Susy si tolse le zeppe, accompagnata dal rumore del phon proveniente dal bagno.
Alla fine lo spettacolo era cominciato una mezz’ora dopo per problemi tecnici e le due amiche avevano avuto la fortuna di non perdersi nulla.
Per di più Elisa aveva rimosso l’episodio del lettore musicale e la mora non aveva alcuna intenzione di ritirare fuori il discorso.
«Eli hai finito?» domandò. Anche lei aveva bisogno del bagno, diamine!
«Sì, ora esco!» fece l’altra, entrando nella camera con un asciugamano legato come un vestito sopra il seno e cercando qualcosa da mettersi.
Nel frattempo Susy aveva aperto l’acqua del rubinetto e si stava lavando i denti.
Toc Toc Toc!
La mano della maggiore si fermò a mezz’aria, con il reggiseno penzolante.
«Hai ordinato il servizio in camera?» chiese, ottenendo una negazione in risposta.
«Beh, chiunque sia parlaci tu, sei tu l’interprete tra le due!»
Susy quindi, asciugatasi la bocca, andò ad aprire la porta.
Qualsiasi parola coreana avesse imparato nel giro di quattro anni finì nel dimenticatoio.
Il giovane oltre l’uscio sorrise timidamente, mentre Elisa, avendo sbirciato da sopra la spalla della coinquilina, era prima sbiancata completamente e poi arrossita vistosamente mentre si reggeva saldamente l’asciugamano attorno al corpo.
Il ragazzo posò lo sguardo su di lei per un istante, prima di voltarsi verso la parete, le guance imporporate.
«I just wanted to give this back to you» spiegò, e Susy gli fu infinitamente grata per aver parlato nella sua seconda madrelingua.
Ripresasi, gli sorrise gentile e col pollice indicò l’amica.
«It’s hers» replicò, accennando poi frettolosamente alla ragazza che andava a chiedere un’informazione al consierge.
“E per evitare domande su quell’iPod maledetto”
Elisa la guardò uscire con un’espressione terrorizzata, il panico che cominciava ad invaderla. Tuttavia, preso un respiro profondo, si avvicinò al ragazzo, prendendo il lettore dalla sua mano calda.
«Komawoyo5»
«Figurati»
Tacquero per un momento, al termine del quale Elisa si risolse di congedarlo.
«Well, bye then» lo salutò impacciata, facendo per richiudere la porta, già pronta a squagliarsi sul letto.
Tuttavia, non appena afferrò la maniglia, lui allungò le mani in avanti, bloccandola.
«Aspetta!» la fermò, in inglese.
Il cuore di Elisa fece una capriola ed ingoiò il groppo che le si era formato in gola.
«Yes…?» domandò esitante, si sentiva incandescente.
«Non volevo farmi gli affari tuoi, ma ho notato la musica che ascolti, e… »
Tum tum – Tum tum
« … ho visto che sei una mia fan»
Ok, adesso se fosse svenuta non ci sarebbero stati problemi di alcun tipo. A malapena respirava.
«NO! Cioè, sì!» esclamò agitata, cercando di dire cose sensate in quella lingua internazionale che odiava con tutta sé stessa. «Insomma, mi piace il k-pop in generale… » si affrettò a chiarire, dandosi mentalmente dell’idiota per la figuraccia che stava facendo.
«Ah, ok… beh, sono lusingato».
«Ma è normale, tu sei fantastico!».
“Che diavolo ho detto?!”
«Cioè, voi siete fantastici e poi anche a Susy piace la vostra musica… ».
“Qualcuno mi faccia tacere!” pensò disperata, mentre il cantante sorrideva ed annuiva.
«Allora… ci vediamo in giro»
«S-sì… certo… »
Il ragazzo salutò con la mano, ma si attardò un ultimo momento.
«Ah, comunque belli i tuoi capelli» si complimentò, accennando col mento alle ciocche blu e rosa della giovane che arrossì copiosamente, per poi chiudere l’uscio e gettarsi trasognata sul materasso.


빅뱅~


“Maledizione a te Susy, ma perché diavolo sei venuta in Corea se non mangi piccante?!” pensò disperata Elisa cercando di capire dove si trovasse scrutando le serie di segnetti e cerchiolini sulla cartina che teneva davanti al naso.
Non ce l’aveva veramente con l’amica, anzi, le sarebbe stata eternamente riconoscente per quel viaggio, ma aveva scelto il momento più sbagliato per sentirsi male, lasciandola andare fino a Gangnam da sola.
L’andata non era stata un problema, aveva visto una donna americana che aveva saputo darle le indicazioni, ma ora di occidentali non c’era neppure l’ombra.
Così, mentre si lasciava il World Trade Centre alle spalle e cercava in quel groviglio di indirizzi e nomenclature la sua posizione emise un sospiro affranto, arrendendosi all’evidenza di essersi persa.
Si fermò, e dopo essersi guardata intorno e aver gettato di tanto in tanto un occhio alla cartina, si sforzò di ricordare qualcosa della scrittura hangul, mormorando mentalmente le pronunce delle varie lettere.
Poi all’improvviso, dalle sue spalle apparvero un paio di mani che le ribaltarono la piantina della città tra le dita ed una voce calda, suadente, tremendamente erotica ed incredibilmente familiare le accarezzò ridendo un orecchio.
«Forse così è meglio»
Il suo cuore batteva velocissimo ma, ignoratolo, si voltò sorridente e lo ringraziò.
Aveva deciso di prendere il coraggio a quattro mani e se il suo Santo Marito le aveva concesso di poter incontrare il suo idolo per una serie di circostanze spaventosamente fortunate, tanto valeva non fare l’idiota e godersi il momento.
«È assurdo vedersi sempre così, dev’essere destino» scherzò lui mentre il suono allegro della sua risata si legava a quella di lei, e la affiancava.
«Dove sei diretta?» domandò da dietro alle lenti scure ed Elisa si sforzava di non fissarlo più di quanto fosse lecito.
«Stavo cercando di tornare in albergo veramente» confessò con finta indifferenza, come se fino a meno di cinque minuti prima non stesse andando nel panico, intenta a leggere la cartina di una delle maggiori megalopoli del mondo al contrario.
«Allora ti accompagno, che ne dici?»
«O-ok…»



Elisa comprese che la strada su cui si trovava l’avrebbe portata almeno cinque kilometri lontana dall’hotel e che il ragazzo l’aveva salvata da ore di vagabondaggio.
Parlarono di sé, il cantante le chiese il motivo della vacanza e l’altra come mai qualche giorno prima avesse lui il suo lettore musicale. Lui spiegò che le aveva viste uscire di gran carriera dall’albergo e che Susy l’aveva urtato per sbaglio, scusandosi senza riconoscerlo. Parlavano in italiano, quindi non aveva capito granché eccetto “iPod”, ma dal momento che gli era parso che le due avessero molta fretta ed era stata Elisa a nominarlo, ne aveva dedotto che fosse irritata per qualcosa che lo riguardava. Così, seguendo l’istinto, era entrato nella hall dell’hotel e vi aveva trovato proprio l’apparecchio smarrito della Apple. Poi aveva deciso di chiedere al consierge di informarlo del loro ritorno telefonando alla YG, dopotutto ricordava il numero della camera e non aveva bisogno di sapere altro.
«E hai voluto riconsegnarcelo personalmente… » concluse lei incredula.
«Già». Il giovane tentò di nascondere il proprio imbarazzo.
Tuttavia riprese subito il tono spensierato di poco prima, abbagliando la ragazza al suo fianco con un sorriso splendente.
«Comunque se continuiamo ad incontrarci così, mi sembra il minimo presentarci… anche se sai già chi sono»
Lei si dichiarò d’accordo, evitando di accennare che sapesse a memoria qualsiasi suo MV, canzone ed esibizione live che fosse.
«Elisa, piacere» e fece un piccolo inchino col capo.
«Ji Yong»



Alla fine, raggiunta la zona dell’hotel, si erano fermati a prendere un gelato e si erano messi a parlare, accomodati su una panchina del parco nei dintorni.
Elisa, da imbarazzata ed incredula, si stava abituando alla sua presenza e Ji si sentiva sollevato dal fatto che per una volta non aveva a che fare con una fan fuori di testa. Non gli aveva mai nemmeno chiesto l’autografo, ma che l’avesse fatto per non infastidirlo o per la troppa emozione non gli importava, e le era grato per questo. Si sentiva sereno, come quando parlava con Young Bae, ed in quel momento, non sapeva perché, sentiva il bisogno di confessarle un’irrazionale preoccupazione di cui solo il suo migliore amico fino a quel momento era a conoscenza.
«Sai, ho scritto una nuova canzone» le confidò esitante.
«Davvero?». Lo sguardo di Elisa si accese, entusiasta.
Lui annuì, ma dalla sua espressione Elisa capì che qualcosa lo turbava. Il sorriso non gli raggiungeva gli occhi, ora scoperti visto che gli occhiali da sole erano appesi al collo della maglia larga.
«Ma non sono convinto»
«Come, perché? Sarà senza dubbio meravigliosa come le altre!»
«Grazie… » replicò lui arrossendo e trattenendo il fiato per un attimo.
«Posso chiederti un favore?»
La ragazza annuì in silenzio, lusingata.
«Sì, ovvio»
«Vorrei farti leggere il testo e chiederti secondo te che tipo di melodia vi si adatterebbe meglio. Young Bae aveva suggerito qualcosa di incalzante, però… ». Sollevò lo sguardo e lo immerse in quello ammirato di Elisa. «Forse ho bisogno di un parere esterno… magari, se non vi è di troppo disturbo, tu e la tua amica potreste passare da noi alla YG e discuterne insieme»
Elisa tentò di trattenere tutti gli

esulti che in quel momento le stavano attraversando una mente ultra esagitata ed infine, riuscendoci, confermò con un: «Sì, ne parlerò con lei»


빅뱅~


Era incredibile come fosse già passato più di un mese e mezzo.
Dopo quel primo incontro alla casa discografica, le due vip e la rispettiva band avevano continuato a vedersi per parlare, scherzare o uscire semplicemente insieme, cosa che poi si era tradotta con i cinque che facevano da guida alle due amiche per la capitale.
Elisa non era affatto stupefatta di come Susy avesse legato con Ri e Hyun, anche se le sue battutine riuscivano ancora a farli imbarazzare.
E poi, per la grande gioia di Elisa, Ji le aveva presentato persino le 2NE1, incontro conclusosi col tentato rapimento di Chae-Ri che tuttavia sembrava estremamente divertita dalla cosa e le aveva regalato il suo ultimo CD con autografo e dedica allegati.
Ciliegina sulla torta, il loro costoso ma bramato soggiorno in una delle pensioni più frequentate di Pocheon era stato rimpiazzato con una gentile offerta di pernottamento prolungato gratuito – ad eccezione , naturalmente, delle escursioni nella regione.
All’inizio le due pensarono ad uno scherzo, ma quando sentirono lo sciabordio rilassante del fiume ed il cinguettio degli uccelli nel bosco retrostante alla costruzione cubica dovettero arrendersi all’evidenza.
Elisa e Susy varcarono estatiche la porta d’ingresso, tenuta aperta cavallerescamente da Ji Yong, e si guardarono intorno senza riuscire a chiudere la bocca.
Tuttavia, quando alla reception videro quell’uomo si ricomposero.
«Appa annyeong6» lo salutò Ji in coreano dopo aver richiuso l’uscio, e l’uomo, uscendo dal bancone, lo abbracciò.
«Adeul wasseo7» lo accolse l’altro per poi voltarsi verso le ospiti.
«E voi dovete essere le amiche di cui mi ha parlato Ji Yong. È un piacere avervi qui, benvenute al Dolce Vita»
Alle giovani brillavano gli occhi, mentre i proprietari le osservavano divertiti.
Mentre salivano le scale per condurle alla VIP Room, Kwon Senior chiesero dove fossero Young Bae e gli altri, facendosi spiegare che stavano parcheggiando e portando il resto dei bagagli a Blue e Tonight, visto che ai propri ci avrebbe pensato lui.
Una volta sole nella camera e cominciate a disfare le valigie, Susy disse all’amica che per lei non c’erano problemi se preferiva dormire in stanza con Ji, in parte perché li vedeva come una bella coppia sin dai tempi del liceo, ed in secondo luogo perché – lei come gli altri – si era accorta di quanto il loro rapporto si fosse evoluto in pochissimo tempo, di come stessero sempre vicini, di come Ji ogni volta, prima di lasciarsi, la abbracciasse a lungo per poi baciarle dolcemente una guancia… eppure nessuno dei due si decideva a fare il primo passo.
Dunque, con grande sconsolazione dell’amica, Elisa aveva affermato di non voler osare nulla e che al massimo, per quando improbabile fosse - a suo dire - gliel’avrebbe chiesto lui.


빅뱅~


Pocheon era un’oasi naturale che lasciava senza fiato.
Oltre ai pomeriggi in barca ed ai barbecue, erano anche andate ad Herb Island ed al tempio di Jainsa - senza contare le escursioni esterne - e trascorso giornate alla piscina, abbronzandosi o – nel caso di Susy – fare scherzi a chiunque insieme a Ri e Bae, il cui obiettivo preferito era Hyun: le sue facce erano impagabili e nonostante li avesse più volte minacciati di morte, i tre non se ne erano mai preoccupati.

Alla fine, nonostante ciascuno avesse la propria camera, i sette finirono per dormire piuttosto disordinatamente nelle stanze di altri, cosa che rinsaldò il loro legame e che li fece sentire come una famiglia. Tutto ciò, naturalmente, con il leggero disappunto della Signora Kwon, che però aveva strigliato a dovere i suoi figli acquisiti, costringendoli a riordinare ogni volta che lasciavano qualcosa fuori posto.




Il giorno del compleanno di Ji fu memorabile, ed il Dolce Vita non era mai stato più pieno. Kwon Senior aveva chiuso le prenotazioni per tutta la settimana in modo che suo figlio potesse trascorrere la giornata con amici e famiglia, senza fan urlanti tra i piedi.
All’ora di pranzo si era presentata anche sua sorella, accompagnata dalle regine del k-pop e nel corso del pomeriggio si erano ritrovati tutti o ricoperti di panna e crema pasticcera o bagnati dalla testa ai piedi.
Uno dei momenti più esilaranti fu quando le BlackJacks, appostate a bordo piscina con le loro fette di torta in mano, volarono nella vasca inzuppandosi i costosi abiti e le scarpe abbinate, per non parlare delle acconciature.
Dire che ne erano uscite tremanti di rabbia era usare un eufemismo: liberatesi dei tacchi vertiginosi, inseguirono Bae e Ri per tutta la pensione finché non ottennero la loro vendetta, il tutto sotto gli sguardi divertiti del resto del gruppo, a partire da Susy, sdraiata su una panchina col capo poggiato sulle gambe di un Seung Hyun intento a ripulire il suo piatto. Anche Elisa, per quanto le adorasse, scoppiò a ridere, seduta in braccio a Ji ad uno dei tavolini e persino Dae Sung, che stava chiacchierando amabilmente con la sorella di Yong.
Quando poi la Leader e compagnia bella gli passarono davanti non riuscì a trattenersi, puntando nella loro direzione la forchettina guarnita di fragola e reggendosi lo stomaco per le risa. L’istante successivo si era dovuto nascondere dietro la ragazza, terrificato, ed aveva indicato nella direzione del rifugio dei malfattori che nel frattempo erano riusciti a nascondersi, cavandosela per pochissimo.

Ad Elisa stava scoppiando il cuore in petto, come ogni volta che vedeva o sentiva Ji ridere: sembrava illuminare tutto attorno a lui e per un attimo il resto mondo pareva fermarsi.
Tuttavia la voce della sua amica la distrasse da quella visione.
«Ehi Eli!»
Elisa si voltò, pronta ad incenerirla.
«Che c’-… ?!»
La sua domanda sarcastica fu troncata dall’infrangersi del dessert dritto sul suo viso, mentre Susy – sorpresa di aver fatto centro – sghignazzava trascinandosi dietro Choi per evitare il pericolo imminente.
L’altra cercò di ripulirsi alla bell’è meglio, lanciandole dietro i peggiori insulti che le venissero in mente finché Ji non le prese il mento e la fece voltare verso di sé, calando su di lei e depositandole un bacio all’angolo della bocca, passandovi poi lascivamente la lingua.
“Oddio…”
Nella mente di Elisa non c’era altro che invocazioni a Jashin, al suo Santo Marito ed a Nostro Signore, certa che se la Terra fosse stata attaccata in quell’esatto momento da un esercito infuriato di Aliens non se ne sarebbe nemmeno accorta.
Si voltò a guardare il ragazzo, che sorrideva sereno nonostante sentisse anche il cuore di lui battere furiosamente contro la sua schiena.
Rimasero a fissarsi in silenzio mentre Elisa tentava con tutte le sue forze di trattenersi dal baciarlo in quel preciso istante.
«Eri sporca di panna» spiegò lui innocentemente e tutt’a un tratto la raffica di maledizioni dirette all’amica si tramutò in una profusione di lodi.
«Senti Eli…»
Cominciò lui, una nota di esitazione nella voce.
«Mh?»
«Ho finito la canzone e… vorrei che fossi tu la prima a sentirla»
Lei sgranò gli occhi, per poi arrossire ed annuire entusiasta.
«Va bene»
«Grazie. Allora vieni su a Crayon stasera» si accordò mentre in giardino risuonavano le risate degli altri.
«Ehi Yong, vieni un attimo qua!» lo chiamò Bae, appena riconciliatosi con le 2NE1, e l’interpellato alzò gli occhi al cielo facendo ridere la ragazza che dopo quasi tre mesi cominciava a masticare qualche parolina in più di coreano.
«Arrivo!» rispose, facendo alzare Elisa che si riaggiustò l’orlo del prendisole che indossava.
Prima di raggiungere il migliore amico però, Ji le fece un occhiolino, facendola avvampare di botto.
«Comunque oggi sei davvero bellissima»


빅뱅~


«Sil lye8» chiese Elisa bussando alla porta blu della camera di Ji ed aprendola con cautela.
Il ragazzo si voltò verso di lei con un sorriso smagliante.
«Entra» la invitò, richiudendo poi l’uscio e precedendola al piano superiore.
Elisa era già stata in quella camera diverse volte, ma riusciva sempre a stupirsi della singolarità dell’architettura dell’edificio, talmente particolare che ricordava ancora quanto Susy fosse imbestialita quando aveva ripetutamente tentato di ricrearla in The Sims.
I due presero posto al pianoforte candido che occupava il centro della stanza, guardandosi con il sorriso sulle labbra.
E poi, Ji Yong cominciò a suonare, le dita che si muovevano delicatamente tra i tasti bianchi e neri, la melodia che si armonizzava con la sua voce calda e sensuale.
Elisa non riusciva a credere alle proprie orecchie, mentre quelle note dolci e familiari la circondavano, accompagnate dal canto del giovane.
Sembrò durare eoni, e pochissimi secondi allo stesso tempo e quando la musica terminò, la ragazza aveva la pelle d’oca e gli occhi lucidi di commozione, il cuore e le mani tremanti per l’emozione.
Ji Yong si voltò verso di lei, imbarazzato e teso, ma con le labbra all’insù, in una muta domanda.
«È… ». Elisa sentiva la sua voce spezzata. Ingoiò. «È Per Elisa»
Certo, era un po’ diversa dalla versione originale, ma era certa di averla riconosciuta.
Lui fece un cenno di conferma col capo, avvicinandosi ulteriormente al suo viso. La ragazza si sentiva frastornata, il fiato sospeso, mentre le ciocche bionde del cantante rilucevano alle luci del tramonto, riflesse dal fiume dorato, ora brillante di cristalli come una gemma preziosa.
«Ti piace?» chiese, ed Elisa poteva sentire il suo fiato inebriante sulla punta della lingua. Era ipnotizzata dalle sue labbra ed anche Ji sembrava non avere occhi che per le gemelle.
Elisa inghiottì ancora, annuendo, e le distanze fra loro si annullarono.
Con un sospiro le loro labbra si unirono, un istante brevissimo, ma che bastò a farli bruciare. Si separarono per un attimo, guardandosi negli occhi come per cercare conferme, poi Ji le afferrò dolcemente il viso, baciandola piano, con calma, approfondendo poco a poco il contatto mentre Elisa, impacciata, ricambiava.
Il cantante le sfiorò la guancia, le sue dita andarono tra i capelli di lei scostandoglieli e sistemandole un paio di ciocche dietro l’orecchio senza smettere di muovere le labbra su quelle di lei.
Erano morbide, le labbra di Ji. Tremendamente morbide, ed Elisa l’aveva sempre sospettato. Sapere che le stava assaporando era assurdo, impensabile e preferiva mettere da parte quelle riflessioni senza né capo ne coda.
Ji si alzò dallo sgabellino, sedendovisi poi all’amazzone e la sua lingua andò nuovamente incontro alla gemella. Cercavano entrambi un contatto più intimo, volevano toccarsi, gustarsi, sentirsi molto più di quanto quella scomoda posizione permettesse.
Si separano un misero secondo per respirare, le guance arrossate ed il fiato corto, ed Elisa gli passò le dita sul petto, facendolo rabbrividire per il piacere improvviso. Le sue iridi scure e liquide la perforarono, e non passò un istante che avevano ripreso a baciarsi con foga.
L’impeto fece ribaltare la seggiola ed i due si ritrovarono stesi l’uno sopra l’altra sul tappeto in moquette: il ragazzo si teneva sollevato con le braccia, i bicipiti gonfi per non caderle addosso e la guardò intensamente, le labbra umide, per un attimo indeciso sul da farsi. Infine calò lungo il profilo di lei, accarezzandole lentamente i fianchi e sollevandole la canottierina fin sopra i seni. Le baciò il décolleté, il collo, succhiandolo delicatamente in un punto e scese ancora, lasciandole una scia umida lungo l’addome ed infilando quella lingua estremamente abile nell’ombelico della compagna.
Elisa, con le dita tra i capelli di lui, sospirò per la sensazione piacevole, sentendo contro il ginocchio un certo rigonfiamento nei jeans del giovane. Vi si strusciò istintivamente e Ji, trattenendo un gemito, riprese a baciarla mentre le loro mani vagavano senza meta sul corpo dell’altro, pizzicandosi possessivamente.
Poi Elisa, presa confidenza con quella nuova situazione, gli scostò la maglia dal torace perfetto, intenzionata a saggiarlo con la lingua e con le dita, ma i fianchi sottili di lui la distrassero e con i palmi li seguì fin sotto i boxer, mugugnando soddisfatta quando sentì le natiche sode del compagno.
Ji si appiattì istintivamente sulla ragazza che, avendo le gambe aperte, si ritrasse subito, chiudendo le cosce al percepire quella presenza in un punto tanto delicato.
Arrossì, mentre Ji la guardava interdetto e preoccupato. Elisa immerse nuovamente le iridi in quelle di lui, che ricambiò lo sguardo interrogativo accarezzandole la guancia.
«Tutto bene?» chiese premuroso, le labbra lucide e socchiuse.
Elisa morse le proprie mentre rispondeva.
«È che… questa sarebbe la mia prima volta… » gli confidò impacciata, mentre Ji replicava stupito che non l’avrebbe mai immaginato.
Rimasero in silenzio per qualche istante, poi lui le baciò una guancia, dolce.
«Te la senti?» domandò con sguardo cristallino. Elisa sapeva che non le avrebbe fatto del male, ma era ugualmente tesa.
Lo guardò seria e vogliosa, annuendo poi lentamente, come in trance e lui tornò a baciarla.
Finalmente il ragazzo la liberò della canottierina e le slacciò il reggiseno, senza però toglierglielo, provvedendo poi frettolosamente alla propria maglia.
Elisa fissò estasiata i muscoli del giovane sopra di lei che si allungavano e si contraevano per compiere quel gesto, l’orecchino che scintillò alla luce del tardo sole estivo, e sentì la sua eccitazione crescere.
Labbra e mani non seguivano più alcuna direttiva del cervello, agendo secondo una propria volontà ed assaporando pelli lisce e nervi in tensione. Lei seguì ancora una volta, ammaliata, le curve del corpo di Ji, che condussero il suo sguardo all’allacciatura dei pantaloni.
Allungò le dita e li slacciò, appena titubante, svelando il rigonfiamento sempre più evidente nei boxer dell’altro. Ingoiò, sentendosi d’un tratto più bagnata di quanto ricordasse mentre lui le toglieva definitivamente il reggiseno e le sfiorava con la guancia una delle colline, le labbra sensuali ad un centimetro dal bottoncino di carne.
Sospirò, ed il calore del suo fiato la fece rabbrividire, mentre si sentiva andare a fuoco.
Ji cominciò a baciarle i seni, prendendo un capezzolo in bocca e stuzzicandolo con calma, succhiandolo e mordicchiandolo sapientemente, imitando i gesti con il gemello aiutato da pollice ed indice.
I due non riuscivano a trattenersi dallo strusciarsi l’uno sull’altro, gemendo piano e graffiandosi la pelle per non affrettare le cose.
Ma Elisa stava provando molto più piacere di quanto non avesse mai immaginato e sapere che era Ji Yong quello che la stava facendo godere tanto non faceva che accrescere il suo desiderio.
Si lasciò andare, abbassando i boxer del giovane e liberò la sua virilità tesa, calda e pulsante. Sentiva la gola prosciugata e mentre ansimava per le attenzioni che stava ricevendo reclinò la testa all’indietro, la vista offuscata improvvisamente dalla chioma bionda di lui.
Non vedeva, ma le dita corsero ugualmente a quella durezza, avvolgendovisi, e prese a massaggiarla piano, insicura. Eppure Ji gemeva e – Dio! – era il suono più paradisiaco che Elisa avesse mai udito.
Incoraggiata, continuò mentre Ji respirava a denti stretti e le sollevava la gonna, scostandole le mutandine. La ragazza sentì un dito sfiorarle leggero la pelle dal clitoride all’entrata e rabbrividì, costringendosi a non richiudere le gambe. Lui ripeté il gesto e la compagna si rilassò, sospirando insieme all’altro.
Ji quindi si portò l’indice alla bocca e, inumiditolo, lo ricondusse alla femminilità di Elisa. Con la falange più scivolosa riuscì immediatamente a strappare un profondo ansito dalle labbra della giovane che cominciò a capire davvero cosa significasse “avere voglia”.
Elisa sentiva gemiti impellenti sfuggire al proprio controllo, dare voce al proprio piacere, ma era imbarazzata come mai prima. Si morse le labbra, coprendole con una mano per impedirsi di emettere suoni di cui si sarebbe potuta pentire, ma Ji non glielo permise, prendendole le dita ed incrociandole alle proprie, inchiodandole poi il palmo ad un lato della testa e baciandola con quelle labbra che avrebbero dovuto essere dichiarate illegali. Lei le succhiava, le voleva, completamente assuefatta.
Respiravano affannosamente, le teste che vorticavano fortissimo mentre le dita di lui sull’intimità della giovane si spostavano. L’indice cominciò a stuzzicarle l’entrata, ed il pollice lo sostituì sul clitoride.
Si guardavano negli occhi, color notte immerso nel colore delle stelle, ed infine il dito la penetrò, ruotando dolcemente. La pelle morbida della vulva sfregò contro le falangi, inumidite ulteriormente dagli umori di lei, sempre più abbondanti. L’indice prese a saggiarle le pareti interne, discernendo quelle lisce da quelle morbide cercando di capire quali punti le dessero più piacere. Una volta trovatili, cominciò a colpirli ripetutamente, con delicatezza ed il cuore di Elisa si gonfiò d'eccitazione mentre d’istinto allargava ulteriormente le gambe.
Il medio quindi andò ad accompagnare l’indice e le loro labbra non riuscirono più a rimanere unite per oltre due secondi, troppo impegnati a gemere per baciarsi profondamente come avrebbero voluto.
Arresosi, Ji decise di scendere nuovamente sul corpo della compagna e cominciò a lasciarle segni sul collo, sul petto, sui seni, sulla pancia e sentì ancora una volta i capezzoli di lei inturgidirglisi sotto la punta della lingua.
Improvvisamente, due dita divennero infinitamente insoddisfacenti.
Elisa lo chiamò, la voce arrochita dalla malcelata voluttà e lui si tese ancora di più nel pugno di lei, che continuava lascivamente a masturbarlo, cominciando a sentire dell’umido sui polpastrelli che la mandò su di giri.
Ji avrebbe voluto prenderla in quel momento, subito, ma voleva essere sicuro di averla preparata abbastanza a dovere, pertanto infilò un terzo dito nell’intimità di lei, sospirando di soddisfazione al sentirla ormai dilatata e pronta. Aveva le dita umidissime e la cosa lo eccitava da morire.
Le estrasse, e se non fosse che Elisa era consapevole che la aspettava un piacere ancora maggiore non gliel’avrebbe mai permesso.
Ji la guardò: la ragazza gli si era completamente abbandonata, gli occhi lucidi, le labbra gonfie, la guancia umida di saliva ed arrossata, la pelle segnata dal suo passaggio e lei non poteva far altro che desiderare quel ragazzo ed il suo corpo con ogni fibra del suo essere.
Ricambiò l’occhiata e tremò di aspettativa: il suo sguardo era pulito, la bocca dischiusa e gonfia per i baci travolgenti che si erano scambiati, il petto marmoreo e perfettamente liscio, i fianchi, le spalle e la schiena incisi dall’inchiostro nero… tutto le faceva venire una gran voglia di accarezzarlo e seviziarlo.
Avrebbe voluto succhiargli i capezzoli, morderli, sentirlo gemere, ma ci sarebbero state altre occasioni. O almeno, così si augurava. In quel momento aveva solo bisogno di sentirlo dentro di sé.
Quasi con nervosismo continuava a stringergli le natiche con una mano e l’erezione con l’altra finché Ji non la fermò ed a quel punto gli lasciò campo libero.
Con delicatezza il giovane le afferrò una coscia e se la portò attorno ai fianchi torniti – Dio, poteva esistere un’imperfezione in quel ragazzo perfetto che ora era sopra di lei e la stava guardando come fosse il piatto più prelibato sul pianeta? – facendo lo stesso con l’altra.
Riprese a baciarla, sospirando quando la sua virilità sfregò contro le labbra della vulva e con un enorme sforzo allungò una mano verso i jeans, estraendone un pacchettino quadrato. Ne strappò l’involucro con i denti, prendendone il contenuto e porgendolo con sguardo dolce e languido alla compagna.
Elisa lo prese, le dita scosse da brividi, e lo infilò sul membro teso e bagnato del giovane, per poi stringergli le gambe più saldamente attorno alle anche.
Allora Ji, afferrata la propria erezione, la portò all’entrata di lei, spingendo piano. Elisa gli artigliò le scapole con forza: era grande, molto, e la riempiva completamente.
Quando fu totalmente dentro Ji si fermò a guardarla e cominciò a muoversi piano, con lentezza estenuante, tentando di farla abituare. Non si fermò però, non voleva che la fiamma che bruciava tra di loro dall’inizio della serata si dissolvesse, facendo scemare la loro eccitazione.
La penetrò guardandola negli occhi mentre lei sospirava e gemeva, troppo eccitata per provare eccessivo dolore. Non si aspettava sarebbe stato così piacevole.
Cominciò ad andare incontro alle spinte di Ji mentre i suoi seni danzavano, e presero a muoversi in sincrono. Ji calò su di lei, baciandola, mentre con una mano le stringeva una delle colline e con l’altra le saggiava ogni brano di pelle, incapace di decidere dove soffermarsi.
I loro corpi ardevano l’uno a contatto con l’altro, sudati ed accaldati.
Elisa sentiva il membro bollente di lui affondare e riaffondare centimetro dopo centimetro dentro di lei, riemergere e rituffarsi nel proprio antro caldo senza freno, ripetutamente, finché quasi non dimenticò chi fosse e dove si trovasse, non esisteva altri che Ji in quel momento.
Ansimavano insieme, si mordevano le labbra, si succhiavano le carni morbide, leccando poi le zone lese ed intrecciavano nuovamente le lingue in baci ben molto poco casti e molto più bagnati, mentre anche tra di loro cominciò a diventare umido.
Probabilmente Elisa era già venuta una volta, forse no, non ne aveva idea e non aveva importanza, sapeva solo che non riusciva neppure a concepire come avrebbe potuto averne abbastanza.
Ji era eccitante, dolce, passionale. Pareva leggerle la mente mentre portava entrambi al piacere più puro senza riuscire a trattenere ansimi e gemiti dalle sue labbra peccatrici, armonizzati dalla sua voce sensuale e roca che le gemeva nell’orecchio, come a volerla provocare ulteriormente ed il suo bacino si muoveva con frenesia sempre maggiore.
Ad Elisa girava la testa e non avrebbe mai voluto fermarsi. Vedeva l’espressione di pura libido di Ji sopra di sé e non desiderava altro che poterlo guardare ancora.
Rabbrividì, mentre le succhiava ancora una volta i seni ed inarcò la schiena, quasi al limite.
Le spinte si erano fatte sconnesse, ormai era solo un turbine di lussuria in cui la razionalità era bandita.
La ragazza lo sentì tremare, tendersi, irrigidirsi mentre veniva, accompagnato dall’espressione più erotica che avesse mai visto ed un gemito che fece venire anche lei immediatamente.
Quasi le crollò addosso, sdraiandosi per metà al suo fianco ed estraendo la sua ormai soddisfatta erezione prima dall'altro di lei e poi liberandola del profilattico, annodandolo e lasciandolo sul pavimento, in un punto imprecisato lontano dal tappeto.
Respiravano affannosamente, la pelle imperlata di sudore, i capelli scompigliati, e Ji la strinse a sé. Elisa sentì i muscoli delle braccia tremare prima di annodare le gambe attorno ad una sua coscia e cingerlo in vita, strofinando la guancia contro il suo torace, aspirandone il profumo acre di sesso e dandogli baci soffici sulla pelle accaldata.
Lui le accarezzava i capelli con le dita abili, massaggiandole la cute in gesti rilassanti che la fecero sprofondare in uno stato di torpore, rilassamento e serenità indescrivibili.
Era stato appagante come nient’altro ed Elisa non riusciva a pensare a nulla che non fosse ciò che aveva fatto mentre guardava raggiante il compagno.
Il sorriso di lui era qualcosa di più luminoso del sole. Le baciò le labbra, la punta del naso, la guancia e continuava a stringerla come nemmeno nei suoi sogni più reconditi la giovane avesse immaginato.
Rimasero su quella moquette finché lei non si assopì, senza neppure accorgersene.
Ji la guardò, il volto dolce e raggiante, e le scostò le ciocche castane dalla fronte, depositandovi un altro bacio.
Poi abilmente sciolse l’intreccio di braccia e gambe che li univa e, presala in braccio, la adagiò sulle coltri soffici del letto a due piazze, coprendola con un lenzuolo e sdraiandosi accanto a lei.
Prima di raggiungerla nel mondo dei sogni però, si premurò di abbracciarla, facendole da cuscino con una spalla mentre la ragazza, inconsciamente, si stringeva a lui.
Infine si addormentò, un sorriso radioso sulle labbra.


빅뱅~


Il sole caldo e confortevole di metà mattinata filtrava attraverso i vetri della camera, illuminava la stanza e si depositava sui cuscini dell’ampio letto matrimoniale.
Ji Yong strizzò gli occhi, muovendosi con cautela per non svegliare la ragazza che riposava serenamente al suo fianco. La osservò in religioso silenzio, senza smettere di sorridere mentre le accarezzava dolcemente la chioma scompigliata.
Poco dopo anche la compagna si destò, splendente, e regalò un enorme sorriso al giovane.
Un bacio.
«Annyeong» la salutò, ed Elisa ricambiò.
«Come ti senti?» le domandò cauto, mentre la guardava rifletterci su.
«Mi fa un po’ male» sentenziò infine ridendo e lui, notando il tono giocoso, tirò un sospiro di sollievo.
«Comunque se dovessi… »
«Ji» lo interruppe lei. «Sto bene, non preoccuparti» lo rassicurò mentre il ragazzo le depositava un bacio sulla fronte.
Restarono abbracciati per un po’, finché il cantante non udì la pancia di Elisa brontolare e suggerì d fare colazione, ottenendo un responso positivo.
Si mise a sedere, infilandosi i boxer scuri e scese rapidamente al piano di sotto per chiamare la caffetteria.
Elisa nel frattempo si era messa a frugare nell’armadio di lui, da cui estrasse una maglia larga, di quelle che adorava e che le scendeva fino a metà coscia.
Quindi lo raggiunse soddisfatta, respirando il profumo del ragazzo di cui era cotta da sei anni e gli si accomodò in grembo sul divano di pelle nera, giocando con i suoi capelli.
Poco dopo l’annuncio del servizio in camera li richiamò e Ji andò ad aprire, trovandosi davanti un sorridente ed ammiccante Young Bae con corredato Dae Sung nascosto – per così dire – sotto la tovaglia bianca del carrellino.
Il cantante si passò una mano sul viso, affranto, mentre Elisa si voltava e li salutava con la mano ed il suo migliore amico cominciava a fargli domande impertinenti sulla serata.
«Non credo siano fatti tuoi» lo licenziò Ji concedendogli un sorriso ironico e tirando verso di sé brioches, pasticcini e bricchi di latte e caffè, impedendo all’altro infiltrato di penetrare nel suo territorio.
«Non potrai sfuggirci per sempre, Kwon» lo minacciò Bae, riuscendo a strappargli la promessa che si sarebbero rivisti di lì ad un’oretta.
«Conterò i secondi» lo avvertì allontanandosi, mentre Dae Sung alle sue spalle puntava due dita dai suoi occhi al viso del Leader.
Una volta tornata la calma, Ji ed Elisa mangiarono in santa pace, parlando tranquillamente e scambiandosi qualche bacio tra un bigné e l’altro.
Quando ebbero finito, Elisa si affrettò a recuperare biancheria intima e tutto il resto, pronta a tornare alla VIP Room; prima di salutarsi, fece per ridargli la maglia, ma lui liquidò la questione dicendole che poteva tenerla e le prese delicatamente una mano, sfiorandole le labbra con le proprie.
«A dopo»



Toc toc toc toc!
«Susy vuoi aprirmi o no?!» urlò Elisa in direzione della camera, senza però ottenere alcuna risposta.
L’aveva già chiamata diverse volte e sapeva dai ragazzi che non era ancora scesa al bar per mettere qualcosa nello stomaco.
“Al diavolo!”
Si arrese, frugando nella tasca del vestito ed estraendone la chiave mentre si chiedeva perché cavolo Bae e Sung non l’avessero svegliata mezz’ora prima.
“Si vorranno sicuramente vendicare” confutò lei aprendo finalmente la porta ed entrando a passo di carica nella stanza.
Non appena buttò l’occhio in direzione del letto tuttavia si immobilizzò: Susy giaceva prona, in biancheria intima e pressoché defunta sul materasso, dormendo della grossa.
Elisa si passò stancamente una mano sul volto per recuperare le energie ed alzando gli occhi al cielo le si avvicinò, scuotendola un po’ e chiamandola più volte.
Attorno al decimo tentativo udì un mugugno indefinito provenire dal corpo esanime.
«Susy, che hai combinato?» le chiese leggermente irritata, ottenendo in cambio solo una serie di versi impasticcati.
Il pensiero di quello che avrebbe potuto fare la ragazza le fece tornare in mente quello che a lei era successo. In un attimo recuperò tutto l’entusiasmo di pochi minuti prima e cominciò ad urlare e saltellare per la camera, su di giri.
«Non sai cos’ho fatto stanotte!» esultò al settimo cielo, ricordandosi poi di non essere comunque al centro del mondo e cercò per un istante di mostrarsi più gentile.
«No, aspetta, tu che hai fatto?!»
Attese giusto una manciata di secondi, ma vedendo il volto dell’amica impastato di sonno constatò che in ogni caso la sua, di esperienza, era stata fuor di dubbio più sensazionale.
«No, ma chissene frega, parlo prima io!»
Prese fiato, mentre Susy si tirava faticosamente a sedere.
«Ho fatto l’amore con Ji Yong Kwon!» gongolò al massimo della felicità. Dirlo ad alta voce lo faceva sembrare più vero, per quanto surreale suonasse.
Tuttavia, la reazione dell’amica non le diede la soddisfazione sperata.
«Sì, sì, l’hai fatto con Ji Yong Kwon… » sbadigliò, cercando gli occhiali. Trovatili, li inforcò sbattendo un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco la stanza. Quando ci riuscì, puntò le iridi color cioccolato sull’amica che la fissava come se avesse perso un passaggio fondamentale.
«Ommioddio, l’hai fatto con Ji Yong Kwon!» ripeté urlando come una matta.
E senza darle il tempo di replicare la trascinò sul letto puntandole le palle degli occhi addosso.
«Raccontami tutto!»


Elisa doveva saperlo che spiegare una cosa del genere ad una persona come Susy l’avrebbe condotta nel suo baratro senza fondo di battutine e commenti maliziosi e spinti.
Ma d’altro canto era anche l’unica che avrebbe potuto gioirne come fosse capitato a lei, era una cosa eccezionale.
«Ah, comunque Ji ci ha dato appuntamento all’ingresso»
«Quando?»
Elisa guardò l’orologio e fece un rapido calcolo, per poi farsi prendere dal panico.
«Tra dieci minuti!»
Le due si guardarono un attimo e l’istante successivo entrarono in modalità tornado cercando ovunque qualcosa da mettersi, sistemandosi i capelli e lavandosi freneticamente i denti.
Fecero tutto talmente di corsa da finire per essere pronte con largo anticipo, e cominciarono a scendere le scale più tranquille.
«Ah, ma poi cos’hai fatto tu dopo la festa?» le chiese Elisa ora che si era tolta il bisogno di confidarle quella che era stata la notte più strabiliante della sua vita.
Susy ci pensò su e subito dopo cominciò con tono lascivo: «Non crederai mai chi ho incontrato!»
«Sas’ke?» rispose lei cercando di smontarla vista la reazione che l’amica aveva avuto alla sua rivelazione quasi un’ora prima. Purtroppo però non ottenne l’effetto desiderato.
«Ma va… » e la guardò cercando di comunicarle qualcosa, per poi arrendersi.
«Gale e Robert!»
Anche Elisa si bloccò e la guardò tra l’incredulo ed il preoccupato.
«Oddio, e sono ancora vivi?»
« … non lo so» confessò onestamente l’altra. «Dopo che sono scappati dal bar ricordo di aver bevuto un paio di Bloody Mary… »
Elisa annuiva cercando di seguire la vicenda.
«E come sei tornata qui?»
«C’erano Choi e Ri con me… credo… »
Ormai erano arrivate nel corridoio dell’ingresso, sentivano le voci dei ragazzi dietro l’angolo.
All’improvviso, vennero colte da un pensiero fulmineo che le fece fermare di botto.
«Ma pensi l’abbiano detto agli altri?» chiese allarmata Susy, fermando l’amica per un polso, l’espressione di Elisa speculare alla propria.
«Ji non gliel’avrà raccontato, vero?»
Tempo un paio di secondi ed in sincrono tentarono di fare retrofront. E ci sarebbero anche riuscite se non fosse che Young Bae le scoprì col piede sul primo gradino della rampa.
«Ciao ragazze, ben arrivate!» le salutò con aria saputa e le due capirono all’istante che la colpa non era di chi temevano, ma di quel concentrato di energia che le stava amabilmente scortando, con le braccia attorno alle loro spalle, dal resto del gruppo.
Una volta riunitesi agli altri, le ragazze notarono subito che anche Hyun e Seung Ri avevano la faccia di chi aveva passato la notte in bianco.
Susy si sentì in colpa. Un po’.
Ji Yong si fece strada tra i corpi dei compagni e reclamò Elisa, districandola dall’abbraccio dell’amico. I due si guardarono, imbarazzati e felici al contempo, ed il cantante le strinse la mano, rivolgendosi poi ai presenti.
«Ragazzi, da oggi c’è una novità» annunciò rivolgendosi agli altri cinque in ascolto, tornando quindi a guardare la giovane.
«Elisa ed io stiamo insieme»
Quella dichiarazione provocò la stessa reazione in tutti gli utenti.
«Davvero?!» gli chiese Elisa stupefatta, mentre anche le altre paia di occhi sgranati li puntavano.
«Davvero?!»
Susy lanciò un’occhiata accusatoria all’amica, come ad esigere una spiegazione del perché non glielo avesse detto, nonostante fosse evidente che la ragazza era sorpresa tanto quanto lei.
La mora si preoccupò un attimo, prima di congratularsi. Sapeva che i sentimenti di Elisa non erano passeggeri ed infantili, ma sinceri. Lo amava davvero. Ed anche se non disegnava un minimo di distanza in un coppia, 9000 kilometri a dividerli non erano uno scherzo.
Tuttavia, il modo in cui si guardavano la rincuorò e quando Ji confermò il suo annuncio, sorrise.
«Davvero» disse sicuro per poi baciarla dolcemente.
A quel punto Susy recuperò il suo sorriso malizioso e fece un occhiolino al cantante, dando poi di gomito alla ragazza che alzò gli occhi al cielo e che da quel momento in avanti si sarebbe divertita a chiamare Signora Kwon.



Dopo aver fatto un giro a Pocheon, Ji li aveva portati nel suo ristorante preferito della città, con grande entusiasmo di Elisa che non vedeva l’ora di gustarsi di nuovo la kimchi. Aveva sempre amato il piccante e quel piatto le piaceva moltissimo.
Così, mentre Susy evitava accuratamente qualsivoglia pietanza che implicasse l’utilizzo di spezie che l’avrebbero portata a scolarsi ogni brocca d’acqua della sala, Ji si ritrovò a tentare di insegnare alla sua nuova ragazza ad usare le maledette (a detta di Susy) bacchette metalliche, finendo col dovervi rinunciare, non senza ridere dell’impacciataggine e del broncio di lei, che si affrettò a trasformare in sorriso con un bacio a fior di labbra.


빅뱅~


«Susy, non voglio, lasciami stare!» si lamentò Elisa, rifiutandosi di mettere in valigia l’altra metà dei propri vestiti.
L’amica però non aveva intenzione di demordere e la tirò per un braccio, tenendola per le spalle e guardandola seriamente negli occhi.
«Lo so, Eli, lo so» sentenziò scuotendola piano, finché l’altra non si accasciò con la testa sul petto della mora, che prese a giocare con i suoi capelli mentre la abbracciava.
«Ma torneremo» le promise. «Torneremo»




Il resto di agosto era volato in un batter d’ali e tanto, troppo presto era arrivato il primo settembre.
L’aeroporto di Incheon era gremito, ed il gruppetto si era già radunato ai metal detector, pronto per gli ultimi saluti.
Non senza le tragiche lacrime di Young Bae e lo sventolamento di cappello e fazzoletto di stoffa di Susy, i sette si salutarono calorosamente, facendosi giurare a vicenda che si sarebbero tenuti in contatto. Poi Susy aveva attraversato i sensori e quattro dei ragazzi avevano riferito al loro Leader che l’avrebbero aspettato all’ingresso, ottenendo in risposta solo un cenno distratto.
Rimasero solo Elisa e Ji Yong, incapaci di separare le loro dita intrecciate. Con un profondo sospiro, Ji la abbracciò, accarezzandole la schiena e baciandole una tempia; tuttavia nessuno dei due voleva dirsi arrivederci con patetica drammaticità, quindi il cantante sorrise e portò le labbra all’orecchio di lei.
«Ci vediamo presto» sussurrò dolce per poi allontanarsi abbastanza da poterla guardare in volto. Rincuorato, vide che anche lei era serena.
«Ci conto» lo minacciò Elisa, per poi stampargli un bacio su quelle labbra perennemente ed assurdamente invitanti.
Si separarono ed Elisa, armata di bagaglio a mano e tracolla, superò i controlli a passo spedito.
Ji restò a guardarla senza smettere di sorridere, mentre il cuore gli batteva furiosamente. Era incredibile come quella ragazza fosse entrata in modo tanto radicale nella sua vita, e lo era altrettanto che le si fosse affezionato come mai a nessun’altra.
La seguì con gli occhi mentre superava il gate, e stava quasi per girarsi quando la vide correre indietro, come se avesse dimenticato qualcosa di essenziale.
«Quando hai detto che ci sarà il vostro comeback?» urlò ansimando. Necessitava di quell’informazione, era di importanza vitale.
Il cantante, dapprima allibito, scoppiò a ridere, contagiando anche la ragazza. Era incredibile.
Quando l’eccesso di risa terminò, si ricompose e si voltò, dirigendosi all’ingresso e sollevando un braccio in saluto.
Vedendolo avviarsi all’uscita, il sorriso di Elisa si afflosciò come un palloncino sgonfio e una volta realizzato che il giovane pareva non aver intenzione di tornare sui propri passi, cominciò ad inveire.
«Ehi, non mi hai risposto!» lo richiamò ottenendo solo un altro cenno di arrivederci. Ostinata però, volle vanamente ritentare. «Sono pure sempre una Vip, devo saperle queste cose!»


빅뱅~


Susy si chiedeva disperatamente perché era tornata a Parigi visto che non aveva soldi da spendere.
Oh, certo. Biglietti gratis e pass per il backstage per il concerto tappa Francia del tour mondiale dei BIGBANG.
Sinceramente non le importava nemmeno della città, né della sua gola rauca a furia di cantare con la platea ed il gruppo.
La cosa importante era che per la prima volta G-Dragon avrebbe presentato ufficialmente la canzone che la sua migliore amica aveva visto nascere.
Il pubblico aveva dondolato le braccia sulle note di Für Elisa, commosso, mentre lei teneva un braccio attorno alle spalle della compagna, che sorrideva con le lacrime agli occhi.
Lo spettacolo era stato grandioso e si era concluso con il bis di almeno quattro brani, numero che sarebbe aumentato se non fosse che gli artisti non potevano mettere radici su quel palco.
Al termine dello show, lei, Elisa e Marco, il fratello di quest’ultima, si diressero dietro le quinte. Inizialmente non avrebbero voluto con loro anche il piccoletto, ma farlo desistere dal voler incontrare Tae Yang era stato impossibile.
Camminavano lungo il corridoio illuminato fiocamente, distinguendo una manipolo di giornalisti e buttafuori accalcarsi alla porta dei vip. Le due capirono che nessuno della stampa aveva il permesso di intervistarli in quel momento, quindi avanzarono, facendosi largo tra la folla per riuscire a passare.
Finalmente i curiosi si risolsero di sgombrare il passaggio e Susy fu costretta a litigare prima in francese e poi in coreano con la guardia, che sosteneva che i loro lasciapassare fossero falsi.
Evidentemente la discussione si sentiva anche dall’interno perché ad un certo punto la porta si aprì, rivelando un Young Bae a torso nudo che sorrise svenevole.
«Sono con noi» spiegò all’omone, ammiccando poi in direzione degli ospiti.
Elisa teneva saldamente le mani sulle spalle del fratello, cercando di trattenerlo dal saltare addosso al suo dio personale. Tuttavia non riuscì a tappargli la bocca.
«S-sei Tae Yang!» esclamò strabuzzando gli occhi ed indicandolo forsennato come fosse Gesù sceso in Terra.
Ma il cantante, anziché spaventarsi per tutta quell’enfasi, gli scompigliò i capelli ed allargò il sorriso.
«Sì, direi di sì» confermò, rivolgendosi poi anche alle ragazze. «Su entrate!»
Per i successivi cinque minuti, nel camerino non si videro altro che baci ed abbracci, mentre Susy presentava Marco agli altri e salutava i suoi bias.
Ji Yong ed Elisa si allontanarono dal trambusto e si baciarono piano, profondamente, stretti l’una tra le braccia dell’altro.
Rimasero in quella posizione a guardarsi adoranti finché il chiasso che li circondava non si attenuò. A quel punto la ragazza si congratulò con il gruppo.
«Carino il concerto» minimizzò con ironia. Era stato il migliore che avesse mai visto. «Più di tutto però ho apprezzato il nuovo singolo di Ji»
Risero tutti, mentre Dae Sung la spintonava giocosamente.
«Come se non l’avessi già sentito in anteprima!»
Elisa fece per replicare, ma le braccia di Ji Yong, strette attorno alla sua vita la trattennero e sospirò quando lui le depositò un bacio dietro l’orecchio.
In quel frangente si intromise Hyun, armato si sorrisetto sardonico.
«Certo che tra te e Yong non so chi diventerà pelato per primo» sentenziò indicando i capelli di lei, di un appariscente fuxia che sfumava verso le punte diventando via via sempre più scuro e lanciando un’occhiata alla chioma rosa del Leader.
Elisa ribatté subito: aveva immaginato che Choi avrebbe fatto un’osservazione del genere e sapeva dove colpirlo per fare centro. Pertanto, accennò alla capigliatura dello hyung.
«Disse quello con la tinta azzurra»
Ji soffocò all’istante la risata nella spalla della compagna mentre Susy, dapprima seria, scoppiò a ridere puntando il dito verso l’espressione offesa di Choi reggendosi a Ri, anche se tra i due era difficile dire chi fosse il più ilare.
Alla fine però la mora, mossa a compassione, gli andò a schioccare un bacio sulla guancia per consolarlo e lui le accarezzò i capelli coccolandola un po’.
Ad un certo punto Susy intercettò le iridi chiare di Elisa che le lanciò un’occhiata eloquente.
La ragazza quindi prese in mano la situazione, dichiarando di non voler sentire storie e che li avrebbe portati tutti in una delle migliori crêperie di Parigi.
Dae Sung provò coraggiosamente a ribattere con un ben poco convinto: «Veramente io sarei a posto… » ma la frase sfumò in un mugolio indistinto quando incrociò lo sguardo assassino di lei.
I quattro dunque si affrettarono ad uscire e la mora si rivolse gioviale a Marco.
«Tu vieni?» chiese, ottenendo in risposta degli occhi a palla ed un tono esaltato.
«Io vado dove va Tae Yang!» proclamò, ed il suo bias gli diede una pacca sulla schiena, lasciando che il piccoletto lo precedesse fuori dalla stanza. Susy si spostò in fondo alla fila, attardandosi un ultimo momento prima di seguirli, la mano ancorata alla maniglia dell’uscio.
«Voi due raggiungeteci là. A dopo!» si congedò, dando loro il nome del ristorante e richiudendo la porta.
«Sì, sì, andate… » salutò Elisa a denti stretti, scoccandole però un’occhiata riconoscente, accompagnata dal cenno di Ji.
Non appena furono soli, il cantante s’impossessò delle labbra della ragazza, circondandole gelosamente i fianchi e sentendo il corpo sinuoso di lei premuto contro il suo. Aveva caldo, molto caldo, e non perché si era appena esibito davanti a migliaia di persone sotto le luci accecanti del palco.
Con un ansimo la sollevò in braccio, facendola sedere sul tavolo del trucco mentre lei gli cingeva la vita con le gambe e gli passava le mani nei capelli sgargianti.
«Mi sei mancata» confessò Ji, sfiorandole delicatamente la fronte, il naso, le guance e tornando poi sulle labbra.
«Anche tu» sospirò lei abbracciandolo più forte.


빅뱅~


Quella situazione sapeva di déjà-vu, anche se un elemento stonava con l’ultima volta che si erano trovati tutti insieme in un aeroporto: Elisa e Susy avevano provato ripetutamente a scrostare Marco dalla gamba di Young Bae senza successo, dato che il ragazzo, con un’interpretazione degna del teatro raciniano e gli occhi lucidi, tentava di rimanere abbarbicato al suo bias, strillando disperato.
«No, Tae, non mi lasciareee!»
«Marcooo!» si sbracciava il cantate, mentre Dae Sung, esasperato da quella patetica scenetta infantile, trascinava via il compagno per l’orecchio.
«Muoviti, idiota… » borbottò irritato, e vedere proprio Kang assumersi quella responsabilità non fece che rendere il quadretto più comico.
Una volta che il minore venne scollato dall’altro, Susy gli passò un braccio attorno alle spalle sorridendo bonaria e lo scortò abbattuto fino ai fingers.
Elisa seguì con lo sguardo l’amica che si allontanava con il fratello per poi baciare malinconica Ji e farsi cullare nel suo abbraccio, stringendo tra le dita la sua maglia chiara. Lui cercava di farla rilassare, accarezzandole dolcemente i capelli.
La ragazza sospirò e Ji si scostò, sollevandole il mento e guardandola nelle iridi cerulee. Le si avvicinò finché tra loro non rimasero che pochi millimetri, i loro cuori che rimbombavano forte, sospesi in quell’attesa in cui anche solo respirare avrebbe potuto rovinare tutto.
Ji Yong prese fiato e, sorridendole, sussurrò: «Saranghae»
Elisa sgranò gli occhi, sorpresa e rossa in viso, ma fu solo un istante: quello successivo le loro labbra si incontrarono una, due, tre volte, il fiato corto per l’emozione, mentre lei gli teneva il viso tra le mani e continuava a ripetere, come in una mantra: «Na doh9», cullata dalla sua risata dolce e cristallina.


빅뱅~


«Allora? Tutto bene?» le fece Susy togliendosi un auricolare quando Elisa le si sedette accanto e guardandola preoccupata: la ragazza aveva un’espressione sognante e non ci mise molto a capire perché.
Le strinse il braccio solidale e le passò la cuffietta e nella mente dell’amica splendeva ancora il sorriso di Ji.
Ad un certo punto le vibrò il cellulare. Curiosa, lo estrasse dalla tasca dei jeans ed aprendo il messaggio si illuminò, radiosa.

A presto ;)
Ji Yong









~
/kkeut/



… OR MAYBE NOT?







1Siamo Arrivati
2Scusa
3Capito?
4No
5Grazie
6Ciao, papà
7Bentornato, figliolo
8Permesso...?
9Anch'io





Ed eccola qui, finita! O quasi!
Avverto nuovamente che lo spin off è persino più idiota,
quindi se ei non piace, ei non lice!
Il Santo Marito di cui si parla è Itachi Uchiha, personaggio
che Elisa ama moltissimo, ed in Crayon non c’è davvero un piano,
l’ho inserito Io per licenza poetica! E perdonatemi se ho sbagliato
qualcosa delle frasi coreane, ho fatto tremila ricerche
ma si può sempre interpretare male! In tal caso, suggerimenti
e correzioni mi fanno solo piacere!






Special:

SUSY MEETS DOWROLD!




Susy passeggiava per Seoul con Ri e Hyun, respirando la vita notturna della metropoli.
Dopo che gli ospiti avevano cominciato ad andarsene, lei ed i suoi bias avevano deciso di fare un giro per la capitale, andando per locali e fermandosi in qualche discoteca.
Erano quasi le undici ed il gruppetto si trovava in una delle vie più frequentate dai giovani quando la ragazza si bloccò di colpo, sopraffatta da una strana sensazione. Non sapeva perché ma in quel momento la sua mente fu attraversata da un solo pensiero: Elisa ha appena fatto porcate.
Si riscosse, scuotendo il capo e chiedendosi se il suo sesto senso avesse fatto centro. Ghignò: se davvero era come pensava, era anche arrivato il momento, l’avevano tirata troppo per le lunghe.
“Certo che se volevano stare un po’ da soli bastava chiedere…” pensò ironica. “Anche se con Dae e Young lì la vedo dura”
In quel frangente, i due cantanti la fissarono preoccupati da quella strana reazione isterica e la trascinarono nel locale più vicino per bere qualcosa.
Accomodatisi al bancone, Susy ordinò un Bloody Mary, mentre i suoi accompagnatori optarono uno per un Gin Lemon e l’altro per un Cosmo.
Una volta serviti, diedero le spalle al bar per osservare la sala. In fondo era stato lasciato dello spazio per il dancefloor, mentre il resto era occupato da tavolini tondi dagli alti sgabelli.
Susy scrutò i bei volti asiatici di uomini e donne, cercandone qualcuno di interessante, quando i suoi occhi intercettarono un pizzetto familiare ed una mascella inconfondibile.
Si strozzò col Bloody Mary, prendendo a sputacchiare l’alcolico tutt’attorno mentre lo hyung ed il maknae si proteggevano dagli schizzi.
La ragazza si diede qualche colpo sul petto, cercando di liberare le vie respiratorie e quando finalmente riuscì a riprendere fiato balbettò esagitata.
«Oh. Mio. Dio. Q-quelli sono Robert Downey Jr e Gale Harold! Allo stesso tavolo!»
Ri e Choi calamitarono la loro attenzione nella direzione indicata dalla compagna e si passarono disperati una mano in fronte. In quasi tre mesi avevano imparato a conoscerla almeno un po’ e se c’era una cosa che avevano imparato era quanto Susy potesse diventare spaventosamente pericolosa una volta entrata in modalità fungirl.
Quindi erano pronti a tutto quando la videro avanzare a passo sicuro verso i suoi idoli, spigliata, mentre immaginavano il suo sguardo assatanato e gli occhi fuori dalle orbite.
Infilatasi una mano nella tasca posteriore dei jeans corti, ne estrasse una penna ed un fogliettino, porgendoli senza nemmeno richiamare la loro attenzione, ai due attori, allungando le braccia come fosse uno zombie.
«Autografo» imperiò con voce cavernosa, degna di un film horror.
I due uomini interruppero la loro conversazione e si voltarono verso la ragazza, scambiandosi un’occhiata sconcertata. Gale sollevò un sopracciglio, interrogativo, mentre Robert sorseggiava un Cuba Libre osservando la scenetta.
Susy però, dal momento che il suo imperativo non era stato recepito, si risolse di aggiungere un: «Subito!»
In quel frangente Harold e Downey parvero comprendere la richiesta della giovane e, facendo spallucce, firmarono tranquillamente sotto le pupille e le narici dilatate di Susy, tesa come un felino e rossa in viso.
Li osservava segnare il foglietto candido quando ricordò che il suo cellulare scrauso non era in grado di fare fotografie di qualità superiore ai due pixel e che aveva lasciato la maledetta macchina fotografica da cui non si separava mai alla pensione.
Poi però si ricordò di trovarsi con due vip, quindi si voltò stile robot nella loro direzione ed allungò le mani, prima verso Choi e poi verso Ri, che si trovarono costretti a sganciarle Samsung Galaxy III ed iPhone 5 con un certo rammarico, immaginando che avrebbe usufruito di entrambi.
A quel punto esigette un servizio fotografico con Dowrlod (come li chiamava lei) a cura dei due cantanti che presero a scattare istantanee con un’espressione addolorata che la diceva lunga.
Una volta soddisfatta – o almeno così pareva – Susy cominciò a mormorare come in un incantesimo sconosciuto parole dapprima incomprensibili, ma che se ascoltate attentamente si rivelarono essere i nomi dei due attori seguiti da dichiarazioni di amore, esclamazioni che implicavano “Tonyyyyy!” e intimidazioni riguardo l’orientamento sessuale che esigevano una copulazione dinnanzi ai suoi ben poco innocenti occhi.
Purtroppo per loro, Gale e Robert compresero quella litania terrificante e si guardarono come a domandarsi “Oddio dove siamo finiti…”
Così, mentre Susy procedeva con il suo rito satanico, i due sgattaiolarono fuori dal locale, chiamando immediatamente un taxi e prenotando il primo volo disponibile per Los Angeles.


Ciò che successe dopo fu confuso… Susy ricordò vagamente la stanza capovolgersi, mentre in bocca sentiva ancora il sapore del suo cocktail preferito e contro la schiena delle braccia maschili che la sorreggevano.



Il link EFP è inserito nel titolo!
view post Posted: 9/1/2015, 20:00 The Legacy of Uchiha Clan - Please Me - Fanfiction non DN
Konnichiwa~
Rieccomi tornata con una nuova lemon! E stavolta,
sarà l’ultima della saga! Mi spiace tantissimo che
finisca, ma tutto deve giungere al termine prima o poi
(e in ogni caso posso sempre pubblicare PWP U_U)
Una piccola avvertenza: questa fan fiction è stata scritta
prima dell’entrata in guerra di Madara e Sas’ke e prima
del ritorno degli Hokage. Pertanto, non sorprendetevi
se alcune cose non vi quadreranno.
Susy





The Legacy of Uchiha Clan




Please Me



Elisa si rimirava nel grande specchio della camera da letto di villa Uchiha, sistemandosi le coppe del reggiseno di pizzo in modo che il seno risultasse ancora più prospero e riannodò il fiocchettino che chiudeva il capo sul davanti. Poi si girò, in equilibrio sui tacchi, assicurandosi che la giarrettiera rimanesse al suo posto sulla coscia e che i tanga fossero abbastanza provocanti.
Infine afferrò il frustino lucido e, tenendolo attorno al collo, rise soddisfatta, facendo un occhiolino al suo riflesso.



___ う ちは一族 ___



Itachi attraversava la via principale del quartiere Uchiha, ricordandola deserta, sporca di sangue e fetente di cadaveri. Era notte, come quella volta. Alzando lo sguardo vide il pilastro dal quale aveva seguito il fratellino. Poteva essere lui, in quel momento.
Ma adesso l’otouto era con Sakura e Naruto in una delle ville, non c’erano più i nastri del tachirikinshi1 giallo sgargiante ad ogni entrata, non c’era più odore di morte, non sentiva il terrore, il dolore provato una dozzina di anni prima.
Ora aveva di nuovo una famiglia. Una compagna che lo faceva sentire vivo, un figlio che gli dava la forza di combattere, un fratello che non lo odiava più, ma che era orgoglioso di lui.



La Quarta Guerra Ninja aveva sconvolto profondamente le terre shinobi.
Dopo aver sconfitto Madara, l’affronto di Obito aveva provocato diverse centinaia di vittime, facendo dilagare lo sconforto tra i campi di battaglia, eppure avevano vinto.
La determinazione di Naruto, dei suoi conoscenti, amici e sensei però era riuscita a sovrastare il rancore dell’Uchiha che, una volta catturato, era stato affidato a Kakashi.
Non c’era stato il tempo di festeggiare. Tutti i villaggi si erano dati una mano a seppellire i defunti, li avevano pianti, e poi si erano messi in marcia per recuperare tutte le compagnie.
Quando arrivarono le notizie dai Gokage fu come se fosse finito il mondo. Iwa e Konoha rabbrividirono, increduli, e non riuscirono a realizzare di aver perso le loro guide finché non ne videro i corpi senza vita.
Il ninja biondo fu quello che urlò più forte di tutti, Sakura pianse, i team 8, 10, la squadra di Gai, con Neji tra le braccia di Lee in lacrime, Kurotsuchi, cercarono conforto in chiunque, non potevano crederci.
Il Raikage, la Mizukage ed il Kazekage furono raggiunti dai propri compagni, curati ed una volta in forze si unirono al lutto degli altri shinobi. Il Fulmine portò ai loro cari i corpi di Shikaku ed Inoichi, e nessuno vide più i loro figli, Choza e Chouji fino alla partenza.
I Kage si congedarono e poco per volta tornarono a casa.
La Foglia camminò fieramente, a testa alta, e nel giro di qualche giorno furono in vista delle mura del villaggio, con un sospiro di nostalgia e soddisfazione.
Una volta alla Porta dei Rami però, gli ANBU fecero fermare immediatamente il corteo.
«State indietro!»
La voce squillante di Naruto si fece sentire sopra il chiacchiericcio preoccupato.
«Che succede?»
In breve era in testa al gruppo, persuaso dal chakra del Kyuubi, scrutando concentrato la zona in cerca di presenze estranee, poi lo sentì.
Ebbe un fremito, ed il cuore prese a battergli più velocemente.
“Non è possibile… è….”
Ingoiò a vuoto. Il suo cervello lavorava febbrilmente, respirava a pieni polmoni cercando di mantenere la calma.
Quando finalmente ci riuscì si rivolse in tono serio al capitano della squadra ANBU.
«Ci penso io, voi occupatevi degli altri e cercate di recuperare anche Yamato-taichou»
«Hai!» scattò quello, e diede le disposizioni al villaggio.
Naruto era pronto, attendeva quel momento da anni; i muscoli in tensione, pronto a saltare…
«Naruto»
Sentì la mano di Sakura sul braccio e si voltò verso di lei. Nei suoi occhi smeraldini vi leggeva chiaramente la muta domanda e annuì, ricambiato da un cenno col capo.
Poi lo lasciò, ed il biondo poté andare. Seguendo le tracce di quel chakra familiare si ritrovò nel vecchio quartiere degli Uchiha, al tempio, al rifugio, nel quale non poté però entrare: davanti all’ingresso vi era un ragazzo che gli dava le spalle.
Uzumaki ardeva, e la testa cominciò a girargli quando il giovane si voltò.
Occhi d’onice, profondi come un buco nero, capelli color petrolio, scompigliati. Pallido, il profilo della mascella scivolava lungo il collo affusolato fino a scomparire nel collo alto della tunica grigio chiaro.
In mano, la Kusanagi pervasa di fulmini.
«Itsuka, kono hi ga kuru no tememo wakattetadaro. Naa, Sas’ke?2»
Fu Naruto a rompere quel silenzio carico di tensione, abbandonando la posizione da combattimento e rilassando i nervi. Sapeva che probabilmente le sue parole sarebbero state vane, ma voleva fare almeno un tentativo.
«Tsk» fu la sola risposta di Sas’ke, criptica come il suo sguardo. Tuttavia anche il moro parve abbandonare la difensiva, riponendo la katana e predisponendosi ad ascoltare ciò che aveva da dirgli il suo vecchio compagno di squadra.
«Sore ni, oretachi ga tatakattara, futari to mo shinuttemo, wakattendarou?3»
Il cuore di Naruto gli martellava nel petto, furioso come un tamburo da guerra, potente e rumoroso, impossibile da fermare o placare. Pregava che Sas’ke capisse, che cambiasse idea, che…
«Sogni sempre ad occhi aperti, eh, Naruto? Shinunowa, omae dake da4»
… avrebbe dovuto saperlo che il suo era un desiderio impossibile.
« … Douse omae dake ni kurosareruno wa hajimetejane’ttebayo5»
Commentò dopo un attimo di titubanza, con amarezza. Quando se n’era andato, aveva sentito il petto lacerarsi in due, ed era sicuro che le piaghe non sarebbero mai guarite. Tre anni al monte Myoboku ed erano ancora lì, presenti, a pulsare facendosi beffe del suo dolore.
Quando poi l’aveva rivisto, insieme ad Orochimaru, aveva sentito quel muscolo riprendere a battere, aveva urlato, aveva sperato… ma era ancora troppo debole, troppo insignificante per riuscire a riportarlo a Konoha, riportarlo a casa.
Ma sapere che era stato condannato a morte, che la stessa Sakura avrebbe voluto ucciderlo… era stato come morire. Non riusciva a respirare, la vista gli si era appannata, la testa aveva preso a girargli vorticosamente… e poi aveva capito ciò che doveva fare. E gliel’aveva promesso, in quella valle. Gliel’aveva giurato con uno sguardo fiero ed un sorriso raggiante. Non potevano vincere l’uno sull’altro. E se Sas’ke non aveva intenzione di redimersi, l’avrebbero finita insieme, nel bene o nel male.
E Naruto ormai era pronto. Pronto a farsi carico di quell’odio, contenerlo e di morire per lui. Di morire con lui.
Sas’ke allora si aprì nel suo tipo ghigno strafottente, liberando nuovamente la sua arma dal fodero e sferrando il primo fendente, che Naruto schivò, saltando una decina di metri più indietro.
Un rombo fracassò loro i timpani, ed il cielo annuvolato iniziò a piangere.
La loro ultima battaglia era cominciata.



___ う ちは一族 ___



«Tadaima!» annunciò, togliendosi i sandali e depositandoli nel genkan senza ottenere risposta.
Si stupì: generalmente Elisa lo accoglieva sempre con grande entusiasmo, seguita da Shisui che gli correva in braccio.
Quella notte era troppo silenziosa, ma non ricorse ai sensi ninja: sin dalla prima volta che si erano conosciuti, aveva preferito lasciare da parte la tensione da shinobi, rilassandosi senza stare sempre all’erta.
Passò velocemente in tutte le stanze, ma non trovò la fidanzata né in cucina, né nel salone, né all’esterno. Pure la stanza di Marco e quella di Shisui erano vuote. Il primo era in missione nel Paese dell’Erba, ma l’assenza di suo figlio lo fece insospettire.
“Saranno al villaggio” ne dedusse, così, senza farsi ulteriori problemi, si diresse in camera da letto, aprendo la porta in carta di riso e cominciando a togliersi l’armatura.
Poi, all’improvviso, sentì un paio di braccia calde cingergli il petto. Abbassò lo sguardo e tra le dita affusolate di lei notò una lucida corda nera. Le mani si spostarono, facendo scorrere la funicella fino al collo e tirandolo indietro.
Il fiato caldo di Elisa gli riscaldò l’orecchio, e poi udì la sua voce.
«Okaeri»
La lingua di lei gli passò sul padiglione, invitandolo a reclinare il collo. Vi si dedicò, lasciandogli vistosi segni rossi sulla pelle chiara, i palmi che gli saggiavano lascivamente il torace.
Itachi le bloccò i polsi, girandosi ed intercettando la sua bocca, Elisa si strinse a lui, incapace di lasciarlo andare, succhiandogli le labbra ed intrecciando la lingua a quella dell’Uchiha. Non voleva riprendere fiato, non ne aveva bisogno. L’unica cosa di cui necessitava era sentirlo, finalmente, accanto a sé, a casa. Aspirare il suo profumo, godere della morbidezza della sua pelle, della dolcezza dei suoi baci.
Sentiva le sue mani sulla schiena seminuda, scendere fino alle cosce e tirare, prendendola in braccio per aumentare il contatto, mentre le palpava le natiche e si dirigeva verso il futon.
Tenendosi in equilibrio, la depositò sul materasso per poi riporre la maschera ANBU dalla spalla sinistra al comodino, sfilarsi rapidamente la maglia retata, allungando le braccia in modo che ogni singola fibra muscolare del suo torace fosse visibile.
Poi risalì in fretta sul materasso, sovrastandola e riprendendo a baciarla, le mani che scorrevano ovunque, inebriate, senza sapere dove posarsi ed Elisa fece passare il lucido frustino dappertutto, scendendo sempre di più.
Quando l’Uchiha sentì quello strumento erotico sulle natiche ansimò, mordendosi un labbro, mentre la ragazza, al contrario, se le leccò lascivamente.
“Kami”
Itachi percepì la propria erezione irrigidirsi ulteriormente a quella vista, attaccando la bocca al collo non proprio immacolato di lei e succhiando, un palmo che proseguiva per suo conto verso i tanga di nero pizzo della compagna e, superatoli, le passò l’indice sul clitoride.
Elisa si contorse, sorpresa, ed imprecò mentalmente al sentire i suoi primi umori cominciare ad inumidirle le mutandine. Non voleva finisse subito.
Passò il frustino sulla schiena dell’altro, che le afferrò una mano, fermandola e la guardò negli occhi: vi lesse malizia, eccitazione.
Distrattosi, allentò la presa, ed Elisa poté liberare la sua virilità, che gli si ergeva fiera tra le gambe, pulsante. Ingoiò a vuoto: era passato davvero molto tempo dall’ultima volta che l’avevano fatto. Gli strinse il fondoschiena ed il moro gemette per le unghie conficcate nella carne.
E poi, all’improvviso, Elisa ribaltò le posizioni, inchiodando il ragazzo al letto e strusciandosi sul suo membro. Gemettero entrambi, Itachi frenò uno sbuffo di frustrazione per la ruvidezza dell’indumento intimo.
Lei, ignorandolo, gli accarezzò il pube, la pancia ed il torace fino a giungere alle braccia e gliele fece portare verso l’alto, legandogli i polsi con il frustino. Face un sorrisino sadico, ed evitando altri contatti gli passò la lingua dalla mascella, al petto, al ventre, fino all’internocoscia, senza però toccargli la virilità. Lo sentiva tremare, mentre incrociava il suo sguardo liquido e supplicante.
Vederlo così inerme era impagabile, eppure non lo voleva umiliare, non ci aveva neppure remotamente pensato: desiderava solo giocare un po’.
Abbassò gli occhi, fissando il suo sguardo ardente sul piccolo problema tra le gambe del compagno, la bocca dischiusa.
Quel calore era così vicino…
Poi le dita delicate di lei gli sfiorarono leggere quel punto sensibile, percorrendolo in tutta la sua lunghezza dalla punta alla base, ai testicoli godendo del gemito frustrato del moro. Mugolava, ed Elisa si sentiva sempre più bagnata.
«Nani ga hoshii, Itachi?6» gli chiese con voce calda, continuando a torturarlo con le falangi.
L’Uchiha si morse le labbra e strinse i denti. Il cuore gli batteva all’impazzata, il pene teso da far male, ma l’orgoglio non lo aveva ancora abbandonato. La ragazza tuttavia capì che stava per cedere. Lo provocò ancora una volta, dando una sola, lenta lappata al glande.
Stavolta Itachi ansimò veramente, tendendosi e reclinando la testa all’indietro ed indirizzando il bacino verso la bocca di lei, che prontamente si ritrasse.
«Elisa… onegai…7»
Quella voce supplicante era da capogiro. Con una mano prese a stuzzicargli i testicoli, con l’altra gli artigliava una natica, l’asta in gola fino alle tonsille.
«Kami…!»
Quell’invocazione la mandò su giri e prese a pompare velocemente, accompagnando i movimenti con le dita ed il bacino di Itachi, che si muoveva a ritmo con lei.
«Aah… aah!»
I gemiti dell’Uchiha erano sempre più profondi e sospirati, le spinte frenetiche.
«Eli… sto per… !» ansimò, ma prima di fargli raggiungere il piacere Elisa si scostò, lasciandolo insoddisfatto.
«Nngh… »
Itachi si contorceva, quasi, con quell’impellente bisogno che superava qualsiasi cosa.
Elisa, dal canto suo, tornò alla bocca del compagno, baciandolo con bramosia, la lingua vivace in cerca della gemella che non gli diede tregua neppure quando dovettero riprendere fiato, uniti sempre da un filo di saliva, gli sguardi costantemente allacciati.
Le mani della giovane però non riuscivano a fermarsi e tornarono all’erezione dell’altro, riportandola al limite.
«Aaaah! Eli… ti prego, fammi venire… » implorò finalmente e lei l’accontentò.
Calò un’altra volta sul pene del moro e dopo poche lappate lo sentì tendersi ed esplodere. Si spostò, senza però riuscire ad evitare che qualche schizzo le finisse in gola.
Risalì a baciarlo dolcemente, accarezzandolo mentre riprendeva fiato e slegandogli i polsi, massaggiandogli i segni rossi che vi erano rimasti.
L’Uchiha abbassò le braccia e strinse a sé la ragazza che posò il capo sul petto di lui, ascoltandone il cuore ed allacciandogli le gambe attorno ad una coscia, strusciandovisi inconsciamente.
Itachi si era sempre ripreso in fretta, ed infatti nel giro di poco il membro gli si era già risvegliato e la voglia riaccesa. Con un colpo di reni inchiodò la compagna al materasso, allungando una mano ed afferrando le manette dalla cinta dei pantaloni, imprigionandola.
La sorpresa negli occhi chiari di lei fu ben presto sostituita da uno sguardo licenzioso e si lasciò andare alle sue attenzioni, armonizzando i propri movimenti con quelli dell’altro, senza fretta.
Itachi le baciò una guancia, lasciandosi guidare verso il collo e la clavicola, abbassandole una spallina mentre i denti andavano a sciogliere il fiocco che univa le coppe sul davanti, con lasciva lentezza, finché esse, separandosi, non rivelarono il seno tondo e morbido.
Il moro si trattenne dal fiondarvisi, continuando ad accarezzarle il corpo fino a raggiungere i tanga. Accompagnò lentamente il bordo, facendolo calare lungo l’ileo, godendosi l’eccitazione dell’attesa. Quando poi finalmente svelò la liscia femminilità della compagna si morse la lingua che bramava avidamente di leccargliela fino a farla urlare. Con un enorme sforzo scese ancora, portando con sé le mutandine, facendogliele scorrere lungo le cosce e giunse alla giarrettiera. Prima di tirargliela le succhiò la pelle tenera, lasciandole un segno ed afferrando il pizzo con i denti.
L’intimo superò gli stivaletti lucidi ed infine, con estrema dolcezza, afferrò il cuoio nero del tallone e lo sfilò piano, coprendo il polpaccio prima celato dai tacchi di baci leggeri.
Elisa si sentiva rilassata ed impaziente. La chioma del compagno, scompigliata, le guance arrossate e le labbra gonfie le facevano nascere un languore sempre maggiore.
Infine Itachi risalì, leccandola dall’ombelico alla concavità dei seni e prendendo tra le labbra un bottoncino rosato, pizzicando il gemello con le dita, ulteriormente eccitato dalla vulva bagnata della compagna che gli stava inumidendo lo stomaco.
«Nnh… » mugolò lei allargando le gambe. Quelle attenzioni le mandavano scariche di piacere che le finivano dritte tra le cosce. Itachi la torturava delicatamente, facendola sbuffare e contorcere piano con movimenti che spingevano il compagno verso il basso.
Quando giunse alla zona bramata dalla ragazza decise però di non accontentarla pienamente: le passò la lingua sui bordi delle labbra, lasciandola con un umido bruciore dove l’aveva sfiorata, facendola gemere insoddisfatta mentre il frustino le accarezzava il seno e la pancia, scatenandole brividi.
Itachi continuò a giocare, assuefatto ai piccoli ansimi dell’altra finché non si decise e diede una lenta, lunga lappata dall’entrata al clitoride.
«Aaaah… »
Il sospiro di Elisa fu basso e profondo e subito sollevò il bacino per incoraggiare l’Uchiha a continuare. Lui dunque separò le labbra, rivelando il suo punto più sensibile ed accostandovi la bocca.
Non appena cominciò a succhiare, Elisa strinse i pugni e cominciò ad urlare ad alta voce, andando incontro a quelle labbra.
Era terribilmente eccitante…
«Ita… chi… aaah!» urlava, la testa che le girava vorticosamente.
Il suo nome, pronunciato in modo tanto lascivo stordì Itachi completamente: subito la slegò ed Elisa non perse tempo. Tirandogli i capelli lo riattirò verso il suo volto, occhi e labbra lucidi, e dopo avergli morso e leccato il lobo miagolò rauca: «Girati… »
Itachi ingoiò a vuoto ed obbedì, gemendo e tendendosi quando sentì il suo pene rigidissimo avvolto dal caldo ed umido palato di lei.
«Aaah… »
Si spingeva in quella cavità con voluttà mentre ricambiava le attenzioni alla femminilità di lei; sentiva gli umori abbondanti, il desiderio di possederla impellente.
«Eli… »
«… Sì… ?»
«Facciamolo… adesso… »
La sentì annuire e si riposizionò, sovrastandola e facendole allacciare le gambe ai suoi fianchi. Poi, sollevatole appena il bacino, la penetrò senza neppure averla preparata: era talmente dilatata ed eccitata che non era necessario.
Fu subito accolto da quello scottante e confortevole calore, prendendo immediatamente a spingere ed insinuarsi in lei sempre più a fondo. Elisa non desiderava altro se non sentirsi piena e soddisfatta ed Itachi era straordinariamente eccezionale a farla impazzire. Probabilmente era già venuta un paio di volte, ma la sua voglia non accennava a placarsi.
I corpi sudati si muovevano con perfetta sincronia, freneticamente, finché non sentirono il bisogno di cambiare posizione.
L’Uchiha si tirò indietro, portando con sé la compagna approfittando delle braccia di lei strette attorno alla sua schiena e si ritrovò seduto con la ragazza su di lui.
Lo scatto fece urlare Elisa di piacere, che sentì il membro dell’altro colpirle un punto erogeno. Senza perdere tempo riprese a muoversi, aggrappandosi all’amato in un turbine di libido senza fine.
«Aah…! … aah…!»
Poche ultime, scoordinate spinte ed Itachi venne come mai prima, insieme alla compagna. I loro fluidi si mescolarono mentre crollavano sul futon per riprendere fiato, restando stretti l’uno all’altra.
Elisa posò con un sospiro il capo sulla spalla del moro, che le baciò una guancia, accarezzandole i capelli.
«Arigatou» sussurrò Itachi dolce, la bocca chiusa l’attimo seguente da un bacio a fior di labbra.
Erano passati quasi tre anni ed Elisa non aveva ancora capito il motivo di quel ringraziamento, ma amava Itachi con tutta sé stessa e se in qualche modo riusciva a renderlo felice non poteva sperare di meglio.
«Koishiteiru» mormorò, addormentandosi tra le sue braccia.




つづき…




1Vietato entrare
2 Sapevi che questo giorno sarebbe arrivato, vero Sas’ke?
3 E capisci anche che se combattiamo, moriremo entrambi?
4Sarai tu a morire
5Beh, non sarebbe la prima volta che mi uccidi…
6Cosa vuoi, Itachi?
7Elisa… per favore/ti prego…
つづき To Be Continued





Epilogo




Era ormai da qualche mese che Elisa si sentiva strana: usciva spesso per comprare cibo, era frequentemente pervasa da un senso di stanchezza ed uno stato di esaltazione al contempo e talvolta veniva presa da una spiacevole nausea.
Aveva qualche sospetto riguardo alla motivazione, ma non si fece illusioni prima del controllo medico.



Era seduta nella sala d’attesa della ginecologia dell’ospedale di Konoha, torcendosi le mani per la preoccupazione, sussultando al minimo rumore.
Poi la porta del laboratorio si aprì e con essa la ragazza scattò in piedi, fremendo mentre Sakura le si avvicinava con un sorriso amichevole.
«Daijoubu, Elisa1»
Lei annuì e piegò faticosamente le labbra all’insù.
«Vieni pure» la invitò, precedendola nell’ufficio.
Una volta richiuso l’uscio la fece accomodare di fronte alla scrivania e calandosi gli occhiali sul naso esaminò le carte.
«Abbiamo i risultati dei tuoi esami del sangue»
«Quindi?» domandò impaziente la giovane Uchiha.
«Il test è positivo, sei incinta»
La rosa sfilò le lenti e guardò l’amica, la quale dopo un attimo di assimilazione, sbocciò in un sorriso radioso e si alzò, abbracciando Haruno.
«Arigatou, Sakura-chan!»
«Ma io non ho fatto niente!» rise lei, dandole dei colpetti sulla spalla e tentando invano di calmarla.
«Ora torna a casa, ho altre pazienti da visitare. Però dopo il lavoro possiamo vederci se vuoi»
«Certamente! Passa da noi quando hai finito»
«Lo farò senz’altro» promise Sakura sorridendo ed infine si salutarono.

Mentre Elisa si avviava al quartiere degli Uchiha aveva in mente solo una cosa.
“Come lo dico a Itachi?"


___ う ちは一族 ___


«Kaachan, guarda cosa mi ha insegnato touchan!»
Il richiamo di Shisui la fece distrarre dai fornelli e l’acqua per il riso fuoriuscì dalla pentola.
“Kuso…” borbottò, prendendo uno strofinaccio.
«Kaachan!»
Elisa si girò, giusto in tempo per prendere in braccio il figlio e stampargli un bacio sulla guancia paffuta.
«Dimmi, piccolo»
Shisui indicò il giardino e la madre lo rimise in terra, asciugandosi le mani sul grembiule e, una volta toltolo, lo seguì nel parco.
Il sole risplendeva raggiante, disegnando ricami bianchi e luminosi sull’acqua del laghetto e creando giochi di colore sugli steli e le foglie del grande ciliegio, lussureggiate nei suoi fuori rosati.
I suoi occhi sorrisero istintivamente a quel panorama per poi riportarli sul figlio che correva verso la selva più fitta. Riconobbe la strada che portava ai campi di allenamento, dove era stata più volte per portare qualcosa al compagno o anche solo per salutarlo. Superarono il cancello di accesso e videro l’Uchiha, intento a sistemare dei kunai: era a capo chino, seduto su un tronco spezzato, la coda che gli pendeva sulla spalla. Al sentire dei passi sollevò lo sguardo e sorridendo andò incontro alla ragazza ed al bambino, baciandoli e prendendo in braccio il piccolo.
«Shisui non ce la faceva più a trattenersi, doveva assolutamente fartelo vedere» spiegò ad Elisa, facendo poi scendere il figlio che afferrò un paio di shuriken e si posizionò in mezzo al poligono, chiudendo gli occhi per concentrarsi ed acuire i sensi.
E poi scattò, allungando le braccia e sganciando le stelle ninja che si andarono a conficcare dritte nel centro dei bersagli.
Elisa applaudì, ma Shisui non disse niente, girandosi verso la madre e fissandola preoccupato.
Lei sgranò le palpebre quando notò che le iridi del figlio non erano più nere, ma rosse, e con una tomoe che ruotava attorno alla pupilla.
«Ha sviluppato lo Sharingan!» esclamò sorpresa guardando Itachi e lui annuì, orgoglioso.
«Così… presto?»
«Sì, di solito a tre o quattro anni, se vengono dati i giusti incentivi, l’occhio comincia a formarsi. È strano, non pensavo sarebbe successo, dato che non sei una kunoichi»
«Mmh… » commentò. Le faceva strano vedere gli occhi del figlio diversi dal solito.
«Kaachan» la richiamò il bambino in tono allarmato.
«Dimmi, piccolo»
«Percepisco il tuo chakra… » disse toccandole la pancia. Elisa si voltò di scatto a guardare il compagno, sapevano entrambi che non ne possedeva.
«Itachi… ?»
Anche l’Uchiha maggiore aveva attivato lo Sharingan e la stava scrutando da capo a piedi. Terminato, disattivò il doujutsu e spalancò la bocca, stupefatto.
«Eli… tu… » chiese conferma, fissando gli occhi scuri sul ventre di lei.
A quel punto la ragazza capì il problema e sorrise, prendendo il figlio tra le braccia ed avvicinandosi all’altro, guardandolo dolcemente.
«Itachi, io… devo dirti una cosa importante»
Tacque un momento, per verificare che la stesse ascoltando.
«Credo che tu l’abbia già intuito, scusa se non te l’ho detto prima, volevo farlo in un altro momento»
Prese fiato, e poi parlò.
«Sono incinta»
Shisui guardò la madre con occhi brillanti, lo Sharingan disattivato.
«Hontou?2»
«Hai3» confermò felice e strinse il figlio a sé, ridendo.
Per Itachi era stata una rivelazione stupefacente ed inaspettata, un conto era stato sapere da Sas’ke di aver avuto un figlio, un altro era essere presente ed udirlo direttamente dalla compagna.
Avrebbe avuto un altro figlio… e stavolta ci sarebbe stato, avrebbe assistito alla sua nascita.
All’improvviso il ghiaccio che per lo shock l’aveva congelato si dissolse, e si sentì avvolgere da un grande calore.
«È meraviglioso» commentò commosso e baciò la ragazza, stringendo Shisui tra i loro corpi.
“Quando Sas’ke lo saprà, gli tornerà voglia di uccidermi”


___ う ちは一族 ___


Elisa ticchettava nervosamente con le unghie sulla copertina del libro che stava leggendo, le sopracciglia aggrottate, gli occhi concentrati che tentavano di convincere il cervello a capire il senso delle parole che stavano in fila di fronte a lei.
Non c’era verso, la sua mente era altrove.
Con un sospiro chiuse il libro e reclinò il capo all’indietro, accarezzandosi il pancione che si ergeva come una montagna dal suo ventre.
La gravidanza era quasi portata a termine, presto sarebbe andata in ospedale per dare alla luce il suo prossimo figlio, suo e di Itachi.
Ma l’Uchiha non c’era.
Naruto l’aveva mandato qualche giorno prima con una piccola pattuglia di ANBU a Tetsu no Kuni, una missione diplomatica fondamentalmente semplice per chiarire una questione con i Samurai, che però stava durando più del previsto. Elisa era preoccupata: voleva partorire con il compagno al suo fianco e non voleva che fosse successo qualcosa che l’avrebbe portata a passare altri anni separata da lui.
Si alzò barcollando, aggrappandosi al divano e reggendosi il pancione si diresse in cucina, aveva voglia di qualcosa di dolce. Varcò la soglia della stanza facendo un cenno a Sas’ke seduto al tavolo, intento ad esaminare dei rotoli, ed aprì il frigo.
Ogni volta che Itachi usciva in missione lui o Sakura le facevano compagnia, dato che la rosa le aveva tassativamente vietato di stare da sola, per sicurezza sua e del bambino.
“Non si sa mai” aveva detto “una donna incinta va sempre tenuta sott’occhio”
Si accomodò con cautela sulla sedia di fronte al cognato, aprendo il vasetto di gelato ed affondandovi il cucchiaio mentre scrutava il moro ed i fiocchi di neve dietro di lui che cadevano lenti nel giardino. Preferiva di gran lunga passare quella convivenza forzata con Haruno, ma l’infermiera aveva molto da fare al Konoha Byouin4, perciò era costretta a stare quasi sempre in silenzio.
Almeno lei e suo “cognato” avevano imparato a sopportarsi, anche se le battutine sarcastiche erano sempre presenti.
Sas’ke, dal canto suo, alzò lo sguardo, sentendosi osservato. Sollevò un sopracciglio con aria irritata. Sostenne le occhiate indiscrete della ragazza tentando di mantenere la calma finché non ce la fece più, chiudendo il rotolo e ticchettando sul legno del tavolo con nervosismo.
«Allora?!»
«Allora… cosa?»
«Smettila di fissarmi» bofonchiò a denti stretti.
«Scusa» replicò lei con finto dispiacere.
Sas’ke chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie con i polpastrelli, ricordando che se l’avesse uccisa, Itachi l’avrebbe odiato per sempre. In passato non se ne sarebbe curato molto, ma vista la fatica con cui era stato riaccettato al villaggio preferiva evitare.
«È quasi mezzanotte, perché non te ne vai a… » cominciò, ma non appena notò il cambio di espressione di lei balzò in piedi, precipitandosi verso la donna e prendendole il polso mentre la sorreggeva. Era sbiancata all’improvviso, lo sguardo vacuo: sembrava stesse per svenire.
«Elisa!»
La ragazza si portò una mano sul ventre e dalle labbra uscì un malcelato mugugno di dolore. Si voltò di colpo verso l’atro, stringendogli il braccio e sibilando un: «Si sono rotte le acque»
Le unghie di lei gli artigliavano la pelle e fu il suo turno di avere un capogiro. Rimase in trance per qualche secondo, per poi riscuotersi e riprendere il controllo di sé. Annuì, lo sguardo ardente. Le fece passare un braccio attorno al collo, sorreggendola in vita, e scattò in direzione del villaggio.
Nonostante fosse notte fonda e avesse cominciato a nevicare più intensamente arrivarono in ospedale in cinque minuti. Sas’ke aveva fatto più in fretta possibile, con una donna incinta al seguito e sentiva le viscere aggrovigliarglisi ogni volta che la sentiva gemere: sapeva che si stava trattenendo e non ci voleva pensare.
Varcarono le porte dell’atrio e subito un’infermiera allarmata li raggiunse.
«Si sono… » cominciò l’Uchiha.
« … rotte le acque, lo so!» concluse frettolosa la donna, facendo sedere Elisa su una carrozzina e trascinandola di gran carriera in sala parto.
Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo, reggendosi il capo per restare in piedi, pronto a ricevere delle notizie.
«Sas’keee!» urlò lei facendogli rizzare i peli del collo.
Corse immediatamente da lei e le prese la mano, cercando di capire cosa fosse andato storto.
«Resta con me!» ordinò lei in tono affannoso mentre raggiungevano la camera e Sakura si univa alla collega per sistemarla sul lettino.
La spogliarono velocemente di mantella e maglioni e vestitala del solito camice bianco, le aprirono le gambe.
«Ora stai calma e cerca di respirare profondamente!» le ricordò Sakura mentre prendeva acqua e asciugamani.
«È una parola!» ringhiò lei stritolando le dita del cognato, che faticava a capacitarsi di quando fossero arrivati in sala parto.
«Sas’ke-kun, dalle una mano! Respira con lei!» abbaiò la rosa all’ex-compagno di squadra.
«Ma io… » tentò lui, ricevendo tre paia di occhiate furiose in risposta.
Così cominciò ad inspirare ed espirare tentando di mantenere la calma.
«Aaargh!» urlò Elisa, i capelli scompigliati, il sudore freddo che le imperlava la fronte.
«Sono iniziate le contrazioni!»
L’Uchiha sbiancò, ma continuò con fatica a respirare.
«Ok, Elisa, adesso devi spingere!»
Lei sbuffò e digrignò i denti, mentre urlava per aiutarsi nell’impresa.
«Così va bene, coraggio!» la incitò Sakura infilandosi i guanti sterili e posizionandosi per aiutare il neonato ad uscire.
«Ancora, su!» fece in tono energico, ed Elisa spinse ancora.
«Perfetto, comincio a vedere la testa!»
Urli di dolore ed incoraggiamento saturavano la stanza. Sas’ke non aveva idea di quanto tempo era trascorso dall’inizio del travaglio, ma finalmente si udì un vagito e subito dopo Sakura reggeva tra le braccia il bebé, imbrattato di sangue e col cordone ombelicale che spuntava dal pancino.
L’infermiera tamponò il volto accaldato di Elisa con un pannetto fresco, mentre Haruno le porgeva il pupo.
«È un maschio» disse, mentre la madre lo prendeva tra le braccia con occhi adoranti.
«Ciao, piccolo… » lo salutò dolcemente lei, dandogli un bacio in fronte ed aprendosi in un sorriso splendente.
Sas’ke sospirò di sollievo: la prima parte era andata bene, ora restava solo…
«Aaaaaaargh!»
L’urlo di puro dolore di Elisa fece scorrere brividi freddi lungo le schiene di tutti e dopo lo shock iniziale, Sakura recuperò il bimbo, passandolo alla collega.
La giovane però continuava a strillare a pieni polmoni e la rosa, tremante, venne attraversata da un dubbio atroce.
«Elisa… prova a spingere di nuovo… » disse incerta, ma non fece in tempo a terminare la frase che di nuovo la camera venne riempita di acuti agghiaccianti. Sudore e lacrime si mischiavano sul viso della neo-madre mentre le medic-ninja si affaccendavano, pronte ad intervenire. E poi, Elisa perse i sensi.
«Elisa!» la chiamò Sas’ke scuotendola, guardando inorridito la maschera di sofferenza sul suo volto.
«Voglio subito la sala pronta per un cesareo d’urgenza, e portatemi immediatamente sali ed anestetico!» ordinò Sakura, facendo spostare bruscamente Sas’ke e scollegando il lettino dalla parete.
In un secondo erano nuovamente in corridoio, a spingere la barella verso la sala operatoria, con l’Uchiha al seguito.
«Elisa!»
Sas’ke riconobbe immediatamente la voce del fratello e si voltò.
Itachi, più pallido che mai, correva nella loro direzione, mentre Sakura faceva aspirare i sali all’amica per farla rinvenire.
«Itachi!» esclamò lei, le lacrime agli occhi, mentre gli prendeva la mano. «Itachi, sei qui!»
«Sì, Eli… » sussurrò lui con voce rotta, ed ingoiò. «Stai tranquilla, andrà tutto bene… »
Lei annuì tremante, mentre raggiungevano il luogo dell’intervento, gli sguardi allacciati finché la porta della sala non si richiuse alle loro spalle.
A quel punto le gambe di Itachi non lo ressero più ed il moro si accasciò scosso contro il muro, chiudendo gli occhi, mentre Sas’ke gli si sedette accanto.
«Cos’è successo?» chiese flebile e spaventato il maggiore.
L’altro scosse la testa.
«Non lo so… il primo bimbo è uscito senza problemi… » mormorò con voce roca.
«Grazie per essere stato con lei» proferì sincero Itachi, e gli colpì debolmente la fronte con le dita.
«Era il minimo» replicò il minore, ansioso ed imbarazzato.


Itachi andava su e giù per il corridoio col cuore in gola. Non aveva idea se fosse da minuti, ore o giorni che ripercorreva sempre i medesimi passi, ma gli pareva in ogni caso un’eternità.
Era frustrato, muto in un silenzio religioso, pregando gli dei che non accadesse nulla, né alla compagna né ai figli.
Sas’ke non si era mosso dalla posizione in cui si era sistemato, ed il maggiore gli era grato.
Fuori il buio sembrava starsi schiarendo, forse si avvicinavano le sette del mattino. Quando poi il primo raggio di sole invernale filtrò attraverso le finestre, le porte della sala operatoria si aprirono, ed un’infermiera ne uscì frettolosa, avanzando nella loro direzione.
Sas’ke scattò in piedi ed affiancò il fratello.
«Allora?»
«Elisa ha perso molto sangue, ma non ci sono state particolari complicazioni. Il cordone ombelicale si era avvolto attorno al collo della bambina, ma fortunatamente siamo intervenuti abbastanza prontamente e ora sta bene»
La donna percepì che i due uomini erano ancora molto tesi, quindi si aprì in un sorriso ed Itachi sospirò di sollievo.
«Posso vederla?» domandò, un barlume di gioia danzante nelle sue iridi color pece.
«Iie, gomennasai5. È nell’incubatrice con il maschietto»
L’Uchiha maggiore annuì e quando la medic-ninja si allontanò, Sas’ke raggiunse il fratello e gli diede un pacca confortante sulla spalla.
«Dai, il peggio è passato. Adesso andiamo da lei» e lo sospinse verso le camere.


Elisa dormiva sorretta da un paio di cuscini, il volto pallido con la camicia da notte bianca a mezze maniche che le lasciava le braccia scoperte, le mani giunte sul grembo.
Di fronte al letto vi erano due sedie: Itachi ne afferrò una e la sistemò accanto al lettino, sedendovisi, mentre Sas’ke prese posto su quella di fronte.
L’Uchiha maggiore avrebbe voluto accarezzarla, baciarle la fronte o prenderle semplicemente una mano, ma gli pareva così fragile che aveva quasi timore di spezzarla.
Tuttavia, non si allontanò mai da lei, nonostante il fratello gli avesse detto che si sarebbe svegliata verso l’ora di pranzo.
«Non importa»
«Sou ka. Io però torno a cambiarmi, jaane6»
«Wakarimashita7»
La porta si richiuse ed Itachi strizzò gli occhi al tenue sole invernale. Si alzò, affacciandosi alla finestra: la neve era quasi del tutto sciolta, ma aveva creato dei cristalli vitrei che rendevano il parco dell’ospedale scintillante. Il calore filtrava attraverso le imposte, e lo scaldò fin nelle ossa, mentre un tepore altrettanto piacevole si impossessava del suo cuore. Aveva altri due figli, quasi non riusciva a crederci. Si voltò verso la compagna affaticata che riposava nel lettino e sospirò, riaccomodandosi al suo fianco, sorridendo sereno.



___う ちは一族 ___



«Itachi… »
Un sussurro flebile distolse tutti dai propri pensieri ed il gruppo si voltò verso il letto.
«Ben svegliata, amore» la salutò Itachi, accarezzandole il dorso della mano.
«Ho dormito tantissimo… » esordì lei, la voce impiastricciata. «Nanji da?8»
«Gogo ichiji9» rispose Sas’ke avvicinandosi alla cognata con Shisui in braccio. Al vederlo, lo sguardo di Elisa brillò, e fece cenno che lo facesse sedere sul materasso accanto a lei, dandogli un bacio sulla guancia paffuta.
«Ciao piccolo» lo salutò, per poi rispondere a Sas’ke con una risata imbarazzata, visto che nel suo caso era già tanto riuscire a dormire fino alle nove di mattina. «Mattaku10»
«Le infermiere ti hanno controllata un paio di volte, ma era tutto a posto e non c’era niente di cui preoccuparsi»
Lei annuì e scompigliò i capelli al figlio.
«Vorrei sgranchirmi la gambe, ma credo che Sakura-chan non sarebbe d’accordo» commentò ridacchiando.
In quel frangente proprio l’oggetto del discorso fece il suo ingresso e li salutò.
«Allora, come ti senti?»
«Mi gira un po’ la testa… e sono un po’ dolorante, ma credo sia normale, stavo così anche dopo il parto di Shisui»
Sakura confermò.
«Hai, tutto regolare. Tra un paio d’ore si staccherà la placenta ed avrai delle perdite, ma nulla da temere»
Elisa annuì. «Più che altro vorrei sapere quando mi potrà alzare»
«Tempo al tempo, tesoro» sorrise la rosa benevola. «Già da domani non ci saranno problemi»
«Ottimo!» esultò la giovane, per poi richiamare l’amica e sussurrarle: «Avrei solo bisogno di lavarmi»
«Aspetta l’espulsione della placenta, poi ti aiuteremo a rinfrescarti» le mormorò in risposta.
Elisa sbuffò. «È fastidioso però… » disse corrucciata. «Mi sento bagnata»
Le labbra dell’infermiera si abbassarono di colpo, le iridi verdi si allarmarono.
«Cosa intendi?» le chiese, ed Elisa capì che forse c’era qualcosa che non andava. Fece un cenno a Sas’ke, che prese il nipote permettendo alla ex-compagna di monitorare la cognata.
Sakura intimò ai due di uscire, permettendo solo ad Itachi di rimanere nella stanza.
Una volta soli, sollevò le lenzuola ed i suoi occhi si sgranarono.
«Kami-sama… » soffiò, suonando subito il campanello.
Itachi, dal canto suo, era shokkato: Elisa giaceva in un lago di sangue, le lenzuola candide tinte di rosso vinaccia in cui galleggiavano grumi scuri e gelatinosi.
«Che succede?»
L’Uchiha strinse la mano alla compagna, guardando la medic-ninja.
«Non lo so, evidentemente l’utero ha qualche problema, e la placenta non è ancora stata espulsa!»
L’uscio si aprì ed Ino la raggiunse.
«Nandes’… 11» chiese concitata, bloccandosi subito e correndo l’istante successivo nel corridoio.
Sakura fece cenno ad Itachi di spostarsi e scollegò il lettino, spingendolo subito fuori dalla camera, affiancata dal moro.
«Dobbiamo operarla subito» spiegò frettolosamente, dirigendosi in sala obbligatoria per la seconda volta nel giro di nove ore. Itachi non ebbe il tempo di porre altre questioni che le due erano già oltre la doppia porta.



___う ちは一族 ___



Stavolta non sapeva se sarebbe riuscito a mantenere la calma: Elisa era un fantasma, aveva perso non immaginava neppure quanto sangue e non sapeva che conseguenze ci sarebbero state.
Era assurdo, sembrava un incubo.
Si passò nervosamente la mano nei lunghi capelli, intersecando le dita con l’elastico lo rimosse, lasciando sciolta la coda.
Quindi riallacciò le ciocche corvine distrattamente, cercando di non pensare al peggio. Sas’ke era tornato a casa e non aveva nessuno che poteva aiutarlo a rilassare i nervi.
“Doushite?!”
Stare fermo era impossibile: camminava teso nel corridoio, scrutando l’affaccendarsi delle infermiere attorno a lui, le donne che passeggiavano, incinte o meno, il suono dei campanelli che squillavano di tanto in tanto…
Ad un certo punto udì un cigolio e si voltò verso la fonte, notando sopra l’uscio la scritta “nido”. Si mosse in quella direzione, chiedendosi se avrebbe potuto vedere i suoi figli. Fermò una medic-ninja e le domandò il permesso, sentendosi più leggero quando gli venne accordato. Attese che la donna terminasse il giro e la seguì, venendo subito accolto da un odore di miele, mentre udiva un pianto, placato repentinamente da un’ostetrica. La donna lo precedette, portandolo al dormitorio: le tendine erano alzate e permettevano ai genitori di osservare i loro pargoli. Itachi sorrise vedendo quei volti paffuti, alle cui cullette erano appesi cartellini con nome e simbolo del clan.
«Da questa parte» lo richiamò l’infermiera e lo guidò alle incubatrici. «Naturalmente non può entrare» gli ricordò, ed il moro annuì.
Si sporse verso il vetro, cercando con lo sguardo i propri figli mentre si domandava che aspetto potessero avere… e poi, finalmente, li vide: il ventaglio degli Uchiha pendeva dai giacigli, i corpicini minuti e rosei si muovevano piano, nel sonno. Le testine erano ricoperte di peluria scura, le boccucce semi-aperte, le manine piene di fossette.
Il suo cuore si gonfiò di gioia, abbandonando per un fugace istante l’angoscia per la compagna. Appoggiò delicatamente un palmo sulla fredda superficie trasparente, in una sorta di carezza.
Era immobile, incantato a guardarli, quasi incredulo: amava Elisa e Shisui, ma non aveva potuto stare con loro per un anno. Eppure non provava rimorso: non aveva idea di cosa stessero passando, e doveva portare a termine il proprio compito. Ora, invece, poteva ammirarli durante le loro prime ore sulla Terra, mentre fuori il sole cominciava a raggiungere le montagne a ponente.
«Itachi-dono12» lo chiamò una voce femminile.
L’interpellato si voltò, senza staccare le dita dal vetro, rivolgendosi all’infermiera.
«Sì?»
«Tsuitekoi13»
La freddezza di quell’imperativo lo fece rabbrividire e si separò dalla finestra, affiancando la donna preoccupato finché non si accomodarono in una delle sale visita, per colloquiare privatamente.
«L’intervento è terminato». L’Uchiha aspettò a tirare un sospiro di sollievo. «Ma ci sono brutte notizie»
Il moro prese un profondo respiro prima si essere certo di voler ascoltare il seguito.
«Quali notizie?» chiese cauto.
«La sua compagna purtroppo a perso molto sangue, l’utero ha avuto una disfunzione e di conseguenza la placenta non avrebbe potuto staccarsi ed essere espulsa. È raro, sì, ma succede. Abbiamo dovuto farle una trasfusione e… asportarle l’utero»
La mente di Itachi si scollegò per un istante, il cuore che batteva a ritomo sostenuto, l’odore di miele che cominciava a dargli la nausea.
«Quindi lei… »
«No, non ci saranno conseguenze tragiche per Elisa, potrà continuare a vivere tranquillamente senza problemi»
“Ma…?”
«Tuttavia non potrà avere altri figli»
La bile gli salì lungo la gola, ma ingoiò, ancorando una mano al bracciolo della sedia e stringendolo finché le nocche, già bianche, non divenirono perlacee. La testa gli vorticava, cercando di assorbire quell’informazione.
Certo, avevano tre figli, ma…
«Ho preferito riferirlo prima a lei, in modo che quando anche Elisa ne sarà messa al corrente, almeno uno dei due sarà pronto»
«Wakatte iru14»
«Ora è in camera, ancora incosciente, ma si sveglierà tra un paio d’ore. Ora mi scusi, devo occuparmi di altri pazienti»
Ciò detto, si alzò ed uscì dalla camera, lasciando Itachi solo.
Lentamente, ancora sotto shock, il moro tornò sui propri passi, accomodandosi sulle sedie di fronte alla stanza delle incubatrici, lo sguardo perso, senza vedere davvero i gemelli che riposavano placidamente.
Non aveva idea di come Elisa l’avrebbe presa, sperava si sarebbe concentrata sui nuovi nati e non sugli impossibili nascituri.
Sospirò.
Qualsiasi sarebbe stata la reazione, lui sarebbe stato al suo fianco.


___う ちは一族 ___


Elisa dormiva, al braccio attaccata una flebo, al polso gli elettrocardiogrammi che inviavano le pulsazioni dalla giovane alla macchina accanto al lettino.
Bip… Bip… Bip…
Il cuore di Itachi si strinse dolorosamente a vederla in quelle condizioni, il volto pallido e smunto.
Esalò un lento e profondo respiro mentre si accomodava accanto al giaciglio e la osservava con sguardo triste. Sotto gli occhi aveva profonde occhiaie per quelle giornate stancanti; era strano vederla così, di solito sempre energica e pronta a scherzare. Era certo però che si sarebbe ripresa nel giro di niente e si sarebbe dedicata anima e corpo alla sua famiglia, come aveva sempre fatto.


Quando uscì dalla camera trovò Sas’ke, Shisui in braccio a lui, con il volto teso.
«Come sta?»
«Ha bisogno di molto riposo. Una volta che sarà sveglia e pronta a parlare con l’infermiera però dovremo spiegarle la situazione»
Sas’ke sgranò gli occhi e cambiò posizione per reggere meglio il nipote, il quale si era aggrappato con la mano alla maglia del padre.
«Qualcosa di grave?»
Itachi scosse la testa, prendendo in braccio il figlio e stringendolo a sé.
«Sono faccende delicate… »
Il minore annuì.
«Va bene»
Stettero qualche attimo in silenzio, finché Shisui non sollevò il capo e guardò l’uomo con occhi scintillanti di preoccupazione.
«Touchan». Itachi lo guardò. «Kaachan starà bene, vero?»
«Certo piccolo, non ti preoccupare»
Gli diede un bacio sulla fronte, cullandolo dolcemente, mentre Shisui lo abbracciava forte e Sas’ke posava una mano sulla spalla del maggiore.



___う ちは一族 ___



Elisa stropicciò gli occhi, stringendoli subito dopo per il bianco accecante del cielo innevato che spuntava dalla finestra. Itachi serrò le tendine e tornò accanto alla compagna, mentre Sakura monitorava le sue condizioni ed il sacchettino di liquido bianco della flebo.
Infine posò la sua cartellina clinica sul comodino spoglio e sorrise rassicurante, senza però che le gioissero anche gli occhi.
«Le tue condizioni sono stabili, ti terremo ancora un paio di giorni in osservazione, ma potrai tornare presto a casa»
Itachi le strinse la mano, sentendosi più leggero al pensiero che il peggio era passato.
«Questa è un’ottima notizia» commentò Elisa con voce flebile, e col pollice accarezzò il dorso della mano dell’Uchiha.
Sakura quindi riprese a parlare, cercando di mantenere un tono calmo per evitare di allarmarla.
«Tuttavia, l’utero ha avuto una disfunzione, provocando una grave emorragia. Abbiamo dovuto farti una trasfusione d’urgenza»
Il bippettio della macchina cominciò a sentirsi più spesso.
«Mattaku… » mormorò.
«La situazione era davvero problematica, raramente accade, ma evidentemente questo caso è rientrato nelle poche eccezioni e… »
«Sakura-chan, per favore, smettila di girarci intorno» la pregò Elisa in tono duro e lei si scusò.
Prese fiato e la guardò seriamente negli occhi.
«Abbiamo dovuto asportati l’utero»
Le palpebre stanche della ragazza si sgranarono ed Itachi sentì la sua stretta farsi più forte.
«Non… non ho più l’utero?» domandò incredula, alzando appena la voce e sfiorandole il ventre. La rosa confermò, guardandola comprensiva.
Elisa fece una smorfia strana. Le faceva una curiosa impressione l’idea di non avere più un organo dentro di lei, immaginava la pancia sprofondarle nel corpo, ma non si sentiva diversa dal solito. Stette in silenzio, disegnando arabeschi immaginari sul camice dell’ospedale, attorno alla zona dell’ombelico con l’indice.
Poi risollevò il capo.
«Questo significa che… non potrò più avere figli, vero?»
«Sì» rispose semplicemente Sakura, e lei si voltò verso il compagno, guardandolo negli occhi.
I due si scrutarono in silenzio, cercando di capire cosa pensasse l’altro. Itachi non voleva esprimersi, non voleva condizionarla.
«Abbiamo tre bellissimi bambini… » sussurrò concentrata, iridi grigie in iridi nere.
« … io penso non sia un problema»
Si voltò verso Sakura.
«Più che altro… ». La medic-ninja attese pazientemente. « … è bizzarro pensare che non ho più i genitali» e abbozzò una risata, seguita dall’amica.
«Sì, molte donne ritengono di non esserlo più se non li hanno, ma non è così. Sei stata fortunata che sia accaduto ora e non quando hai partorito Shisui. E poi, i rapporti sessuali non ne risentiranno» aggiunse facendo arrossire Itachi con un occhiolino.
«Grazie, Sakura-chan». Elisa le era davvero grata. «Ora vorrei vedere i miei bambini però»
Lei annuì.
«Vanno allattati, e credo che il tuo seno sia d’accordo con me»
Elisa annuì con un sorrisetto tirato. In quel momento, l’unica cosa che le doleva era proprio quella parte del corpo.
«Vado a prenderli, tu stai tranquilla» la rassicurò, lasciando la camera.
Quando fu uscita, Itachi ne approfittò per farle quella domanda che stava trattenendo da dieci minuti buoni.
«Davvero non ti importa?» le chiese cauto, sinceramente curioso.
Lei scosse la testa e sorrise. «Davvero»
Poi, vedendolo preoccupato, lo invitò a sporgersi verso di lei ed Itachi la baciò piano sulle labbra.
«Koishiteiru» mormorò baciandola ancora e lei ricambiò dolcemente.
Toc Toc!
I due si voltarono, le labbra separatesi con uno schiocco.
«Douzo15»
Sakura ed Ino entrarono nella stanza reggendo i due bebè che, svegli, si guardavano intorno.
Il viso di Elisa si animò, le iridi lucide al vederli, dimentica della situazione delle sue mammelle. Dietro le infermiere notò il cognato col figlio e
view post Posted: 9/1/2015, 19:59 The Legacy of Uchiha Clan - Reunion - Fanfiction non DN

The Legacy of Uchiha Clan
- Reunion -





«Itachi?!».
“Non è possibile, lui è …”
Il ragazzo non riusciva a capire. Si trovava in un genjutsu? Aveva ricontrollato più volte il flusso del proprio chakra ed era normale, perciò niente illusioni.
Ma quindi … ? Mille dubbi si affacciarono nella mente del giovane mentre la figura che aveva attirato la sua attenzione continuava ad avanzare tra i rami, impassibile, senza parer di averlo sentito.
L'altro però non demorse: non aveva alcuna intenzione di lasciarlo scappare. Doveva parlargli, dirgli tante di quelle cose, fargli domande …
«Itachi! Matte! (1)», esclamò, scattando subito alle spalle del più grande, continuando a chiamarlo senza ricevere risposta. Era frustrato.
Allungò il passo, avvicinandosi al suo obiettivo finché non riuscì ad afferrarlo per il lungo mantello nero dalle nuvole rosse che svolazzava dietro di lui.
«It-...!».
Il secondo successivo il ragazzo si ritrovò sbattuto contro il tronco di un albero, la mano del maggiore stretta alla gola.
«Ita … chi … ».
Il giovane si aggrappò a quel braccio cercando di allentare la presa, ma senza successo.
«Niisan, lasciami!», sbottò irritato. Era assurdo che si stesse lamentando come all'età di otto anni, ed ancora più incredibile era che l'altro avesse reagito a quell'appellativo lasciando libero il suo inseguitore, aggrottando le sopracciglia.
«Sas'ke?».
Il minore si tastò la parte lesa ed annuì, serio.
«Niisan … ma come … ?». Sas'ke lasciò cadere l'ovvia domanda.
«Kabuto», rispose sbrigativo, come se ciò spiegasse tutto – ed effettivamente era così. «Come stai, otouto?», chiese, posandogli una mano sulla spalla, rigido e preoccupato.
A quella domanda, l'interpellato sentì i nervi tendersi e la sete di vendetta infiammargli le vene. Digrignò i denti e parlò, ma non si azzardava a guardare il fratello negli occhi.
«Sono deluso, niisan. Arrabbiato».
E poi, all'improvviso, per la seconda volta dalla morte del maggiore, Sas'ke pianse. Le lacrime gli inumidivano copiose il viso, stringeva i pugni per cercare di trattenersi e non farsi vedere dall'aniki, ma inutilmente.
Quella visione prese Itachi in contropiede: in quel momento rivide il suo otouto bambino che cercava il conforto del fratello. Si sentì come a quindici anni, con l'unica differenza che in quel momento non c'erano più bugie o falsità: era semplicemente sé stesso – più o meno. Perciò non poté far altro che abbracciarlo forte e Sas'ke si aggrappò al lui con forza, stringendo tra le dita tremanti la stoffa ruvida del mantello nero. Itachi sentiva i brividi che lo scuotevano da capo a piedi, le gocce salata che gli inumidivano la cappa, ma non vi badò.
«Shh, Sas'ke … va tutto bene … », gli sussurrava piano, accarezzandogli il capo. Non l'aveva mai visto così scosso, neppure dopo la strage del clan.
«Niisan … mi dispiace … ».
I singhiozzi erano incessanti; vedere il minore, sempre così orgoglioso e forte, in quello stato lo distruggeva.
«Avevo … così bisogno ... di te … ».
Se l'Edo-Itachi avesse potuto, avrebbe pianto anche lui.
«Ora sono qui, Sas'ke … ».
C'era quiete, nella foresta. Il ragazzo poco alla volta si chetò, confortato dal fratello, per poi rialzare lo sguardo sull'altro, gli occhi arrossati.
«Va meglio?».
Sas'ke annuì. «Arigatou, niisan».
Itachi sorrise e gli scompigliò i capelli, chiedendogli cos'avesse fatto nell'ultimo anno e ascoltò allibito il racconto del minore, mentre percepiva crescere l'irritazione.
«Doushite, Sas'ke? (2)».
Era ironico come la situazione si fosse capovolta: al contrario di quella notte, durante la quale il più piccolo chiedeva disperatamente il perché della strage, stavolta era il maggiore a domandare spiegazioni.
«Cosa ti è saltato in testa?».
Itachi si infervorò, sotto lo sguardo confuso del fratellino che non riusciva a comprendere la ragione per cui il suo aniki stesse reagendo in quel modo.
«Ma, niisan … come potevo non farlo? Come avrei potuto non pensarlo?», esclamò, il tono aumentato di un paio di tacche. «Dopo tutto ciò che ti hanno fatto passare, dopo aver distrutto la nostra famiglia! Sei stato tu a dirmi di aggrapparmi alla vita e trascorrerla nell'oscurità … ».
Itachi a quel punto scosse la testa, dispiaciuto e deluso: era proprio ciò che aveva temuto nell'affidargli quel compito, molti anni prima.
«Otouto, hai frainteso».
Le sue parole furono per Sas'ke come un fulmine a ciel sereno. Sgranò gli occhi, stupefatto, senza capire. Fece per dire qualcosa, ma l'altro lo precedette.
«Non pretendo che tu abbia capito tutto allora, né dopo la spiegazione che deve averti dato Madara, ma io dovevo salvarti, otouto. E per farlo l'unica soluzione era farmi odiare e farti bramare ardentemente vendetta, per poi donarti un nuovo potere. Ma sei stato corroso dal buio … ». La sua voce calò, diventando prima cupa, e poi triste. «Certo, riconosco che sia anche colpa mia se tu sei cambiato tanto ... ma non voglio la distruzione di Konoha, non l'ho mai voluta. Per questo ho dovuto … fare ciò che ho fatto. Sono stato, e sarò sempre, Itachi Uchiha del Villaggio della Foglia».
Non vi era traccia di menzogne in quelle parole, né necessità di fingere.
«Ma d'altro canto, otouto, non potevo ucciderti, non potevo. Distruggere Konoha non cambierà le cose, non ti arrecherà soddisfazione. Hai già ottenuto la tua vendetta su di me e su Danzo, ed è stata la cosa giusta da fare. Ma ora basta: torna a casa».
Ed eccolo di nuovo: quel sorriso sereno che Itachi aveva un istante prima di morire. Quell'espressione di incomprensibile felicità era tornata a campeggiare sul bel volto dell'Uchiha.
Sas'ke lo guardava sconvolto.
“C-cosa … ?”
Sentì uno strappo dalle parti dello stomaco e si resse la testa, scosso da profondi brividi di orrore e ribrezzo per sé stesso e per ciò che aveva fatto, pensato e creduto.
Davvero aveva deciso, seriamente, di distruggere la Foglia? Di ammazzare Sakura? Di eliminare dal suo cammino persino Naruto, che in tutti quegli anni non aveva fatto altro che cercarlo e dichiarato di volersi sacrificare per il villaggio, proprio come Itachi, affrontandolo in una battaglia mortale?
Non aveva scuse, il perdono era un miraggio irraggiungibile ed immeritato.
«Niisan … boku wa … (3) ».
«Daijoubu, Sas'ke. Daijoubu (4)», lo consolò di nuovo Itachi, paziente ed affettuoso. Il minore appoggiò il capo sulla spalla del fratello, che lo strinse a sé: un contatto confortevole e rassicurante, sensazioni che aveva ritenute perse e dimenticate.
«Però, niisan, ci dovremo lasciare ancora».
Udì un sospiro proveniente dal maggiore, e lo strinse ancora più forte. Non era davvero suo fratello: avrebbe dovuto combatterlo nuovamente e non era certo di poterlo affrontare una seconda volta.
Ad un tratto sentì il corpo di Itachi irrigidirsi e si allontanò di scatto, osservandolo guardingo: dopotutto era un'Edo Tensei. Il volto dell'altro era serio e concentrato.
«No. Non ti abbandonerò di nuovo, Sas'ke», sentenzò con voce determinata.
«Cos'hai in mente?».
«Farmi tornare in vita, otouto».
Il piccolo sgranò gli occhi.
«E come pensi di fare?», domandò perplesso, ma l'altro non badò alla domanda, riprendendo il viaggio. Sas'ke non perse tempo, portandosi subito alle spalle del maggiore, dirigendosi più velocemente possibile verso il covo di Kabuto, concentrando il chakra negli arti inferiori.

Essendo la loro destinazione nella direzione opposta impiegarono poco più di un'ora, che trascorse in silenzio, entrambi persi nei propri pensieri.
Infine, trepidanti, giunsero alla grotta ed entrarono cauti, Sharingan attivo. Non rilevarono altri chakra, se non quelli delle migliaia di Zetsu bianchi che riposavano placidi nell'acqua.
Si inoltrarono ancora di più, puntando ovunque lo sguardo per trovare colui che stavano cercando. C'era troppa calma, i fratelli erano inquieti.
«Mitsuketa! (5)», esclamò all'improvviso Itachi a bassa voce. Si apprestò subito a comporre i sigilli per un jutsu, ma il minore lo precedette: il suono acuto e stridente del Chidori ruppe il silenzio, seguito immediatamente dal fragore della roccia distrutta che rovinava in terra.
Non serviva che si diradasse il fimo, gli Sharingan dei due Uchiha avevano permesso loro di distinguere senza problemi la figura ammantata del medic-ninja.
«Ci si rivede, Sas'ke-kun», fece una voce viscida e roca.
Il ragazzo interpellato riconobbe subito quel tono odioso che aveva dovuto sopportare per anni.
«Kabuto», sputò, come se il nome dell'uomo fosse un insulto, e si voltò a fronteggiarlo col fratello, il quale si portò automaticamente davanti all'altro, un istintivo gesto di protezione nei confronti del minore.
«Proprio te cercavamo», lo informò tranquillo.
«Ma davvero?». Gli occhi di Kabuto brillarono di malizia e si passò la lunga lingua sulle labbra. Quando era diventato così orribilmente simile al Sennin delle Serpi? «Ben due Uchiha che scelgono spontaneamente di venire da me? Orochimaru-sama ne sarebbe invidioso».
«Non c'è dubbio», commentò Itachi sprezzante. «Ma non siamo qui per offrirti i nostri servigi».
Quindi si rivolse al fratello: «Otouto, stai indietro, ci penso io».
Tuttavia, quello non sembrò intenzionato ad obbedirgli, non quella volta.
«No! Niisan, smettila di cercare di proteggermi! Per tutta la vita non hai fatto altro! Lascia che ti aiuti ora!».
Il maggiore si irrigidì: era difficile accettarlo. A parte durante il loro ultimo scontro, i suoi ricordi consistevano nella voce del fratellino a nove e tredici anni che lo chiamava. Ciò nonostante dovette ammettere che Sas'ke era davvero cresciuto, e diventato anche molto forte.
Pertanto decise di scostarsi, indietreggiando fino al fianco dell'altro.
«Mangekyou Sharingan!».
«Sen'ei Jashu!».
Gli Uchiha scattarono subito in posizione di difesa e prima che i serpenti potessero raggiungerli, una lama di fulmine aveva già mozzato loro le teste.
Kabuto ghignò: «Sei davvero migliorato, Sas'ke-kun».
Il ragazzo non replicò, limitandosi a fissarlo con disprezzo.
«Vuoi davvero sfidarci, Kabuto?», gli chiese Itachi, scettico. «Due possessori del Mangekyou Sharingan e del Susano'o … anche se provi a scagliarci contro le tue Edo, dubito in una tua vittoria».
«Tentar non nuoce. Ma non ricorrerò ai miei burattini».
Ciò detto, sfilò il mantello color porpora, accovacciandosi per terra: era davvero ripugnante.
«Sapete, Orochimaru-sama non era riuscito a diventare un vero Sennin … ma io si».
E si scagliò verso i due Uchiha.

Lo scontro era più duro di quanto i fratelli avessero immaginato: il medi-ninja aveva sperimentato parecchio su di sé, acquisendo nuovi poteri contro i quali Itachi e Sas'ke si videro costretti a sfoderare la propria Difesa Assoluta, come protezione e come arma.
Kabuto era velocissimo, si fondeva con le rocce, sfuggiva dietro alle stalattiti, schivava le frecce di uno e la spada dell'altro. Anche solo tenergli testa richiedeva un ingente ausilio del chakra, il cui livello ben presto calò, costringendo gli Uchiha a ritirare il Susano'o. Erano tesi come felini pronti a balzare sulla preda: Sas'ke stringeva la sua kusanagi, Itachi pronto a lanciare kunai e shuriken.
Ad un tratto il sennin spuntò di nuovo e la danza fatale ricominciò, senza che nessuno che sembrasse surclassare l'altro.
I fratelli però avevano osservato a lungo il proprio avversario, tanto che in un attimo di tregua dagli attacchi il maggiore creò un cerchio di fiamme nere come difesa e si affrettò a condividere i suoi sospetti con il più piccolo.
«Ricordi quando ci occupammo di quella caccia al cinghiale, parecchio tempo fa?», chiese, ottenendo una risposta affermativa dal minore, dal cui labbro ed occhio scendevano rivoli di sangue.
«Allora avrai notato un'analogia con la nostra situazione attuale».
«Sì, è decisamente familiare», concordò ironicamente.
«Non sbagliare stavolta».
Nonostante il respiro affannoso, Sas'ke riuscì a ghignare: «Non ho più nove anni, niisan. Il cinghiale non scapperà».

Non percepivano il chaka del nemico da una decina di minuti, ma erano certi che sarebbe spuntato da un momento all'altro.
Itachi richiamò Amaterasu e nel giro di due secondi Kabuto era di nuovo nel loro mirino. Abilmente, i fratelli lo misero spalle al muro: a furia di schivare fendenti ed armi a distanza, il medic-ninja fu costretto alla parete rocciosa; scattò verso l'alto aggrappandosi ad una protuberanza, ma non appena la raggiunse Sas'ke scagliò la kusanagi contro il serpente bianco che seguiva il sennin come un'inquietante coda. Quando la lama lo trapassò, questi soffiò, mostrando le zanne macchiate di sangue e si contorse su sé stesso, il liquido rosso che sporcava le squame candide.
Un altro Chidori, e prima che Kabuto potesse liberarsi il soffittò crollò, obbligandolo a terra. Anche se sotto le macerie, però, non era ancora morto, e dopotutto senza vita non sarebbe servito a molto.
Itachi si avvicinò, pronto a colpire, ma l'avversario, emergendo repentinamente dalle pietre, afferrò con la lingua il manico della kusanagi, dirigendola di scatto verso il petto dell'Uchiha maggiore, infilzandolo e girando l'arma nel corpo, insinuandola più a fondo.
«NIISAAAN!».
L'urlo di straziante dolore di Sas'ke divertì Kabuto, che l'ascoltò ghignando, mentre l'Edo spasimava e sputava sangue, finché non rimase immobile. Il minore era pietrificato dall'orrore, incapace di contrarre un solo muscolo.
Il medic-ninja si liberò quindi del serpente defunto, recidendolo da sé con il bisturi di chakra e si alzò, avvicinandosi al suo burattino.
«Direi che dovresti tornare tra le tue fila, Itachi-san: troppa autonomia ti fa male».
Quindi cominciò a rielaborare il fuda indebolito: mano a mano che componeva i sigilli, però, Kabuto era sempre più frustrato, senza alcuna ragione apparente. E poi, all'improvviso, uno stormo di corvi si librò al posto del corpo dell'Edo, stridendo forte e svolazzando nella grotta semi-distrutta.
Lo stupore del sennin era palese. Fece per muoversi, ma scoprì troppo tardi di non esserne in grado.
«Dovevo immaginarlo», commentò amareggiato.
«Ti avevo avvertito, Kabuto», replicò Itachi, prendendolo per il collo ed avvicinando il viso a quello dell'altro, guardandolo dritto negli occhi.
«Ti conviene fare ciò che ti dirò. So perfettamente che solo tu puoi disattivare le Edo, ma non è ciò che voglio. Quello che devi fare ora è riportarmi in vita».
Il medic-ninja lo sbeffeggiò: «Convincim- Aaaargh!».
Non terminò neppure la frase che era caduto nello Tsukuyomi dell'Uchiha: mille lame lo trafiggevano una dopo l'altra, il corpo lancinante di dolore, le urla squarciavano il cielo plumbeo e cupo, raggiungendo inascoltate la luna scarlatta di quel mondo illusorio e surreale.
Non era mai stato trasportato in un genjutsu simile e non riusciva ad uscirne: vedeva il proprio sangue scorrere a fiotti, ogni respiro era una sofferenza intollerabile.
«Aaaargh!».
Il corpo si contorse di nuovo in preda agli spasmi.
«Quanto ancora resisterai, Kabuto?».

Il tempo passava, ma il sannin non dava cenni di cedimento: sebbene percepisse le torture ed il dolore insopportabile, riusciva a mantenere la mente lucida, più resistente di quanto i fratelli si aspettassero.
Kabuto ridacchiò sadicamente, la voce sfociò nell'ennesimo urlo che Itachi si costrinse a non sentire e sospirò, frustrato. Sapeva che c'era un'ultima cosa da fare, ma voleva evitarla: i rischi erano troppi e non credeva fosse mai stata utilizzata quella tecnica nella storia degli shinobi.
Tuttavia, riconobbe che non vi era altra scelta: prese un respiro profondo per rilassarsi e prepararsi.
“Izanami”.
Le grida cessarono immediatamente e lo sguardo dell'avversario si fece vacuo. Sas'ke guardò interrogativo il maggiore, che lasciò la presa sul medic-ninja, crollando in terra, reggendosi l'occhio destro. Per quanto il più piccolo poteva vedere, stava sanguinando abbondantemente, tra i gemiti di dolore.
«Niisan, che succede?», domandò preoccupato, chinandosi verso di lui.
«Izanami», sussurrò Itachi. «Credo si sia risvegliato quando Kabuto mi ha sottoposto all'Edo-Tensei. Non pensavo fosse possibile». Quindi si voltò verso il minore. «Conosci Izanagi?», chiese, ed al vedere l'altro annuire proseguì. «Se Izanagi permette di cambiare il passato, un'azione subita al prezzo della luce di un occhio, Izanami è ancora più potente: consente di decidere le sorti del futuro».
Sas'ke, inizialmente incredulo, ne prese atto in fretta: lo scontro con Danzo gli aveva dato abbastanza tempo per rifletterci su, ed il suo sguardo tornò deciso.
Itachi si rivolse a Kabuto: «Riportami in vita». Il medic-ninja si voltò, cominciando a camminare come in trance, seguito dai due Uchiha.
Giunsero in una stanza malamente illuminata da candele, le cui fiamme tremolanti rivestivano tutto l'ambiente di luce rossastra. Sul fondo vi era una scrivania ricoperta da fogli zeppi di appunti, qualche rotolo ed una dozzina di ampolle; nel mezzo campeggiava un grosso tavolo di legno scuro, con le cinghie – probabilmente era qui che il medic-ninja lavorava, ma soprattutto, sugli scaffali altissimi alle pareti erano posati barattoli di vetro colmi di liquido trasparente nei quali galleggiavano, terribilmente inquietanti, innumerevoli Sharingan.
A quella vista i fratelli strinsero i denti, ripensando entrambi alla strage della famiglia e soffocando l'istinto omicida di ridurre in brandelli chi aveva osato desacralizzare i cadaveri dei loro parenti per prenderne i bulbi oculari.
Una voce sadica, ma in qualche modo vaga li richiamò.
«Sdraiati, Itachi».
L'interpellato obbedì, slacciandosi il mantello dell'Akatsuki che aveva portato tanto a lungo e fece come richiesto. Sas'ke assisteva muto alla scena, pronto ad intervenire se ve ne fosse stato bisogno. Osservò diffidente Kabuto che trafficava agli scaffali e un dubbio gli attraversò la mente.
«Niisan, se io ho i tuoi occhi … quelli che hai adesso di chi sono?», domandò esitante.
«Di papà (6)», rispose il maggiore, calmo, le palpebre serrate, mentre il medic-ninja cercava qualcosa tra i barattoli. Quando finalmente parve averla trovata, afferrò il contenitore e lo appoggiò sul tavolo.
«Ma allora perché cambiare gli occhi? Izanami ne sacrifica solo uno».
«Sì, è così. Ma gli occhi che Kabuto mi impianterà sono molto particolari. Se non esistessero non potrei mai tornare in vita, sarei un'Edo come adesso».
L'altro non se la sentì di dar voce alla sua ovvia domanda.
«Sono i tuoi, otouto».
Il minore sentì un brivido corrergli lungo la schiena e lanciò un'occhiata al vasetto che Kabuto aveva prelevato.
«Ricordi il giorno della mia morte? Ti impiantai Amaterasu, inserendo un po' del mio chakra dentro i tuoi occhi. Sarà quello che mi permetterà di resuscitare completamente, e non come Incarnazione Impura».
Sas'ke ingoiò a vuoto: lui con gli occhi di Itachi, il fratello con i suoi …
Kabuto si avvicinò al piano, reggendo tra le mani degli strumenti lucidi ed appuntiti.
«Non guardare», ordinò serio l'Edo e Sas'ke obbedì. Ma non poté impedirsi di sentire le urla del maggiore: gli penetravano prepotenti nelle orecchie, scuotendolo da capo a piedi.
Infine, dopo brevi o lunghissimi attimi tornò il silenzio, quasi disorientante ed il minore si azzardò ad aprire lentamente le palpebre: il viso di Itachi era pallidissimo, smorto, e coperto per metà da candide bende bianche.
“Non è ancora finita”, pensò.
Il medic-ninja impose le mani sul torace del cadavere ed un flusso di chakra verdino, curativo, cominciò a scorrere dai palmi dell'uno al corpo immobile dell'altro, rischiarando l'ambiente cupo. Kabuto mormorava parole in silenzio, concentrato, mentre con lo Sharingan attivo Sas'ke osservava il sistema del chakra del fratello riprendete a funzionare, con un ritmo lento ma costante.
Non sapeva per quanto tempo continuò quel processo: minuti, forse ore, ma poco a poco il viso di Itachi riacquistò colore finché un lieve battito ruppe la tensione creatasi.
Il minore ebbe un sussulto, ma notando che Kabuto non sembrava aver terminato si costrinse a stare fermo per gli ultimi istanti: tratteneva il fiato tanta era la sua trepidazione.
E poi Itachi schiuse appena la bocca ed emise un flebile e roco respiro.
La luce verdina sparì e a quel punto Sas'ke scattò, accostandosi al tavolo e guardò spaventato e felice il corpo del fratello.
«Niisan», sussurrò.
Dopo qualche altro respiro Itachi mosse le labbra e parlò di nuovo, la voce racchiante.
«Sas … ke … ».
Ed il minore lo abbracciò forte, mentre il più grande sollevava pesantemente un braccio e circondava la schiena dell'otouto accarezzandolo con fare fraterno, un sorriso sulle labbra.
Si staccarono poco dopo, quando Itachi, dando al più piccolo dei colpetti sulla spalla, lo fece scostare. Fece quindi leva sull'asse e si portò a sedere lentamente, reggendosi il capo con una mano: sentiva tutti i muscoli indolenziti e la testa girare, ma stava bene.
Spostò le gambe, provando a mettersi in piedi: gli tremavano le ossa, ma Sas'ke lo sorresse, aiutandolo a raggiungere una posizione eretta.
«Niisan, daijoubu?».
L'altro annuì. «Andiamocene».
I fratelli si avviarono piano all'uscita, lanciando un'occhiata di ringraziamento al medic-ninja che ghignò, crudele.
«In ogni caso non vincerete mai la guerra».
Itachi si fermò solo un istante, e senza voltarsi replicò: «Vedremo».


___うちは 一 族___


Itachi si riprese in fretta: in poche settimane aveva ottenuto il controllo del proprio chakra e padroneggiato i jutsu appresi in vita. Anche essendo morto da più di un anno, si era rivelato ancora una volta l'orgoglio del clan.
Si allenava con Sas'ke dall'alba al tramonto, spesso anche di notte, interrompendosi solo per rinfrescarsi, mangiare qualcosa e riposare. Lanciava perfettamente shuriken e kunai, piazzava trappole ed eseguiva le tecniche con un consumo minimo di energia e chakra.
Ma più importante di tutto, aveva risvegliato il Mangekyou Sharingan, e con esso Susano'o e Amaterasu, ricreando anche lo Tsukuyomi. Quest'ultima fase era stata la più faticosa: dopo gli allenamenti i fratelli erano sempre esausti, soprattutto a causa del minore che insisteva a fargli esercitare il genjutsu su sé stesso. Tuttavia era talmente entusiasta che Itachi non poteva non accontentarlo e dopotutto ne trassero vantaggio entrambi.


___ POV イタチ ___


Infine, convenimmo che era giunto il momento di separarci.
Sas'ke voleva che fossi orgoglioso di lui, desiderava fare qualcosa che scongiurasse il tradimento commesso anni prima e per far questo doveva tornare a Konoha: se non per restarci, almeno per affrontare definitivamente il suo rivale di sempre.
Mi offrii di accompagnarlo per un po', avevo intenzione di cercare informazioni su dove si trovasse Madara, di come si fossero alleate le Terre Shinobi.
L'ultima sera non ci fermammo neppure per dormire, proseguendo il cammino fino all'alba. Il sole sorse presto, tingendo tutto di giallo chiaro e rosato, e sorrisi al vedere quello spettacolo naturale.
“È bello essere di nuovo vivi”, pensai rasserenato.
Poi mi rivolsi al mio fratellino: «Comincia un nuovo giorno, otouto».
Verso le nove del mattino giungemmo nei pressi di un piccolo villaggio, il più prossimo alla Foglia.
Al vederlo persi un battito. Sentivo lo sguardo di Sas'ke su di me, ma non mi mossi finché lui non parlò, serio.
«Niisan … devo dirti una cosa importante».
Non mi voltai, ma tenni gli occhi fissi sulle case all'orizzonte, lo sguardo lontano.
«Hai conosciuto Elisa».
Lo sentii annuire. «Anche tuo figlio».
A quel punto ero certo che il mondo avesse smesso di girare, solo per un millesimo di secondo. Mi voltai a fissarlo, stupefatto.
«Che cosa?!».
Sas'ke pareva sorpreso dalla mia reazione. «Non … non lo sapevi?».
Scosso la testa, le orecchie ovattate, cercando di digerire la notizia.
Ero padre?
Non capivo più niente, sentivo solo il bisogno irrefrenabile di correre al villaggio, trovare Elisa e baciarla fin quando avessi avuto fiato. E conoscere il bambino, mio figlio … e quello di lei …
«Come si chiama?», chiesi. Sentivo la mia voce lontana mille miglia, come appartenente a qualcun altro.
«Shisui».
«Shisui?!». Dovevo sedermi.
«Già», confermò Sas'ke. «È stato uno shock anche per me».
Ma non lo ascoltavo più. Non poteva essere un caso, era così forzato e così ovvio …
“Unmei no hito (7) … Sentito, cugino? Anche tu sei tornato a vivere …”
La voce del mio fratellino mi riscosse dal filo disordinato dei miei pensieri.
«Credo che sia ora di lasciarci». Prese un respiro profondo e mi guardò. «Jaane, niisan (8)».
Al che sorrisi, picchiettandogli la fronte con l'indice ed il medio, come avevo sempre fatto in passato.
«Arigatou, Sas'ke. Mata konto da (9)».
I suoi occhi color notte si sgranarono: era la prima volta che me ne uscivo con una frase del genere, ma era molto più rassicurante delle precedenti: dava una speranza.
Sas'ke annuì, sereno. Si sistemò meglio la kusanagi sulla schiena e si voltò, diretto a casa.
Lo guardai avanzare finché non sparì oltre le colline, le labbra ancora piegate all'insù, per poi volgere lo sguardo verso Tanzaku: il cuore mi batteva furiosamente nelle orecchie mentre mi avvicinavo alle porte del villaggio, trepidante …
Poi dal paesino uscirono due figure. Da quella distanza erano molto piccole, ma il mio udito allenato distinse nel venticello leggero uno scampanellio. Dovevo essere sbiancato.
Un passo dopo l'altro mi approssimavo sempre più rapidamente, un nodo alla bocca dello stomaco.
Quando giunsi ad un centinaio di metri dalle due ombre riconobbi un ampio cappello di paglia affrettando ulteriormente il passo, quella sensazione cogente ancora presente, tormentosa.
Ad un tratto la figura più piccola fece un cenno all'altra, indicandomi con una mano. L'interpellata si voltò subito nella mia direzione, rimanendo immobile per un attimo e poi scattò verso di me, correndo come se fosse inseguita, il cappello che le volò dalla testa, ricadendo sul prato.
“E' lei, è davvero lei ...”, era l'unica cosa che riuscivo a pensare mentre le sfrecciavo incontro.
Quando ci incontrammo a metà strada mi si lanciò direttamente tra le braccia, stringendomi forte, come a volermi entrare dentro, accarezzandomi la schiena, la nuca, ansimando per la corsa, mentre anch'io potevo finalmente sentire la morbidezza della sua pelle, il profumo dei capelli, il suo corpo caldo, dopo un anno e mezzo che era parso un'eternità.
Mormorava il mio nome con venerazione, come in una mantra, sentivo le lacrime bagnarmi la guancia e la maglia, il suo corpo tremante e la strinsi ancora più forte, beandomi di quella sensazione di serenità che stavo provando.
Rimanemmo così, senza dire niente, sfiorandoci finché lei non allentò la presa, abbastanza da potermi vedere in volto. Ci guardavamo come ipnotizzati, il cuore pompava impazzito, i suoi occhi chiari luccicavano per le lacrime e per la gioia. Le accarezzai il viso con le mani, nelle quali si cullò prima di guardarmi di nuovo, dolcemente. Allora abbassai il capo e feci coincidere le nostre labbra, bisognoso, muovendole con decisione. Sentivo quella pelle piena, tenera ed invitante e non potevo fare a meno di succhiarla e vezzeggiarla mentre anche lei schiudeva le labbra e la sua lingua si allacciava alla mia, rincorrendola ed intrecciandosi con essa.
Ci baciammo con passione, senza volerci separare e solo quando non potemmo più fare a meno di riprendere fiato ci separammo. Le diedi qualche altro bacio a fior di labbra mentre respiravamo velocemente.
«Itachi … », mormorò lei.
Un altro lieve bacio.
«Sono qui, Eli … », sussurrai, mentre con le labbra le sfioravo le guance increspate dal pianto, la punta del naso, la fronte. La sentii sorridere e mi guardò radiosa, i nostri occhi ancora incatenati, nei suoi vi lessi meraviglia, felicità e amore. Mi abbracciò di nuovo, appoggiando il capo sul mio petto con un sospiro ed io presi ad accarezzarle i capelli, dimentico momentaneamente di qualsiasi altra cosa che non fosse la donna che stringevo tra le braccia.

Nel frattempo, l'altra figura ci aveva raggiunti. Era il fratello di lei, che reggeva un fagotto candido. Quel piccolo involto attirò immediatamente la mia attenzione e mi voltai con Elisa verso il ragazzino. Dalle coperte spuntava un faccino paffuto, gli occhietti erano chiusi e dormiva profondamente, il piccolo petto che si alzava ed abbassava ritmicamente.
Al vederlo sentii un calore incredibile pervadermi, come se ogni mio organo si fosse fuso. Lei mise un braccio attorno alle spalle del minore, facendolo avvicinare, in modo che potessi vedere il pupo da vicino.
«Shisui», dissi. Non era una domanda.
«Nostro figlio», precisò.
Suonava così bene. Nostro figlio. Non potei fare a meno di sorridere, chinandomi verso il piccolo e chiedendole il permesso.
«Posso?».
Lei rise.
«Ma certo che puoi».
Annuii e lasciai suoi fianchi sottili per prenderlo in braccio, accostandolo a me. Mentre lo cullavo mi sentivo orgoglioso, felice. Quel bimbo era mio, mio e di Elisa, ed era bellissimo.
“Il primo esterno al clan”, pensai divertito all'idea di cos'avrebbe detto mio padre.
Elisa ci guardava serena, accarezzandomi la schiena come ad incitarmi. Ad un certo punto il cucciolo aprì gli occhi, rivelandone un paio scuro, made in Uchiha, che si legò al mio sguardo meravigliato ed io mio sorriso si allargò.
«Ciao, Shisui», e gli depositai un bacio sulla fronte, facendolo ridere. Al sentire quella risata chiara mi illuminai e guardai Elisa raggiante. Lei mi sfiorò le labbra con le sue e mi fece un cenno: capii che dovevo passarle il bimbo e così feci. Presolo, si rivolse a me e al fratello.
«Otouto, kore wa Itachi da (10)».
Lui fece un sorrisetto furbo: assomigliava molto ad Elisa con quell'espressione.
«Wakatte iru, neesan (11). In ogni caso, lieto di conoscerti, Itachi. Mi chiamo Marco», disse in tono leggero. Chissà cosa pensava del fatto che fossi la causa del parto della sorella poco più che ventenne. Però mi tese la mano amichevolmente e la strinsi senza troppi complimenti.
«Piacere mio», replicai.
Elisa osservava la scenetta divertita. Finita la presentazione rise di nuovo e mi prese sottobraccio, appoggiando il capo sulla mia spalla.
«Okaerinasai (12)».
Sentirmelo dire, come se quella fosse veramente casa mia era una sensazione strana, ma piacevole, soprattutto dato il saluto che mi aveva riservato prima che mi recassi al rifugio del clan. “Itterasshai” (13), aveva detto. Ed ora ero tornato.
«Tadaima (14)».



___うちは 一 族___



La giornata era trascorsa con una tranquillità limpida e calmante, il cielo azzurro nontiscordardimé sembrava sorridere, senza uno sbuffo di nuvola a turbarne il colore cristallino.
Avevamo speso il pomeriggio fuori città con Shisui, mentre cercavo ancora di realizzare appieno di avere un bellissimo figlio con l'unica ragazza che – ne ero certo – avrei potuto amare per il resto della mia vita. A questo pensiero mi detti dello sdolcinato, ma era così, innegabilmente: l'allegria, la malizia, l'entusiasmo e la dolcezza di Elisa non potevano che farmi innamorare sempre più di lei.

Ormai era sera ed io ed Elisa camminavamo poco fuori Tanzaku, da soli: Marco e Shisui avrebbero passato la notte da una vecchia signora che avevamo incontrato al mercato, la quale conosceva bene la sorella del ragazzo e l'aveva molto a cuore. Quando seppe che quell'uomo era tornato aveva subito proposto ai due giovani di pernottare da lei, concedendoci qualche momento di intimità. L'avevamo ringraziata con un sorriso che aveva ricambiato apertamente.
In quel momento discutevamo di ciò che era accaduto in quel lungo anno, stesi sul manto erboso della radura nella quale avevamo fatto l'amore tempo prima. Non sapevamo come vi fossimo giunti, probabilmente eravamo stati guidati dall'inconscio. La volta celeste era trapunta di stelle, più luminose che mai, la luna tinteggiava tutto di luce perlata.
«Perché rubasti le mele, quella volta?», chiesi ad un certo punto, voltandomi verso di lei, che restò in silenzio per qualche attimo, scoppiando poi a ridere.
«Ahah, è vero!», ricordò ilare, scuotendo la testa. «Un mercante era stato disonesto ed il resto è venuto di conseguenza. Comunque alla fine si è sistemato tutto, ma non era quel che si dice un “periodo d'oro” per il denaro … ».
Kami, ora mi sentivo in colpa.
«Eli, io … ».
Lei si voltò verso di me, posandomi un dito sulle labbra. I suoi occhi brillavano di affetto e buonumore.
«Ssh, Itachi … ». Sorrise. «Non devi preoccuparti, va tutto bene. Io, Shisui e Marco siamo stati bene».
La guardavo incerto, le sopracciglia corrugate che si rilassarono quando spostò il dito alla radice del naso, sciogliendo le rughe d'espressione che si erano create per il rimorso.
«È tutto ok», ripeté. «Più che ok».
Un altro sorriso e si sporse verso si me, baciandomi. Risposi subito, attirandola a me mentre le nostre lingue si incontravano di nuovo e cominciavano a rincorrersi senza fretta. Le accarezzavo i fianchi, cullandola lentamente ed in quel bacio sentivo tutta la nostalgia, il dolore e ora la gioia che aveva provato a causa mia.
«Mi sei mancato, Itachi. Non immagini quanto», sussurrò guardandomi negli occhi.
«Anche tu», confessai sincero. «Mi dispiace».
Un altro bacio.
Poi si mise a sedere passandosi una mano ne capelli schiacciati per ravvivarli.
«Dai, torniamo al villaggio, è tardi».
Annuii e mi tirai in piedi, porgendole la mano ed aiutandola ad alzarsi. Sistemò di nuovo il vestito leggero, mi prese per mano e ci incamminammo verso Tanzaku.

Una volta giunti a casa sua ed accese le luci, rimasi piacevolmente sorpreso di verificare che l'interno era molto simile a come me l'ero immaginato quando l'aveva vista dall'esterno: piccolo ed accogliente.
Elisa si diresse subito verso il bagno, dichiarando di aver bisogno di una doccia, idea cui mi dissi d'accordo, seguendola attraverso il salotto.
Prima di varcare la soglia però vidi nello specchio sopra il lavandino il suo riflesso: si stava svestendo lentamente e sinuosamente, le braccia allungate verso l'alto. L'abito le scorse sulla pelle, sopra la schiena, superò la testa e finì per terra. Le mutandine erano già state tolte, il reggiseno assente come suo solito. Ero così preso ad osservare la sensualità di quei gesti che realizzai solo in un secondo momento dell'effetto che avevano provocato sul mio corpo. Ignorai il fastidio e, spogliatomi a mia volta, la raggiunsi, cingendole la vita da dietro. Lui mi guardò dalla superficie riflettente per poi girarsi: mi accarezzò il viso delicatamente e sollevandosi in punta di piedi mi sfiorò le labbra, leggera, un contatto lievissimo che mi fece rabbrividire mentre una scarica elettrica mi percorse la spina dorsale. Presomi per mano, mi trascinò nella doccia ed aprì il getto dell'acqua: in un attimo eravamo già bagnati, i capelli lucidi attaccati al viso e alla pelle imperlata di gocce.
Presi in mano una spugna e, imbibitola di bagnoschiuma, presi a frizionarle la schiena con movimenti ritmici, circolari e delicati; aveva scostato la chioma umida sulla spalla, mettendo in mostra quella carne liscia e flessuosa e di tanto in tanto la sentivo sospirare.
Quando ritenni di aver terminato lasciai la spugna e mi sporsi verso il suo orecchio, leccandole lascivamente il guscio: «Ho finito».
Prima che potessi aggiungere altro si era voltata e mi aveva baciato, strofinandosi contro di me ed allacciandomi le braccia al collo. Non rifiutai quelle labbra soffici, assaporandole con gusto, mentre con le mani scendevano fino alle cosce morbide che afferrai saldamente per poi sollevarla. Intrecciò le gambe ai miei fianchi continuando a mordicchiarmi la bocca ed incontrando la mia lingua, famelica, mentre il mio membro si induriva ulteriormente a contatto con la sua femminilità. Le morsicavo le labbra, le leccavo e di nuovo quei muscoli vogliosi ed bagnati ripresero a danzare con sincronia e passione, i respiri pesanti che passavano da una bocca all'altra.
Quando poi fummo costretti e riprendere fiato, scesi con le labbra sul suo collo, affondando i denti nell'epidermide morbida, mentre lei reclinava la testa all'indietro e gemeva di piacere.

Passai sulla giugulare, sul seno, fino a prendere fra le labbra un capezzolo, già turgido, per succhiarlo e stuzzicarlo. Sfiorare quella piccola protuberanza con la punta della lingua mi eccitava incredibilmente, ed Elisa continuava ad ansimare, pronunciando sconnessamente il mio nome.
Poi mi spostai sull'altro, ed intorno a me udivo solo lo scrosciare dell'acqua e gli ansimi di lei.
Avrei voluto scendere ancora, ma tenendola in braccio non mi era possibile, quindi tornai a baciarla con foga, desiderando solo di prenderla subito, ascoltare la sua voce lussuriosa e sentirla mia, di nuovo. Le mie mani si spostarono dalle cosce alle natiche, che cominciai a palpare con vigore. Un altro gemito le sfuggì dalla bocca, facendole scostare le labbra dalle mie, consentendomi di mordicchiarle il mento ed il profilo delicato della mascella, fino a lambire il lobo tenero e lapparlo con calma insopportabile.
«Itachi … ».
Sentirmi chiamare in modo tanto licenzioso mi faceva perdere la testa. Le lasciai le gambe e lei tornò in piedi, fiondandosi subito su di me, insaziabile, mentre le mani mi accarezzavano il corpo, esplorandone ogni minima parte, veloci e leggere. Avevo i brividi, brividi di piacere. La sentii sogghignare nel bacio al mio fremere, ma non mi privai del suo sapore, baciandola a bocca aperta mentre le sue dita scivolavano sul mio addome ed infine pervennero alla mia asta tesissima, lucida per l'eccitazione e per l'acqua scrosciante. Al sentire quel tocco sul mio pene non ce la feci più a trattenere il piacere e gettai la testa all'indietro, ansimando forte.
«Aah … Eli … sah … ».
Le sue labbra si erano spostate sul mio collo e lo succhiavano lascivamente, le mani percorrevano il mio membro e lo masturbavano con movimenti ora lenti, ora più rapidi, contro i quali mi spingevo voluttuosamente. La goduria aumentò in modo esponenziale finché non esplosi, venendo abbondantemente; tuttavia non terminai neppure di sospirare che la sua bocca aveva intrapreso un viaggio dalla giugulare al mio petto, tormentando un capezzolo, il pollice vellutato che stuzzicava l'altro, ma rimase lì per poco, desiderosa di raggiungere zone più in basso.
Infine il suo viso arrivò alla mia virilità, sporca della mia stessa essenza, e la lappò impudicamente, dalla punta alla base.

«Aaaaah … ». Un lungo gemito affatto trattenuto di enorme goduria mi fuoriuscì dalle labbra – secche nonostante l'acqua che scorreva inarrestabile – e portai istintivamente le mani nei suoi capelli umidi. Cominciò a ripulirmi e sotto quei tocchi mi indurivo sempre di più; la sua bocca calda aveva accolto tutta la mia lunghezza e aveva iniziato a pompare, mentre con la lingua accarezzava la pelle tirata e succhiava col palato e con le guance, la mano che massaggiava i miei testicoli nuovamente gonfi. Sicuramente avrei avuto mal di gola il giorno dopo, da quanto stavo ansimando, e spingevo inconsciamente quella testa verso il mio cazzo, senza che lei si ritirasse, anzi, mi cinse la vita per aiutarsi ad riceverne sempre di più.
Non aveva smesso un secondo di guardarmi negli occhi, il che rendeva il tutto ancora più tremendamente eccitante: vedevo quelle iridi chiare appannate dal piacere e la mia mente non poteva che annullarsi, concentrandosi solo sulla lussuria e su quell'abile bocca che mi viziava senza sosta. Ero vicinissimo al punto di non ritorno, un'altra volta.
«Elisa … basta … », ansimai allo stremo, tirandole appena i capelli per farla scostare.
Lei si separò lentamente, succhiando sempre più piano, accogliendo via via meno carne, fino ad avere tra le labbra solo la punta arrossata, che lasciò solo dopo un'ultima, licenziosa lappata.
Mentre si allontanava dalla mai virilità, si inclinò all'indietro e non ebbi difficoltà a farla sedere sul pavimento scivoloso del box doccia, accomodandomi tra le sue gambe aperte. Un paio di dita andarono a stuzzicarle alternativamente il clitoride e violarle l'apertura, frattanto che mi riappropriavo delle sue labbra e della sua lingua, calde ed invitanti, i suoi gemiti soffocati nella mia bocca.
«Itachi … », farfugliò, la voce arrocata dal libido. «Fallo adesso … !».
Il tono bisognoso non mi sfuggì e in un istante tolsi le dita, penetrandola in un colpo solo.
Reclinò la testa all'indietro, il fiato mozzato, aggrappandosi alle mie spalle ed artigliandole con le unghie, mentre quel calore e quella strettezza mi mandavano scariche di eccitazione così forti che temevo di venire solo stando dentro di lei.
«Muoviti», miagolò vogliosa, e non me lo feci ripetere due volte, cominciando a spingermi in lei, uscire e rientrare con ancora più forza.
I nostri stessi ansimi ci stordivano, trasportandoci in un mondo surreale fatto solo di noi e di lussuria.
Elisa allargò le gambe, permettendomi di muovermi con maggior fluidità, mentre con una mano la sorreggevo e con l'altra facevo leva per terra, i nostri bacini che si muovevano all'unisono.

I sospiri ci impedivano di ricongiungere le labbra e non potevamo far altro che legare ancora le nostre lingue, mai sazie l'una dell'altra. L'aria era satura di gemiti profondi, soffocati ed urlati, e del suono dell'acqua scrosciante.
Il ritmo delle spinte divenne sempre più frenetico, lo spazio ristretto mi costringeva a cambiare spesso posizione e ad un certo punto mi giunse alle orecchie un urlo di piacere più acuto e lascivo dei precedenti.
«Dio, Itachi … aaaaah! … ». Il suo volto era arrossato per il libido, gli occhi liquidi.
Ricercai quel punto in lei che le aveva provocato quella reazione, ritrovandolo immediatamente, e la penetrai di nuovo, ansimando senza sosta.
«Sì … Itachi … sì … ».
Non capivo più nulla, sapevo solo che sarei venuto nel giro di niente, ma non riuscivo a scostarmi, le sue gambe mi tenevano ancorato a lei.
E poi, prima che ebbi terminato di preoccuparmi, mi liberai con un orgasmo prorompente, mentre sentivo che anche lei raggiungeva l'apice del piacere, i suoi fluidi che si mischiavano all'acqua e ai miei. Ci svuotammo insieme, sopraffatti da quelle sensazioni fortissime, gemendo i nostri nomi che si confusero tra le grida di goduria.
Infine, crollai esausto, cercando un briciolo di forze per non caderle addosso ed abbandonare il suo calore. Ce la feci ed una volta riuscito, le sedetti accanto, il respiro mozzato, il cuore pulsante ad un ritmo irregolare ed accelerato, e la attirai a me, la tua testa sul mio petto, le sue braccia intrecciate alla mia vita.
Rimanemmo abbracciati, cercando di stemperare la stanchezza, ma assaporando ogni istante del rapporto appena vissuto.
«Koishiteru (15)», disse poi sollevando lo sguardo ed incatenandolo al mio, la voce cullante e sicura, totalmente sincera. Sorrise dolcemente e baciai piano quelle labbra piegate all'insù.
«Koishiteru», ripetei, guardandola negli occhi. Kami, i suoi rilucevano come gemme dalla felicità.
Incuranti del tempo, ci lasciammo andare, rilassando i muscoli sotto l'acqua, per un tempo indeterminato, e quando sentii che si era addormentata, allungai una mano verso il rubinetto, bloccando finalmente quel flusso che ci aveva assistiti durante l'amplesso.
Aprii la cabina della doccia e la presi in braccio, portandola in camera da letto: il futon era ancora sfatto, ve la depositai con delicatezza, rimboccandola con cura per farla asciugare. Avrei potuto farlo io, ma temevo di svegliarla. Tornai in bagno, prendendo un asciugamano, e mi frizionai il corpo e i capelli, per poi infilarmi sotto le coperte e cingendole i fianchi. Il sonno ed un meraviglioso senso di pienezza che mi riempivano totalmente, impedendomi di tenere gli occhi aperti ancora per molto, giusto il tempo di vedere le sue guance piacevolmente arrossate e l'espressione quieta.
Con quell'immagine di lei nella mente, cedetti alle lusinghe di Morfeo, addormentandomi serenamente.


___うちは 一 族___


«Ohayou (16)», fece una voce calda non appena, lentamente, schiusi le palpebre.
Il viso delicato di lisa mi galleggiò davanti agli occhi, splendente come un raggio di sole e non potei che ricambiare il sorriso alla vista dei capelli scompigliati, del viso colorito e delle labbra ancora un po' gonfie per i baci. Riuscivo a scorgerle i numerosi succhiotti sul collo, probabilmente specchio dei miei.
«Ohayou», risposi infine, dandole il buongiorno a modo mio.

Un'ora dopo avevamo fatto colazione insieme a Marco, tornato poco prima, ed eravamo scesi in strada. Elisa mi teneva per mano, accarezzandone il dorso col pollice, mentre con l'altro braccio reggevo Shisui, il quale, sveglio, osservava tutto con estremo interesse, stringendo una manina paffuta alla mia maglia.
Spesso abbassavo lo sguardo e vedevo quella corta chioma corvina, quel corpicino caldo, senza poter fare a meno di sentirmi orgoglioso e immensamente felice.


___うちは 一 族___



Quella vita tranquilla proseguì per circa un mese: uscivamo con Marco ed il nostro piccolo quotidianamente per goderci il sole sulla pelle, per farlo giocare, per stare semplicemente insieme.
Shisui richiedeva la nostra attenzione diurna e notturna, ma non eravamo mai stanchi di accudirlo e coccolarlo per farlo chetare. Io ed Elisa dovevamo trovare il tempo per amarci, ma il pupo non era affatto un peso ed eravamo radiosi per avere una creatura così meravigliosa in comune.
Tuttavia mi rendevo conto che in corso c'era una guerra: non potevo permettere che alla mia famiglia facessero qualcosa, né che Tobi portasse a termine il suo piano. Avevo una responsabilità da cui non potevo e non volevo sottrarmi.
Qualche giorno prima avevo sentito alla locanda che le truppe shinobi erano impegnate contro gli implacabili Zetsu bianchi e che Madara teneva testa ai Gokage senza problemi.
In tutto questo non potevo scordarmi di Sas'ke, né di Naruto. Mi chiesi dove fossero, se stessero bene, se il loro scontro avesse già avuto inizio. La consapevolezza di poter fare qualcosa per cambiare le sorti della battaglia e non muovere un dito era tormentosa e nauseante.

Una sera io ed Elisa ci trovavamo in quella che ormai era la nostra radura, sdraiati come al solito sull'erba a guardare le stelle. Con il suo corpo caldo stretto al mio rimuginavo su ciò che stava accadendo e su ciò che dovevo fare. Inoltre, tenerla all'oscuro di tutto sarebbe stato impossibile e fuori luogo, ma come parlargliene senza essere brusco e senza giri di parole?
«Elisa … », esordii sicuro, serio.
«Sì?».
Come potevo farle questo un'altra volta? Sospirai, e lei si voltò a guardarmi preoccupata, puntellandosi sui gomiti.
«Cosa succede, Itachi?». Il suo sguardo si era fatto guardingo, di sicuro non presagiva nulla di buono.
«C'è una guerra in corso», confessai, guardandola dritto negli occhi.
Lei sgranò le palpebre, e annuì, come avesse capito tutto. Non lo esclusi, sembrava comprendermi alla perfezione o leggermi nella mente. Eravamo davvero in grande sintonia, l'uno parte dell'altra.
«Devi andare», sentenziò infatti a bassa voce.
Mi sentivo male, quella nota di dolore non mi era sfuggita. Feci combaciare le nostre labbra, inserendo una mano nei suoi capelli per approfondire il contatto. Le nostre lingue si cercarono subito, mentre mi davo una spinta e mi posizionavo sopra di lei.
La baciai finché non sentii l'angoscia allontanarsi, ma non appena mi separai quel pesante macigno tornò nel mio petto. Appoggiai allora la fronte sul suo seno, stringendo i denti. Le sue dita mi sfioravano il collo, mi accarezzavano il capo con fare quasi materno.
«Sì», risposi infine. «Devo».
«Sei già tornato una volta, tornerai di nuovo», mi rassicurò, ma sembrava parlare più a sé stessa che a me, per convincersi che tutto sarebbe andato per il meglio.
A quel punto sollevai la testa per guardarla: il suo viso era voltato, si mordeva le labbra, gli occhi lucidi. Era una vista straziante, non sopportavo di vederla così, soprattutto per causa mia, vista la sua irrinunciabile allegria. Le presi con delicatezza il volto tra le mani e fissai intensamente le sue iridi chiare ed appannate, mentre con i pollici le disperdevo le lacrime dalle guance.
«Tornerò, Elisa, te lo giuro», promisi con tutta la sicurezza di cui ero capace, senza sbattere neppure le palpebre. Lei tremava ancora, ma annuì e mi baciò di nuovo, con lenta passione.
«Koishiteru … », continuava a ripetere tra uno sfiorarsi di labbra e l'altro, finché non ci fu più bisogno di parlare.


___うちは 一 族___


Avevo deciso di partire l'indomani stesso e lei si era dichiarata d'accordo, con un sospiro rassegnato.
La mattina, una volta svegli, tornammo al villaggio di volata: mi dovevo preparare, certo, ma non potevo non abbracciare mio figlio almeno una volta.
Marco lo stava facendo giocare nel salotto inondato di luce, anche dal portico le risate cristalline del piccolo erano ben udibili. Varcai la soglia con un groppo alla gola, salutando il mio otouto acquisito e presi subito in braccio Shisui che non appena vide me e sua madre agitò le braccia nella nostra direzione, smanioso.
Lo strinsi forte a me, baciandogli la fronte, ed Elisa mi cinse la vita, chiudendo nostro figlio tra di noi. Non dovevo dire niente, ma solo fargli capire quanto lo amavo. Anche lui si aggrappò a noi, le manine allacciate ai nostri indici. Poi lei fece un cenno al fratello che corse subito al suo fianco, posandole il capo sul ventre e le mani ai suoi fianchi, il palmo della ragazza sulla sua spalla.
Era per tutto questo, per Sas'ke, per Konoha che dovevo sopravvivere, tornare.
Assaporai quanto più potei quegli istanti infiniti, pronto a conservarli nella mia mente per sempre.

Infine giunse il momento: avevo preparato le armi col cuore in gola, indossato la corazza come al tempo degli ANBU, ma temevo comunque di non farcela. Non dubitavo delle mie capacità, ma il mio avversario era davvero molto forte. Ripensai al motivo per cui facevo tutto quello, alle persone che amavo, e riacquistai la determinazione per tornare nell'ingresso.
Elisa mi aspettava alla porta, con Marco al suo fianco e Shisui in braccio. Ripetere che ci amavamo era superfluo: in ogni gesto o sguardo che fosse lo sentivamo entrambi, ne eravamo consapevoli, e questo ci bastava.
«Ittekimasu (17)», salutai come l'ultima volta, accarezzandole il viso.
Lei prese la mano tra le sue e mi guardò negli occhi, lo sguardo colmo di affetto, augurandomi buon viaggio.
«Itterasshai».


___うちは 一 族___



Sei mesi dopo, Tanzaku

Il portone del villaggio era sempre più vicino, avanzavo sicuro verso di esso senza fretta. Sentivo di essermi tolto un peso dalle spalle, e di averlo fatto con quelle di molti altri.


Dire che Madara era stato un osso duro era usare un eufemismo: ero ben consapevole si quanto fosse potente, a tal punto da sfidare i cinque villaggi shinobi e progettare il dominio delle terre ninja, ma non avevo pensato che possedesse anche le cellule di Shodai Hashirama Senju. Avevo calibrato e programmato ogni mossa basandomi sulle possibilità di un membro del clan particolarmente abile, ma ciò che avevo dovuto affrontare era stata una sorpresa che mi era quasi costata la vita, oltre che un occhio: utilizzare di nuovo Izanami non era nelle mie previsioni ed ancora una volta avevo dovuto uccidere un membro del mio stesso clan. Era stata una sensazione strana, come di amaro déjà-vu.
Alla fine dello scontro ero crollato, attorno a me sentivo solo una gran confusione, le urla degli shinobi che continuavano a combattere contro gli Zetsu, i pianti disperati, e soprattutto le voci disperate dei Kage: nessuno si aspettava la mia presenza, e non bastava che avessi sconfitto il mio avo per far perdonare il mio tradimento al Villaggio. Tuttavia non era quello ciò che volevo e sapevo che per riprendermi ci sarebbe voluto parecchio tempo. Tsunade però mi aveva curato ugualmente: chiamati alcuni membri della squadra medica di supporto, aveva richiuso le mie ferite e poco alla volta riaggiustato le ossa spezzate, il polmone perforato. Avevo perso i sensi e percepivo tutto come fosse un sogno. Ogni tanto delle luci balunginavano davanti ai miei occhi, evanescenti, finché non tornavo di nuovo a dormire.

Non so per quanto tempo rimasi privo di conoscenza, ma quando sentii la voce di Godaime chiamarmi, nonostante la testa pesantissima decisi di aprire lentamente le palpebre. Purtroppo notai con fastidio di avere una benda sull'occhio sinistro, presenza subito illustrata con una spiegazione breve, concisa ed affannata di Tsunade: recepii che avevo perso parecchio sangue e che mi ero procurato innumerevoli ferite profonde e lesioni superficiali. La cosa più importante era però che non possedevo più entrambi gli occhi di Sas'ke, ma solo uno: l'altro era di Madara.
L'idea di avere nel mio corpo qualcosa di suo mi ripugnava, ma non dissi niente: nonostante fossi un nukenin di grado S ero stato guarito dall'Hokage in persona e tanto bastava. Sicuramente la Sannin non conosceva tutte le leggi degli Sharingan, ma doveva aver monitorato che uno dei miei occhi non fosse più utilizzabile e ritenuto che il bulbo di un membro del mio stesso clan fosse il rimpiazzo ideale.
Quando ripresi il controllo del mio corpo mi diedi da fare il più possibile per aiutare tutti gli squadroni nei quali m'imbattevo, sfoltendo poco a poco il numero degli Zetsu ancora in vita. Ormai però ciò che dovevo fare l'avevo portato a termine e dopo settimane di sangue e lutti decisi di tornare a Tanzaku: la battaglia si avvicinava verso la propria conclusione, e con due Jinchuuriki dalla loro parte le Forze Alleate non potevano che vincere.


Ero arrivato: aprii il portone, avanzando lungo le vie di quel piccolo villaggio pacifico e brioso, mentre il freddo vendo invernale s'inoltrava sotto i miei vestiti, facendomi rabbrividire appena.
Ed eccomi davanti alla porta della casetta, la mia destinazione finale. Bussai trepidante e poco dopo quella si aprì, permettendomi di specchiarmi in un paio di occhi chiari e familiari, sgranati dalla sorpresa inizialmente e poi da una meravigliata felicità.
«Itachi … », sussurrò, spalancando completamente quell'ostacolo di legno e facendomi notare che tra le braccia reggeva nostro figlio, il quale giocava coi suoi capelli castani.
«Tadaima», feci io, per poi prenderle il viso tra le mani e baciarla dolcemente, accogliendo poi sul mio petto Shisui, che rise divertito da quell'impeto. Lo strinsi a me forte, mentre gli accarezzavo la testolina e guardavo il viso raggiante di lei.
Dei passi lungo il corridoio mi annunciarono l'arrivo di Marco, che fece un cenno sorridente nella mia direzione.
«Okaerinasai».
Sì. Finalmente ero a casa.



おわり~





1: Itachi, aspetta!
2: Perché, Sas'ke?
3: Fratello, io ...
4: E' tutto ok, Sas'ke
5: Trovato!
6: So che in teoria Itachi ha i propri occhi, ma come gli ho fatto spiegare, la cosa per me non funzionava. Volevo dargli gli occhi di Shisui, visto quanto erano legati, ma uno l'aveva Danzo e sinceramente mi schifava l'idea di darlo ad Itachi. Chi altri? Uno degli occhi di Obito lo ha Kakashi, quindi non potevo fare molto.
7: Anima gemella, persona scelta dal destino cui si è destinati
8: A presto, fratello.
9: Grazie, Sas'ke. Alla prossima. E' un'ovvia ripresa di "Yuruse, Sas'ke. Mata konto da".
10: Fratellino, questo è Itachi.
11: Capisco, sorella.
12: Ben tornato
13: Buon Viaggio, ci vediamo
14: Sono a casa
15: Letteralmente significa "Ti amo", però non inteso nel senso banale di tutti: si dice solo alla persona con cui si vuole passare il resto della vita.
16: 'giorno!
17: Vado


___うちは 一 族___: clan Uchiha /Uchiha Ichizoku/
___ POV イタチ ___ : POV Itachi
おわり~ : Fine /Owari/

Link EFP nel titolo
view post Posted: 9/1/2015, 19:57 The Legacy of Uchiha Clan - Fanfiction non DN

THE LEGACY of UCHIHA CLAN




Avevamo da poco superato il confine di Hi no Kuni (1) e mi era tornato un certo senso di nostalgia, ricordandomi di quando avevo dodici anni e giravo per il Paese del Fuoco per le missioni. Era un'altra vita, che non avrei mai potuto riavere. Chiusi un attimo le palpebre, con un sospiro impercettibile.
«Nandes'ka, Itachi-san? (2)».
Il mio compagno di viaggio interruppe solo per un attimo il filo dei miei pensieri.
«Nanimo… (3)».
Il viaggio proseguì.


___うちは 一 族 ___


Non sapevamo neppure cosa ci facevamo nel mio paese natio, Pein non ci aveva detto nulla dopo l'ultima estrazione del bijuu ed io e Kisame avevamo continuato ad attraversare le Terre Shinobi senza una meta.
Ormai erano le sette, ma il tramonto era ancora visibile dietro gli alberi. Le sfumature arancioni, rosse ed indaco del cielo estivo tingevano tutto il paesaggio, riflettendosi sui nostri volti. Strizzammo gli occhi e ci calammo il cappello sul viso, in modo che la luce serale non ci disturbasse.
Poco dopo scorgemmo dei tetti all'orizzonte ed affrettammo il passo, dirigendoci verso la città.
Nonappena varcammo l'entrata capii, con un'improvvisa stretta al petto, che ci trovavamo a Tanzaku. Konoha era solo a qualche kilometro più a est. Ero vicino a casa.
Percorremmo qualche stradina, attenti a passare inosservati e mi chiesi ancora una volta come mai gli abitanti non si insospettivano nel vedere le cappe dell'Akatsuki. Forse non conoscevano l'organizzazione, dopotutto, non era un villaggio ninja.
Ed eccoci davanti alla locanda. Mi piacevano quegli ambienti, sapevano di tranquillità e, soprattutto, di normalità. Io e Kisame sedemmo ad un tavolo poco in vista e una cameriera passò a prendere l'ordinazione.
Il saké e i dango arrivarono in fretta e potemmo finalmente mettere qualcosa nello stomaco. Non era molto, ma non eravamo abituati ad ordinare Yakitori o Soba.
Né io né lui parlammo, ascoltando invece le chiacchiere dei paesani sotto un sottile strato di fumo. Era una fortuna che viaggiassi con Hoshigaki, ero certo che, come Kakuzu, non sarei riuscito a fare coppia con un logorroico religioso qual'era Hidan. Per non parlare di Deidara, che alla prima occasione avrebbe approfittato della situazione per realizzare la sua brama della mia dipartita.

Se non fosse per gli scopi dell'organizzazione e per le ambizioni personali saremmo anche potuti diventare amici sul serio, in un mondo ideale. Immaginavo ciò che sarebbe potuto succedere, tra un guaio combinato da uno o dall'altro Akatsuki, ma per quanto divertente fosse non riuscivo a riderne. Non ci potevo sperare.
Terminati i dolci e gli alcolici lasciammo qualche ryo sul tavolo e ci alzammo per uscire. Scostati i teli, però, dovemmo fare un passo indietro all'istante: una ragazza ci era improvvisamente sfrecciata davanti, alle calcagna cinque o sei robusti omoni. Per terra, qualche frutto caduto nella fuga.
Non persi un attimo: attivai lo Sharingan e sparii in cima ad uno degli edifici, Kisame avrebbe controllato da sotto. Perlustrai con lo sguardo la zona circostante finché non la individuai in un vicolo: era spalle al muro, i tizi che si avvicinavano con le spranghe in mano.
Lei però non pareva spaventata, anzi, ghignava, come se si stesse divertendo. Poi, prima che gli inseguitori potessero fare alcunché, la ragazza rovesciò le mele che reggeva tra le braccia in un sacco di iuta abbandonato e si mise in posizione di combattimento.
Gli omoni la schernirono, ma il suo sorriso si allargò. Prima che quello che sembrava il capo terminasse l'insulto lei gli aveva già mollato un sonoro pugno sulla mascella. Riuscii a sentire il metallico suono delle ossa spezzate anche dalla mia locazione abbastanza distante. Be', forse perché avevo le orecchie tese al massimo per captare qualsiasi cosa.
Il gruppetto ritornò subito serio e arrabbiati si scagliarono contro di lei. I miei muscoli scattarono d'istinto, pronti a farli neri, ma con mia gran sorpresa schivò tutti gli attacchi, fece lo sgambetto ad uno, gli sfilò la spranga di mano e bastonò i due che la stavano per braccare, colpendoli giusto sulla nuca. Tramortiti, caddero a terra come l'altro compagno.
L'aria si riempì di tensione, poi un altro sferrò un pugno nella zona presso il viso della ragazza che gli afferrò il braccio e portandosi alle sue spalle passando sotto di esso, glielo stortò. Il tizio gemette di dolore e si accasciò contro il muro.

Era davvero brava, non ansimava nemmeno, il sorrisetto sempre al suo posto. Fece una finta e i due ceffi rimanenti scapparono via terrorizzati.
Lei ridacchiò, si ricompose, afferrò il sacco e se lo mise in spalla, avviandosi verso lo sbocco del vicolo.
La seguii dall'alto per tutto il tragitto, fino ad una delle casette nella periferia del villaggio. Era una costruzione che doveva ospitare al massimo due stanze e un bagno, rialzata su dei bassi pali in legno.
La ragazza salì la breve scaletta, appoggiò il sacco sulle tavole del portico e bussò tre volte.
La porta si aprì quasi istantaneamente, mostrando un ragazzino che doveva avere all'incirca dieci anni. Nonappena la vide gli scintillarono gli occhi e la abbracciò forte in vita.
«Okaeri, Nee-chan!».
Lei ricambiò il gesto d'affetto e gli scompigliò i capelli.
Chiusi gli occhi e mi voltai di scatto, disattivando lo Sharingan. Respiravo profondamente, cercando di rilassarmi, mentre i ricordi mi affollavano la mente.


«Niisan! Avevi promesso che mi avresti insegnato un nuovo jutsu con gli shuriken, oggi!».
Il mio otouto mise su un broncio adorabile. Odiavo ciò che gli avrei dovuto far subire, dopo tutto l'affetto, l'ammirazione e l'invidia che trasudavano dai suoi occhi color notte.
Mi concessi un sorriso e lo chiamai a me con la mano. Il suo sguardo si accese di entusiasmo, le labbra piegate all'insù. Si lanciò verso di me, pronto ad abbracciarmi, ma prima che mi raggiungesse lo colpii in fronte con due dita, lasciandolo di sasso, ma senza abbandonare il sorriso.
«Yuruse, Sas'ke. Mata konto da».



All'improvviso sentii una mano toccarmi la spalla, ma non sussultai.
«Itachi-san, Daijoubu ka? (4)».
Annuii senza guardarlo.
«Fermiamoci qui per la notte. Sono stanco».
Un lieve spostamento d'aria mi fece capire che aveva fatto un cenno d'assenso.
«Va bene».


___うちは 一 族 ___


Il mattino dopo mi svegliai col sorgere del sole. Strizzai gli occhi, mettendomi lentamente a sedere, cercando di rendere la stanza meno sfocata, ma senza riuscirci. La mia vista stava peggiorando.
“Kuso”
Mi guardai intorno, ma di Kisame non c'era traccia, apparte un foglietto in cima al suo futon ripiegato.

Samehada aveva fame. Quando vuoi riprendere
il viaggio vienimi a cercare verso ovest.


Non mi andava giù che Hoshigaki andasse in giro ad uccidere persone per nutrire la sua spada, ma non potevo farci nulla. Dopotutto, non potevo neppure permettermi di contestarlo, visto che io avevo fatto molto di peggio.
Abbandonai quel pensiero sconclusionato con un sospiro e mi stiracchiai, alzandomi in piedi.
Mi rivestii, ripiegai il futon e scesi nella hall, pagando per la notte e ringraziando per l'ospitalità.
«Mata irasshai (5)», mi sentii dire prima di uscire.

Per strada c'era già qualcuno, pur essendo presto. Non sapevo cosa fare, perciò girai a vuoto, cercando di non farmi venire in mente pensieri spiacevoli, tenendo la mente sgombra.
Senza che me ne accorgessi si era fatto mezzogiorno, così mi fermai a mangiare del sushi, contando di raggiungere Kisame nel pomeriggio.
«Gochisoo-sama deshita (6)».
Lasciai altri ryo sul tavolo e mi avviai all'uscita di Tanzaku, di nuovo sovrappensiero, ma senza pensare davvero a qualcosa.

SBAM!

Stavo girando l'angolo quando mi scontrai con qualcuno proveniente dal verso opposto. Barcollai all'indietro, ma il malcapitato cadde a terra. Scossi la testa e mi voltai per scusarmi, ma quando vidi di chi si trattava mi morirono le parole in bocca.
Era la ragazza di ieri. Non c'era dubbio. Al momento si stava rialzando sbattendosi via la polvere dai vestiti sgualciti.
Infine, alzò gli occhi su di me. Ancora non riuscivo a parlare. Lei sorrise.
«“Gomennasai (7), signorina. Non intendevo farla cadere. Daijoubu des'ka?”», mi prese in giro.
La sua voce era calda, allegra e con una vena di malizia. Si accordava perfettamente col carattere che aveva mostrato il giorno prima.
«Ti ho tolto le parole di bocca, vero?», continuò divertita, continuando a sfottermi.
A quel punto mi indispettii, ero un Uchiha, dopotutto.
«Ehi! Piuttosto dovevi stare attenta tu a dove mettevi i piedi».
Rise, di una risata serena e quasi strafottente.
«Adesso è colpa mia?».
Mi fissò, ancora quel tono malizioso, stavolta rispecchiato anche nei suoi occhi cerulei. Le lunghe ciglia ed il viso dai tratti morbidi tradivano, senza dubbio.
Non risposi, continuando a guardarla da sotto il cappello, il quale, un istante dopo, sparì dalla mia testa, visto che l'aveva fregato e se l'era messo sotto braccio.
Le lanciai uno sguardo d'accusa, ma lei mi sorrise nuovamente. Quei sorrisi mi facevano quasi star male, non ne vedevo da troppo tempo, rivolti a me.
«Scusa, mi piace guardare in faccia le persone con cui parlo».
Mi guardò ed una scintilla attraversò le sue iridi.
«E poi, sei anche un gran figo, sai?».
Rise di nuovo. Mi prendeva continuamente in contropiede.
«Mi ridaresti il cappello, per favore?!», replicai senza rispondere al complimento lusinghiero.
Lei fece finta di pensarci su un attimo, poi riportò di nuovo l'attenzione su di me.
«Mmh, no. Non ne ho voglia. Facciamo così: prima ti fai perdonare e poi te lo restituisco, ok?».
E mi tese la mano.
Incrociai ancora il suo sguardo, cercando di capire cosa volesse davvero, ma non mi andava di preoccuparmi di altro. Almeno per un po'.
Così, riservatole un ghignetto, le strinsi la mano, scoprendo con piacere quanto fosse calda e morbida.
«Itachi desu. Douzo yoroshiku (8)».
Lei sorrise.
«Sono Elisa. Felice di conoscerti, Itachi», si presentò, calcando bene sul mio nome, aggiungendovi la solita nota che avevo imparato a classificare come maliziosa.


___うちは 一 族 ___


Ancora non avevo ben chiaro cosa intendesse per “farmi perdonare”, ma non vi davo più di tanto peso. Avevamo passeggiato per tutto il pomeriggio, parlato e anche cenato fuori Tanzaku con degli onigiri presi d'asporto. Era di nuovo il tramonto, giusto un po' tardi, forse. Era piacevole passare il tempo con lei, dopo mesi - no, anni – di lavoro sporco per l'organizzazione. Kisame poteva aspettare.
“Esattamente un giorno da che l'ho vista per la prima volta”, pensai mentre frugavo nel bosco per cercarla. Non sapevo il perché ma adorava gli scherzi ed aveva insistito per giocare a nascondino nella foresta. Credevo non ci sarebbe stato nulla di esaltante, invece con mia gran sorpresa mi sentivo tranquillo come non lo ero da prima di ricevere quel dannato ordine, nove anni fa.
Stavo attento a percepire ogni singolo suono o fruscio, ma non avevo attivato lo Sharingan. Volevo che fosse un giorno normale, senza mukenin S-rank o jinchuuriki da catturare.
A parte le cicale che frinivano nei pressi di uno stagno, la selva era placida e quieta. La ragazza era davvero abile in certe cose. Mi stavo dirigendo verso sud, dove il bosco si riuniva alle radici delle montagne. Ci eravamo distanziati parecchio da Tanzaku e vista l'ora, l'unica fioca luce proveniva dalla luna.

All'improvviso sentii un frusciare accanto a me. In un secondo scattai in posizione da combattimento, il kunai stretto nella mano. Scrutai le ombre, cercando di capire cosa fosse stato e alla fine uno scoiattolo uscì dal fogliame e scappò via.
Mi rilassai, pronto a continuare la ricerca, ma mentre riponevo l'arma venni di colpo atterrato al suolo, un peso che mi teneva schiacciato a terra, il viso premuto contro il terriccio umido. L'aggressore mi teneva le braccia bloccate dietro la schiena. Mi dimenai, ma non risolsi nulla. In condizioni normali me lo sarei scrollato di dosso nel giro di niente, ma non avevo voglia di combattere.
E poi sentii una risata familiare.
«Ahahah, dovresti vederti, Ita-chan! Ti sei fatto fregare come un baka!».
Era lei. Assurdo che non l'avessi percepita. Però riudirla dopo quella mezz'oretta passata a brancolare nel bosco mi fece sentire strano. Era la stessa sensazione di quando avevo dieci anni e tornavo a casa da una missione: Sas'ke mi correva incontro e mi abbracciava fortissimo, come se fossi la persona più importante della sua vita, e mi dava il bentornato con mamma e papà. In quei momenti sentivo di volere un gran bene a tutti.
Per qualche strano motivo, con Elisa mi accadeva lo stesso. Forse era per il suo buonumore, forse perché semplicemente non mi temeva come chiunque altro, non mi odiava.

“Arigatou”, pensai sorridendo.
«Lo sai che hai perso, vero?», la sbeffeggiai, voltandomi per quanto possibile verso di lei. Continuavo a non vederla.
«Non direi. Ci stavi mettendo troppo e mi stavo annoiando».
Mi indispettii.
«Sei molto abile a nasconderti», mi complimentai, deviando il discorso.
«Grazie», fece lei, la voce piena di falsa modestia.
«Pfff … », sbuffai. Lei però non sembrava intenzionata a farmi alzare.
«Ehi, Itachi».
Il tono era ambiato, più tranquillo e serio, ma sempre malizioso. Non riuscivo a capirne il motivo. Forse era semplicemente il suo modo di parlare, affatto intenzionale.
«Sì?». Parlai con altrettanta calma.
«Visto che prima ti è andata male, che ne dici se vediamo chi è il più veloce?».
Riecco la risata allegra e rassicurante. Non mi diede nemmeno il tempo di replicare che si era alzata dalla mia schiena e si era messa a correre.
Mi alzai di scatto e cominciai ad inseguirla, rapidissimo. La sentivo ridere, in testa teneva il mio cappello, i campanellini che tintinnavano. Saltava e schivava tronchi, cespugli e le fronde più basse con una naturalezza incredibile. Rimasi un attimo, rallentando la corsa. Lei si voltò per saggiare il distacco.
«Ahahah, troppo lento!». Mi fece una linguaccia e proseguì.
Mi riscossi, ghignai ed accelerai il passo.
Ad un tratto Elisa attraversò un arco di rami e sparì dalla mia vista. Un secondo dopo li superai anch'io e mi ritrovai nello spiazzo di un laghetto. Non persi tempo a guardare il paesaggio: lei si distrasse un attimo e la agguantai in vita - la stretta un po' più forte di quanto avrei volto per via del contraccolpo – ed il copricapo cadde a terra con uno scampanellio.

La guardai dritta negli occhi, seriamente. Le sue iridi chiare erano ipnotizzate, la bocca semidischiusa. Soffiò una folata di vento che scompigliò i capelli di entrambi. Era davvero bella. Inclinai d'istinto il volto verso di lei, spinto dal desiderio irrefrenabile di baciarla, senza curarmi delle conseguenze. Lei chiuse le palpebre, venendomi incontro.
Kami, era una vera e propria tentazione …
“Itachi … non fare cose di cui potresti pentirti …”
All'ultimo secondo, quando ormai sentivo il suo fiato caldo sulle labbra, riuscii a recuperare un briciolo di lucidità e mi spostai verso il suo orecchio.
«Ho vinto io».
La sentii gemere e poi aprì gli occhi, contrariata.
Mi tornò un sorrisetto ironico che sembrò rilassarla, infatti poco dopo le era già tornato il buonumore e la scintilla di malizia nello sguardo.
«Ah, ma davvero?».
“Cos'avrà in mente ora?”, mi domandai senza preoccuparmene realmente.
Senza scostarsi minimamente mi posò una mano sul petto, sfiorandolo sensualmente attraverso la maglia a rete, l'altra cinse la mia e cominciò a camminare all'indietro.
Il contatto mi stordì per un secondo, ma l'elettricità che c'era non era svanita: la sentivo attraverso la pelle, in un brivido continuo, impercettibile per lei, e la seguii ammaliato.
Ora eravamo alla riva del lago. La luna e le stelle si riflettevano sul nero e lucido specchio d'acqua, tremolanti, mentre la cascata poco più avanti si gettava con fragore nella pozza, la schiuma che ribolliva sulla superficie.

Riportai l'attenzione sulla ragazza e notai che osservava il paesaggio davanti a noi, sorridendo serena. Le mie labbra si piegarono all'insù d'impulso, come una calamita. Lei sorrideva, io sorridevo.
Tornò a guardare me.
«Ti sfido a tuffarti», esordì quasi con solennità.
“Nani?!”
«Ahahah, e perché?», chiesi ilare.
«Perché no?».
Fissai la sua espressione beffarda, per poi sbuffare in modo teatrale e mi sfilai la maglia in modo volutamente provocatorio, allungando i muscoli del busto. Nel momento in cui la stoffa mi coprì il volto attivai lo Sharingan, giusto in tempo per scorgere la voluttà sul suo viso e ghignai tra me e me.
Terminato, la gettai a terra, slacciai i sandali, i pantaloni e guardai Elisa con un'occhiata di sufficienza, nei suoi occhi ancora un lampante desiderio.
Mi allontanai, salii su un piccolo scoglio e mi tuffai, ritrovandomi subito nell'acqua, sorprendendomi di quanto poco ghiacciata fosse. Nuotai un po' sotto la superficie, rinfrescandomi, per poi darmi una spinta con le gambe ed infrangendola nuovamente, avvicinandomi alla riva, senza però arrivare a toccare il fondo.

«Allora? Non vieni?», la schernii.
«Ti piacerebbe», rimbeccò lei.
Rise, si sfilò i pantaloncini, la maglietta leggera e sbrindellata e fece qualche passo indietro, cominciando a correre, e saltò.
Qualche secondo in aria, uno splash, schizzi ovunque e mi raggiunse con un tuffo a bomba. Ed eccola accanto a me, ridente, tenendosi a galla.
«Complimenti», mi congratulai allegro.
Ci guardammo ancora, sorridendoci.
Mi tornò in mente il pensiero che avevo formulato poco prima, il bisogno di esprimere la mia gratitudine per tutto ciò che stavo provando.
Come se mi avesse udito, mi abbracciò. Forte. Rimasi come pietrificato, senza capire.
«Grazie».
Stupore. Profondo.
«Perché?».
Lei scosse la testa e strinse ancora di più.
«Grazie, Itachi».
Non seppi ma il motivo di quelle parole. In quel momento ricambiai semplicemente l'abbraccio, cingendole i fianchi sottili, accarezzandole la pelle morbida, affondando una mano nei suoi capelli umidi.
Avrei voluto rimanere così, ma sentivo l'esigenza di fare una cosa, prima. Accontentare entrambi.
«Eli … », la chiamai.

Lei si tirò più su, per guardarmi in faccia e la baciai, attirandola ancor di più – per quanto possibile – a me. Muovevo le labbra con decisione, succhiandole, gustandone la morbidezza. Non sembrava che attendesse altro. Rispose al bacio con coinvolgimento, leccandomi le labbra sensualmente. Intercettai la sua lingua con la mia ed intrapresi un gioco languido ed eccitante, mentre nuotavo verso la riva. Le sue labbra erano deliziose, soffici ed invitanti e non persi un istante per saggiarle ed assaporarle quanto più potevo.
Respirare non era necessario. Dovevamo solamente soddisfarci.
Finalmente approdammo, senza parlare, lasciandoci andare alle emozioni. Le accarezzavo i fianchi, sentendola rabbrividire e giunsi alle mutandine, che sfilai subito, facendole sollevare le gambe. Lei seguì i miei movimenti, puntellandosi sui gomiti, permettendomi di slacciarle anche il reggiseno e dimenticarlo da qualche parte vicino a noi.
Ad un certo punto fui costretto a riprendere fiato, così lasciai le sue labbra, sciogliendo anche l'intreccio delle lingue, ma cercando di prolungare il momento continuando a lambirne la punta.
Scesi sul collo, succhiando avidamente, mentre le mie mani scorrevano sul suo corpo, indirizzando la loro attenzione sui capezzoli.
La sentivo ansimare rocamente, suoni di puro piacere che non facevano che aumentare la mia eccitazione, le sue dita tra i miei capelli che mi trattenevano.

Lasciai quel lembo di pelle morbida marcandolo visibilmente e raggiunsi i seni tondi, pieni e sodi, decisamente parecchio appetibili. Rimasi a guardarla con bramosia per poi sostituire la bocca ai polpastrelli.
Presi un bottoncino di carne tra le labbra, mordicchiandolo di tanto in tanto, cominciando ad ondeggiare su di lei, strusciando la mia erezione contro la sua coscia, cercando di darmi sollievo.
«Kami, Itachi … ah! … ».
La sentii inarcarsi sotto di me e gemetti mentre mi dedicavo all'altro capezzolo.
Eravamo avvolti dalla lussuria, desiderosi di avere sempre di più. Sentii le sue mani spostarsi lungo la mia schiena, fino a raggiungere le mie natiche e cominciando a palparle con vigore.
Inconsciamente, sfregavo contro di lei con più vigore, tuttavia le sue mani non restarono la lungo; afferrarono il bordo dei boxer e liberarono la mia virilità, cominciando a masturbarmi.
«Cazzo, E – li … », soffocai un gemito mentre scendevo lungo il suo ventre, le violavo l'ombelico con la punta della lingua e scendevo ancora …
Giunto alla sua femminilità esitai un attimo, prima che mi spingesse il capo. Così cominciai a baciarla e lapparla.
«Ita … chi … sì … ah … ».
Non cercava nemmeno di nascondere la voce goduriosa, era la cosa più eccitante del mondo. Accordava i movimenti della mano ai miei, stringendo di più o di meno a seconda del piacere che provava.

Più continuavamo più ci desideravamo. Le sollevai le gambe e la penetrai con la lingua.
«Aaaah! … Oddio! Itachi! … Aaaaah … sei … ».
Non finì la frase, un altro lungo gemito le impedì di parlare, mentre continuavo a prepararla.
Basta, non ne potevo più. Volevo prenderla. Adesso.
Lei però non sembrava dello stesso avviso: nonappena mi separai dalla sua intimità ribaltò le posizioni, sedendosi sulle mie cosce. Non mi diede neppure il tempo di capire ciò che stava succedendo che aveva già preso in bocca il mio membro, fino alla base, e succhiava forte.
«Aaah … Eli …. ! … ».
I miei propositi andarono momentaneamente a farsi benedire, mentre il mio cazzo spariva e rispuntava dalle sue labbra, e le sue dita mi torturavano i testicoli senza un attimo di tregua.
Stavo per venire … troppo presto …
«Aaah … Eli ... bas- … ».
Gettai la testa all'indietro, stringendo i denti. Com'era possibile che sapesse esattamente cosa fare per portarmi alla follia?
Alla fine decise di darmi ascolto, sollevando il capo con un ghignetto e si leccò lascivamente delle gocce pre-orgasmiche dalle labbra.
Ogni suo gesto era atto a provocarmi. Grugnii, sentendo che mi stavo indurendo ulteriormente.
“Va bene, è abbastanza!”
Un colpo di reni e fu di nuovo sotto di me. Mi avvolse languidamente le gambe ai fianchi, mentre prendevo in mano il mio sesso pulsante e la posizionavo alla sua entrata.
E poi, spinsi.

Le nostre voci si armonizzarono in un lungo gemito di puro piacere. Sentivo il suo corpo caldissimo contro il mio, mi avvolgeva da ogni parte e l'unica cosa che volevo era insinuarmi in lei più velocemente e più a fondo possibile.
Elisa infilzò le unghie nelle mie spalle, la percepivo contrarsi, mentre con la coda dell'occhio vidi i suoi capezzoli svettanti, l'espressione goduriosa … lo presi come un via libera, così uscii lentamente e rientrai, quasi trattenendo il respiro. Un altro ansito lungo e voglioso.
Cominciai a stabilire un ritmo, entravo ed uscivo mentre lei mi veniva incontro, la sua voce che emetteva suoni assolutamente indecenti.
Ero pervaso dal più rosso e puro piacere, sentivo il mio cazzo indurirsi sempre di più, volevo sempre di più …
«Itachi! … Sì … aaah … più forte! … ».
Le sue parole mi giunsero alle orecchie rotte e rapide come un tornado, quasi incomprensibili, ma le capii e feci convergere un po' di chakra nei fianchi – come feci a concentrami non ne avevo idea – e spinsi di nuovo.
«Aaaah! … Dio! … », proruppe.
Probabilmente avevo centrato un punto erogeno.
«Aaah! Ancora … Itachi … ! … », mi incitò.
La accontentai con un colpo più forte, la sua voce rotta dagli ansimi.
Ad un tratto mi cinse il collo, attirandomi alla sua bocca, ingaggiando subito una lotta umida ed appassionata con la mia lingua, che morsi, succhiai ed assaporai con frenesia.
Il bacio infiammato era rotto solo dal bisogno ricorrente di aria, sembrava che mi stesse divorando, e – allo stesso tempo – che fosse il pasto più invitante del mondo.
Cominciai a sentire qualcosa di umido dalle parti del pube, ma non mi fermai.
Elisa continuava a chiamare il mio nome, che mai aveva avuto un suono tanto erotico, mai.
«Itachi … », gemette lasciva.

Tornò ad aggrapparsi alle mie spalle, ma anziché usarle come appiglio, mi spinse indietro, inclinandosi su un fianco. Persi l'equilibrio cadendo sulla sabbia bagnata, un moto di frustrazione mi pervase quando uscii dal suo corpo caldo. Lei ghignò, e subito, spiazzandomi, si risedette sul mio internocoscia, impalandosi e sospirando un lungo gemito, la testa gettata all'indietro. Ansimavo con lei, mentre mi cavalcava ed io le andavo incontro, per quanto possibile vista la posizione, le mani che dai fianchi scesero a palparle le natiche sode.
Il ritmo si fece sempre più frenetico ed irregolare, eravamo assordati dai nostri rochi sospiri, la pelle madida di sudore. Sentivo l'orgasmo avvicinarsi ad una velocità incredibile, e decisi di avvertirla.
«Eli … esci, sto … per ... ».
Lei mi piazzò un dito sulle labbra e continuò a muoversi su di me, gemendo.
«Vienimi … dentro … aaah! … ».
Il dito rimase lì, così lo presi tra le labbra e cominciai a succhiare con voglia, mordicchiandolo.
Una spinta, due, ed il piacere esplose.
Venni in lei abbondantemente, vedevo il mio seme colare verso i testicoli, mentre anche lei si liberava con un lungo ansimo, insieme all'espressione di estremo godimento che le si dipinse in volto.
«Aaaaah! … ».
E poi per poco non mi crollò addosso. La presi tra le braccia, stringendola forte, protettivo, incurante del liquido viscoso ed appiccicaticcio di cui ci eravamo bagnati, posandole un bacio casto sulle labbra leggermente dischiuse.
Il nostro respiro si sforzava di farsi più regolare, la luna e gli astri più luminosi del solito che parevano ammiccare nella nostra direzione.
Elisa mi avviluppò una gamba tra le sue e rise piano.
«Ti ripulirei da questo macello, ma credo che siamo entrambi esausti per un altro round».
Capii l'allusione e ammisi che non aveva tutti i torti.
«Itachi … sei un vero Dio del Sesso!», si complimentò con un'altra risata.
«Modestamente … ». Mi unii al suo buonumore, felice e spossato. «Sei stata … fantastica. Scusa per la banalità, ma mi gira troppo la testa per pensare ad un aggettivo migliore. Forse hai superato gli standard del vocabolario».
«Ahah … ma tu guarda … », commentò.
Rimanemmo in silenzio, abbracciati ad osservare le stelle sopra di noi, finché non fummo presi dal torpore e ci addormentammo.


___うちは 一 族 ___


Nonappena mi risvegliai sentii le braccia vuote. Spalancai gli occhi, allarmato, lo Sharignan attivo, e scattai a sedere. Ebbi un momentaneo giramento di testa per la repentinità dell'azione e mi ressi il capo guardandomi intorno. Alla fine la vidi seduta su uno scoglietto, intenta a mangiare qualcosa. Aveva di nuovo i vestiti addosso.
Mi tranquillizzai e disattivai il jutsu oculare, alzandomi in piedi, e la raggiunsi.
Sentendo i miei passi sull'erba lucida di rugiada, si girò e mi sorrise.
«Ohayou!», e portò alla bocca una fragolina. Doveva essere andata a prenderle nel bosco prima che mi svegliassi. La osservai mentre masticava e non potei fare a meno di pensare che sarebbe stato bello svegliarsi la mattina e vedere il suo sorriso.
«'Giorno», risposi, cingendola da dietro e dandole un bacio sul collo, lascivo, per poi risalire succhiando lievemente quella pelle dolce e morbida. Lei si voltò verso le mie labbra, ma un secondo prima che me ne appropriassi mi ficcò una fragolina sotto i denti.
«Itadakimasu!», scherzò, dandomi un bacio a stampo prima di scostarsi, stiracchiarsi e dirigersi verso un punto alle mie spalle.
Rimasi stupefatto, per poi ridacchiare ed ingoiare il frutto dolce, scoprendo di avere una leggera fame.
Ne mangiai un altro paio, mentre Elisa faceva ritorno. Mi girai a guardarla e notai che reggeva in mano il cappello.

All'istante mi si gelarono sia il sorriso che il sangue nelle vene, persino lei era diventata seria.
Me lo mise in testa, le labbra lievemente tese all'insù, malinconiche.
«Sei riuscito a farti perdonare».
Il mio sguardo era allacciato al suo, sconvolto. Sapevamo entrambi cosa significava: era il momento di lasciarci. Non avevo bisogno di rifletterci per capire come mai fosse tanto difficile.
Le presi delicatamente il volto tra le mani e la baciai con dolcezza, muovendo le labbra con calma, assaporando le sue, mentre lei ricambiava, senza approfondire.
Quando ci separammo tornai a guardarla negli occhi.
«Aishiteru (9)».
Mi alzai, andando a rivestirmi con un macigno nel petto. Faceva male. Era la stessa, orrenda sensazione di quando avevo realizzato che non c'erano alternative all'ordine di Danzo. Forse appena meno terribile.
Finito di indossare anche la cappa dell'Akatsuki, sospirai e mi voltai. Non piangeva. Mi riavvicinai a lei, sfilandomi il copricapo e lo posai sui suoi capelli.
«Tienilo tu, questo».
Annuì, senza sciogliere il contatto visivo. In quelle iridi chiare potevo leggere i miei stessi sentimenti.
«Arigatou».
Finalmente riuscivo a dirglielo. Sembrò capire e si alzò in punta di piedi per baciarmi ancora, leggera.
«Itterasshai (10)». Abbozzò un sorriso, che ricambiai, anche se sapevamo entrambi che non ci saremo rivisti.
Così mi voltai, pronto per raggiungere Kisame e adempiere al mio destino.


___うちは 一 族 ___


Un anno dopo, Tanzaku

«Nee-chan, credo che Shisui abbia fame», borbottò un ragazzino a quella che evidentemente era sua sorella maggiore.
«Nh», fece quella. Prese in braccio il pupo dalla culla, posandogli un affettuoso bacio in fronte e sorridendogli.
«Non piangere, piccolo», sussurrò dolce, asciugandogli le lacrimucce dagli occhi e portandolo al seno.
Il bimbo succhiò avidamente, mentre la madre faceva una smorfia per la bramosia del cucciolo.
Era un bel bambino, dagli occhi e capelli scuri come la notte, e la giovane donna lo adorava, ricordandole l'uomo che gliel'aveva donato.
All'improvviso le venne voglia di farsi un giro in città, o anche fuori. Così, tenendolo in braccio ed indossando un ampio cappello con dei campanellini, uscì seguita dal fratello minore.
Era una bella giornata tardo-primaverile, il visino del bebè si illuminò e sorrise divertito e raggiante.
I tre attraversarono le strade di quel piccolo ma dinamico villaggio, salutati ogni tanto dagli altri paesani.
«Nee-chan, vado a fare la spesa», fece il ragazzino. La sorella annuì e proseguì nella passeggiata, che la portò davvero ad uscire dalle mura, senza una meta precisa, mentre lei e il bambino si godevano il calore sulla pelle.
Ad un certo punto, ai margini del suo campo visivo spuntò una figura che pareva diretta verso est. Anche da quella distanza i capelli scuri come la pece erano perfettamente riconoscibili, forse giusto più corti...

Incuriosita, la donna si avvicinò abbastanza da poter scorgere degli occhi infiammati e dei tratti del viso tremendamente familiari.
“Non può essere …”
La giovane stentava a crederci. Senza rendersene conto aveva aumentato il passo tanto da correre.
«Itachi!», chiamò.
All'improvviso la figura si fermò, voltando il capo nella direzione della ragazza e in un secondo fu dietro di lei, una mano che stringeva un braccio di lei con forza.
La donna strinse i denti per il dolore, ma non emise alcun suono.
«Chi sei?». La voce era fredda, dura e scostante, faceva paura. Ma la ragazza non rispose, anzi, gli rivolse un'altra domanda.
«Non sei lui, vero?». Il tono era deluso, quasi accusatorio.
«No. Lui è … morto». L'altro lasciò la presa. Lei si girò a guardarlo attentamente. Gli occhi erano ancora rossi, inquietanti.
«Tu sei Sas'ke», affermò con sicurezza.
Quello assottigliò lo sguardo, sospettoso.
«Io sono Elisa. Sono stata con tuo fratello … tempo fa», si presentò senza curarsi di essere stata troppo diretta.
Certo, Itachi non le aveva detto nulla di sé, però l'aveva sentito parlare nel sonno. Anche troppo. Si era sentita in colpa, e avrebbe voluto aiutarlo in qualsiasi modo pur di fargli scordare l'orrore di quei ricordi, di farlo sentire più leggero e di nuovo felice. Ma non ne aveva avuto l'occasione.
In ogni caso, le parole che Itachi aveva pronunciato nello stato di incoscienza erano state abbastanza per farle capire che era lui, quel tipo di fronte a lei, ad averne decretato la morte. Al pensarci si infervorò sentendo istintivamente un profondo odio nei confronti dell'altro, appena stemperato solamente perché gli assomigliava.
Si sentiva tremare. In quel momento Sas'ke sembrò notare il fagotto che lei reggeva tra le braccia e parve capire. Gli occhi tornarono di un color onice imperscrutabile.
«Ha ridato vita al clan», borbottò.

Elisa si accigliò. Strinse per bene Shisui e mollò un pugno dritto in faccia a Sas'ke, che non aspettandoselo barcollò all'indietro, attivando nuovamente lo Sharingan.
«STRONZO BASTARDO!», gli urlò contro lei, addolorata. Avrebbe voluto ucciderlo, ma sapeva che Itachi non avrebbe approvato. Di certo però non si sarebbe trattenuta dal picchiarlo più che poteva.
«L'HAI AMMAZZATO TU, BRUTTO FIGLIO DI … », mollava fendenti ovunque riuscisse ad arrivare, finché Sas'ke non la fermò di nuovo.
«Stiamo soffrendo in due», disse.
«PER COLPA TUA!», ruggì lei, rossa di rabbia, scostandosi bruscamente dalla presa.
Un pianto li distrasse e la donna riportò gli occhi su Shisui, abbracciandolo forte, sussurrandogli parole di conforto. Poco alla volta il piccolo si chetò ed Elisa se lo strinse al petto, per poi tornare a guardare rancorosa il ragazzo di fronte a lei.
«Non ti perdonerò mai, neppure se è stato Itachi stesso a decide di morire per mano tua!», sibilò tagliente, senza distogliere il contatto visivo.
Nello sguardo del suo interlocutore sembrò passare un lampo di rimorso, ma non disse niente e lei gli diede le spalle, diretta a Tanzaku.
Sas'ke la osservò allontanarsi, per poi riprendere il cammino. Quella ragazza aveva perfettamente ragione: era stato stupido, infantile ed egoista, ma era stata la volontà di Itachi e l'aveva rispettata ed accettata.
Ripensò a quei luridi vermi che avevano ordinato la strage degli Uchiha, coloro che stava andando a distruggere insieme al loro villaggio corrotto ed il sangue gli ribollì nelle vene.
Ripensò a Danzo, che aveva oltraggiato il clan impossessandosi del loro Sharingan e percepì la voglia di vendetta riaccendersi dopo lo stupore per l'incontro precedente.
Pensò che se Itachi aveva ripopolato il clan a lui non restava che farla pagare ai mandanti dell'uccisione.
Ed infine gli soggiunse la dichiarazione che Naruto gli aveva fatto a Tetsu no Kuni (11) e capì che la sua fine non poteva che essere altrimenti.
Così, con un sospiro storto, proseguì il viaggio, pronto ad affrontare l'amico per l'ultima volta.


«Yuruse Sas'ke. Kore de saigo da».



おわり~




1: Paese del Fuoco
2: Cosa c'è, Itachi?
3: Niente
4: Itachi-san, stai bene?
5: Tornate a trovarci.
6: Grazie per il pasto
7: Mi perdoni
8: Lieto di conoscerti
9: Ti amo
10: Buon viaggio
11: Paese del Ferro
うちは 一 族 : Clan Uchiha


Link EFP nel titolo
view post Posted: 9/1/2015, 19:56 The Legacy of Uchiha Clan - Scorching Summer - Fanfiction non DN

The Legacy of Uchiha Clan
- Scorching Summer -




Itachi era appena uscito dalla doccia, un asciugamano striminzito legato in vita e un altro che stava sfregando contro la lunga chioma corvina. Pigre gocce d'acqua scivolavano lente lungo il suo torace, accarezzandogli l'addome, per poi andare ad insinuarsi oltre le pieghe di quel panno di spugna.
Avanzò lungo il corridoio fino a giungere nel salottino. Era piena estate e Itachi decise di tenere i capelli umidi per rinfrescarsi un po'. Gettò con elegante noncuranza l'asciugamano sul divano e si avvicinò alla ragazza che stava seduta sulla sedia di fronte a lui, dandogli le spalle. Probabilmente cercava di rinfrescarsi col piccolo ventilatore posato sul bancone della cucina. Le avvolse le braccia attorno alle spalle e al collo e avvicinò le labbra all'orecchio di lei.
«Dio, che caldo che fa oggi ... ».
Ciò detto, le leccò sensualmente il guscio di pelle, mordicchiandole leggermente il lobo. La ragazza sentì un brivido lungo la schiena e si voltò verso l'amante.
«Sai, Itachi ... secondo me fa davvero troppo caldo ... ».
La ragazza dunque afferrò i lembi di quel misero quanto insignificante asciugamano bianco ed umido che serviva a tutto meno che coprire il corpo del giovane e lo slacciò con disinvoltura, per poi sfilarsi l'abitino di cotone leggero e trasparente, che indossava senza neppure il reggiseno talmente quel luglio era afoso. Itachi le pizzicò i fianchi e lei scattò: si fiondò subito sulle sue labbra, affamata, accaldata, cercava solo di trovare una qualche frescura, che di sicuro non avrebbe potuto trovare nel corpo invitante, prestante e decisamente perfetto di Itachi. La sua lingua cercava senza sosta quella di lui che d'altro canto, pareva non desiderasse altro che rincorrere quella della ragazza, trovare sollievo in qualche modo, perché Dio! quella erezione era davvero fastidiosa.
«Elisa ... », ingoiò a vuoto, in un attimo di pausa in cui le fameliche labbra di lei non gli stavano divorando le proprie. Quella ragazza era un concentrato di desiderio e malizia, ogni santa volta che la vedeva l'unica cosa a cui pensava era: adesso, non intendo aspettare altro.
L’afferrò in vita e la sospinse verso la parete, senza indugio, mentre lei si sfilava le mutandine in fretta. Itachi le sollevò una gamba, mentre le braccia di lei gli avvolgevano il collo e continuavano a baciarsi come se la bocca dell'altro fosse diventata la propria aria. Il cazzo di Itachi continuava a sfregare contro la femminilità di lei, l'Uchiha avrebbe solo voluto spingersi e fare sesso con Elisa per tutto il giorno e la notte, da quanto si sentiva eccitato.
«Itachi ... che diavolo stai aspettando ... ? Aaaah ... ».
La voce di Elisa lo stordiva. Voleva sentirla ancora, così scese con le labbra sul collo di lei, succhiando e leccando ogni lembo di pelle che riusciva a raggiungere. Avrebbe voluto dedicarsi anche ai seni ma non vi arrivava, così rimediò con le dita, che presero a stuzzicarle i capezzoli.
«Aaaah .... Itachi ... ti voglio ..... or-a ....aaaaah! .... ».
Aveva i suoi ansimi nelle orecchie, non ne poteva più. Afferrò il suo membro pulsante e anche già umido, le sollevò ulteriormente la gamba e la penetrò.
«Aaaaaaaaaaaahh!!!!!!», il gemito fu un coro di lussuria. I respiri dei due amanti erano frettolosi, bisognosi e Itachi non si fermò neppure per farla abituare, tanto la desiderava. Nonostante la posizione scomoda cominciò a spingere, mentre la ragazza gli andava incontro mordendo le labbra di lui ora forte, ora piano, non riuscendo a baciarlo come desiderava per il bisogno di gemere quanto più forte riusciva. Itachi dal canto suo affondava senza sosta, il chackra che spontaneamente si incanalava nei fianchi per potenziare le sue spinte. Non voleva solo fare l’amore con lei, voleva assaporarla, averla completamente ... sentiva che quel piacere non era abbastanza ... si spinse con ancora più forza, mentre Elisa ansimava eccitata, incitando l'amante. Provava esattamente lo stesso, quella posizione non riusciva a soddisfarla pienamente.
«Eli ... fammi venire ... non ne posso più ... ».
Itachi uscì a malincuore, il membro più pulsante che mai, arrossato, teso all'inverosimile. Elisa subito si abbassò prendendolo in bocca e cominciando a succhiarlo con vigore, col palato e con le guance, leccandolo per quanto riusciva, finché non sentì l'orgasmo di lui esploderle in bocca, cogliendola di sorpresa. Ingoiò tutto, tirandosi a sedere ed asciugandosi un angolo della bocca con il dorso del braccio.

Itachi la recuperò al volo, non avendo ancora finito e la trascinò in camera da letto, facendola sdraiare subito e baciandola ardentemente. Le lingue e i denti si scontrarono con violenza, mentre lei subito rigettava le gambe attorno al bacino di Itachi che si rispinse nella sua femminilità senza esitazione, ricominciando quell'amplesso non ancora terminato. Itachi non riusciva a capire più niente, il suo corpo agiva da solo. Lasciò le labbra di lei per scendere sul suo collo e poi finalmente raggiungere i seni, che succhiò, per poi mordicchiarle i capezzoli. La sentiva inappagata, sapeva che come lui anche Elisa desiderava qualcosa su cui poter sfogare il suo piacere. Le porse un paio di dita da sostituire momentaneamente alla propria lingua e lei subito cominciò a succhiarle e morderle a seconda della spinta. Non sapeva neppure più quando Itachi aveva cominciato a centrare il suo punto erogeno, forse fin dall'inizio, ma non ci stava facendo caso.
«Itachi ... più forte, più forte!!! .... aaaaaah!!!».
Si sentiva così potente e così debole in queste situazioni!! Itachi sapeva esattamente dove colpirla, cosa fare, per farla uscire di testa. Quel giorno però si sentiva talmente vogliosa e accaldata che non riusciva a raggiungere il culmine. Sapeva solo che voleva Itachi, lo desiderava con ogni fibra del suo essere, voleva essere presa da lui in tutti i modi possibili e sapeva anche che avrebbe permesso all'Uchiha di farle qualsiasi cosa. Il moro da parte sua non poteva che dedicarsi a quel corpo senza fermarsi, con quella ragazza che si coordinava perfettamente ai suoi desideri e alle sue voglie.
"Dannato caldo!”, pensò. Sarebbe già venuto non fosse stato per quel dettaglio, per l'insaziabilità di entrambi e per il piacere provato. Si sentiva quasi un animale tanto erano il desiderio e la bramosia che lo stordivano. Uscì per l'ennesima volta da quel corpo che sapeva non avrebbe scambiato con nessun altro e la fece inginocchiare di spalle. Non la penetrò dalle natiche sode e lisce, ma al buco solito e scivolò dentro con velocità e precisione.
Solo gemiti popolavano quell'afosa giornata di luglio. Il letto sfatto era madido di sudore, bagnato per i liquidi che gocciolavano dalle intimità dei due amanti per il piacere. Ad un certo punto in entrambi scattò qualcosa e l'amplesso raggiunse l'apice.
«Aaaaahhh!!! Eli!!! Sto per .....».
«Anch'io!!!! .... aaaaahhh!!!».
E l'orgasmo esplose in entrambi. I due amanti erano certi che quella era stata la volta più bisognosa che avessero mai vissuto. Ricaddero ansanti sul materasso svuotati e anche la calura, con l'approssimarsi della sera, portò un leggero venticello ristoratore.

Si sentivano privi di forze, come svuotati, il respiro fuori controllo. Si guardarono negli occhi, esausti ed esaltati e Itachi le diede un bacio sulla fronte.
«Koishiteru. Non so mai come esprimerlo abbastanza bene, una parola mi sembra così scontata».
Lei scosse la testa e lo abbracciò. «Grazie».
Da quando si erano incontrati la prima volta era una specie di rituale. Ecco, in quel momento c'era davvero molta pace. Rimasero sul letto abbracciati per minuti incalcolabili finché Itachi non udì dei passi avvicinarsi e la voce del fratello di lei che tornava ed annunciava la sua presenza.
«Tadaima!».


おわり~




Link EFP nel titolo
view post Posted: 9/1/2015, 19:55 Deserve - Fanfiction non DN

DESERVE





Preso!” esultò l’uomo trionfante, raggiungendo il cervo trafitto dal tomohawk nella radura ed estraendo dal torace ferito la sua arma.
Era stato un colpo da maestro: l’animale stava scappando, percepiva il pericolo, ma Connor era stato più rapido, un infallibile predatore.
Si accostò alle narici per verificare che non respirasse più ed una volta constatato che ormai non era altro che un cumulo dicarne da macello, assicurò il corpo ad una fune, pronto a trascinarselo a casa, quando ai margini del suo campo visivo qualcosa catturò la sua attenzione.
Sulla riva del placido lago vi era una figura esanime.
Incuriosito, si avvicinò, scoprendo una ragazza che, pallidissima, giaceva sulla sabbia, i vestiti zuppi di acqua gelida.
Stupito, si guardò intorno cercando di capire se venisse da un qualche luogo vicino, ma non c’erano tracce di altre presenze così riportò gli occhi scuri sulla giovane e con un sospiro risoluto se la caricò in spalla, sibilando per il ghiaccio che aveva imprigionato anche i suoi vestiti e si diresse verso casa, lanciando un’occhiata alla carcassa del cervo che sarebbe presto diventata preda del primo orso di passaggio.

Mentre si addentrava nella foresta, provava un certo disagio all’idea che la stava portando a casa di Achille, ma d’altronde non poteva fare altrimenti. Così, una volta arrivati, la adagiò con cautela nel lettino, rimboccandole le coperte nella speranza che riacquistasse - oltre al calore – anche un po’ di colorito.



Ci vollero almeno ventiquattr’ore prima che la sconosciuta riprendesse conoscenza, durante le quali Connor si era fastidiosamente sentito come una madre iperprotettiva, attenta al minimo cambiamento di temperatura del suo pargolo in modo da essere pronta se per caso avesse dovuto portarla all’ospedale. Tuttavia, Connor non aveva intenzione di ricorrere a mezzi così drastici, e in ogni caso non fu nemmeno necessario.
La vide aprire faticosamente gli occhi alla luce della candela sul comodino e sbadigliare mentre anche gli arti indolenziti ricominciavano a muoversi.
Il giovane non proferì parola mentre lei esaminava la stanza cercando di capire dove fosse, anche se, di certo, in quel luogo non viaveva mai messo piede.
Poi si accorse di non essere sola e puntò le sue iridi color nocciola sull’uomo che, seduto su una seggiola di legno, la osservava in silenzio.
Si guardarono, o almeno, così pensò lei dal momento che non riusciva a vedergli il volto. Lo identificò come il proprietario della casa, anche se non aveva idea del perché si trovasse lì.
Ad un certo punto, stanca di quell’assenza di suoni, aprì la bocca per chiedere almeno un’indicazione geografica e qualche informazione.
Tuttavia, inaspettatamente, fu l’uomo a precederla.
«Chi sei?» domandò, con uno strano accento che la ragazza non aveva mai sentito.
Trovava inappropriato quell’interrogativo, dal momento che non era lui a trovarsi con un estraneo chissà dove.
Nonostante ciò rispose, sperando che in quel modo avrebbe avviato una conversazione e che avrebbe scoperto ciò che desiderava sapere.
«Erika. Erika Edevain»
Tacque, fissandolo come a voler rigirare il quesito. Il suo sguardo era palese quindi o il giovane non aveva colto o l’aveva deliberatamente ignorata.
Invece, si alzò in piedi e le passò un panno sulla fronte ed il dorso dell’altra mano sul collo, accertandosi che la sua temperatura corporea fosse scesa ad un livello accettabile.
Erika sentì la pelle ruvida di lui sfiorarla e ne dedusse che era lui ad occuparsi di sé, caccia compresa e che difficilmente doveva vivere con qualcuno, nonostante la casa fosse piuttosto grande per una sola persona.
«Hai ancora bisogno di riposo» le disse lo sconosciuto, lasciando la stanza e la sua inquilina subito dopo.
Erika si chiese la ragione di tanta reticenza solo per un nome, magari era ricercato e temeva che lei facesse la spia? Eppure non pareva il tipo d’uomo da farsi intimidire d un manipolo di cacciatori di taglie.
Decise di lasciar perdere e pensare a ristabilirsi, come minimo in segno di rispetto per il suo salvatore.




Era passato un mese ed Erika alloggiava ancora in casa sua.
Connor non si spiegava la ragione della sua persistente presenza nella dimora di Achille, ma soprattutto stava cercando di comprendere come mai non avesse nemmeno accennato al discorso.
D’altro canto nemmeno lui aveva mi tentato di discuterne quindi non poteva lamentarsi di niente, almeno finché lei non l’avrebbe intralciato.

Un pomeriggio era a caccia. Aveva avvistato un cinghiale dei migliori ed era a due passi dal renderlo sua preda per quella sera. La bestia si fermò in una radura, a cibarsi prima di riprendere la marcia, ma quando era pronto a lanciare il tomohawk una feccia sbucò dallefronte, sfiorando il cinghiale e conficcandosi nell’erba.
L’animale, spaventato, scattò nella fitta boscaglia e Connor, dapprima sorpreso, gli fu subito dietro. Raggiunto l’altro lato dello spiazzo però, dovette arrestarsi nuovamente: il cinghiale teneva intrappolata una ragazza contro l’albero, impedendole di fuggire.
Sentendo una familiare irritazione, lanciò la sua arma, tramortendo la bestia ed evitando ulteriori fughe, per poi raggiungere la giovane.
Controllò che la preda fosse morta ma il colpo era stato talmente preciso che la trachea era stata mozzata come fosse burro. Aquel punto indirizzò la propria attenzione all’altra.
«Erika… è la terza volta che tiintrometti nella caccia. Non puoi rimanere a casa?» la rimproverò in tono duro, senza riuscire tuttavia a farla perdere d’animo.
«Se tu ti decidessi ad insegnarmi, non farei scappare ogni volta la cena. E poi a casa non ti sono utile» rimbeccò lei piccata.
«Non ho tempo di improvvisarmi insegnante di una ragazzina» continuò Connor ignorandola e legando il cinghiale a delle corde.
Erika si staccò dall’albero, sistemandosi l’arco sulla schiena e si affrettò ad afferrare una delle due cime per tirare con l’uomo.
«Hai un sacco di tempo libero invece» ribatté lei. «Non ho idea di cosa facessi prima, ma non credo che sarebbe tanto male»
Connor non rispose, continuando a camminare.
«E se tu fossi fuori e qualcuno venisse a rubare a casa? Non sarei in grado di fare niente fosse»
Ancora silenzio. Connor cercava di ignorarla, ma la ragazza era più cocciuta di quanto pensasse.
«Perché non impari da sola?» le suggerì amaramente.
«Come hai fatto tu?»
« … »

A quel punto Connor si fermò, smettendo di trascinare il cinghiale.
«E va bene… ma bada, non voglio chiacchiere inutili, esulti o imprecazioni. Se sbagli, rifai»
Erika annuì, seria.
«E soprattutto, il tempo che ti dedicherò sarà più che sufficiente, niente lezioni extra»
Lei esitò per un stante, prima di ammettere che non poteva chiedere oltre.
«Va bene»



Erika, con la fronte imperlata di sudore ed il fiatocorto, correva, maledicendo la vita che aveva condotto in Inghilterra e poi nel Maryland.
Non ha senso…che le donne… non possano… difendersi da sole…” pensò, stringendo i denti per l’ultimo centinaio di metri, finché non raggiunse il lago e si sdraiò a pancia in su sull’erba, il sole negli occhi, il petto che si alzava ed abbassava velocemente, pensando alle settimane che stava passando con il suo maestro a diventare quello che aveva sempre voluto essere: una donna capace di badare a sé stessa.
Connor la faceva correre, saltare, fare esercizi fisici di ogni tipo, attività di tiro con differenti armi e simulazioni di lotte corpo a corpo.
Dopo la prima decina di giorni, i peggiori senza dubbio, aveva cominciato ad abituarsi alla routine: aveva migliorato enormemente la sua resistenza e riusciva a padroneggiare l’arco, pertanto aveva deciso di concentrarsi sull’arrampicata e l’equilibrio: passare da un ramo all’altro ancora le risultava difficile quanto bloccare i montanti nelle lotte frontali e doveva irrobustirsi le braccia ancora un po’.
Il suo mentore non la seguiva per tutta la durata dell’allenamento, ma verificava le sue condizioni al termine e la aiutava a migliorare negli scontri fisici.

La tenacia di Erika la portò ad ottenere ottimi risultati in un lasso di tempo che Connor non si aspettava ed una sera, mentre cenavano, si concesse un complimento che le fece brillare gli occhi, per poi abbassare nuovamente il capo verso il piatto e mormorare un grazie carico di riconoscenza, il cuore che le batteva.
Attendeva di sentire quelle parole da mesi e finalmente le aveva udite: aveva sperato di riuscire a scoprire qualcosa dell’uomo,della sua vita, ma anche quando gli aveva rivelato qualcosa di sé stessa non aveva ottenuto reazioni.
Non sapeva esattamente come mai si fosse affezionata tanto a lui, ma era certa che riuscire ad ottenere un riconoscimento da quell’uomo sarebbe stata una soddisfazione enorme.




Quella mattina Connor le aveva dato ordine di andare a recuperare dell’acqua al lago. Erika l’aveva squadrato sbuffando, ma lui aveva chiuso il discorso lasciando la stanza e lei era stata costretta ad obbedire senza possibilità di replica.
Aveva già riempito le tre giare quando udì degli scricchiolii provenienti da nord-ovest. Pensò a degli scoiattoli o ad un branco di cervi, ma aveva un brutto presentimento.
Così, adagiate le giare contro un tronco, estrasse un pugnale ed avanzò tra le conifere. Ad una ventina di metri si arrestò di colpo e, attenta a non emettere il più flebile rumore, si concentrò sui suoni in avvicinamento, finché non udì delle voci.
Bracconieri? Briganti?” si chiese, quasi decisa a lasciarli andare, se non fosse che in quel frangente uno di loro accennò alla casa bianca vicino allo strapiombo.
Casa sua, no!”imprecò, stringendo più forte la lama nel palmo ed affacciandosi per contare i suoi rivali.
Uno… due…”mormorava, finché non terminò il calcolo.
Sette… posso farcela…
Ripose il pugnale, dato che una volta lanciato non avrebbe avuto altre armi e si sistemò, uscendo allo scoperto come niente fosse, fingendo di non vederli.
Come sperato, il manipolo di malfattori si accorse della sua presenza e, scambiatisi un cenno d’intesa, i sette le si avvicinarono, cominciando subito ad importunarla.
Quello che sembrava il capo fu il primo a parlare, mostrando i suoi denti ingialliti mentre sorrideva viscidamente.
«Ehi bellezza» la salutò, ed Erika si trattenne dal mollargli un gancio dritto sulla mascella squadrata che si ritrovava. «Che ci fa un bocconcino come te a spasso per i boschi del New York?»
«Ero andata a prendere acqua ed erbe per il mio padrone, signore» rispose lei, ingenua e remissiva con un piccolo inchino nel capo.
Subito un mormorio eccitato corse tra gli uomini, che incitavano il loro leader a domandare ulteriori informazioni mentre alcuni fischiavano rozzamente, cercando di allungare le mani sulle sue curve.
«E chi sarebbe il tuo capo, dolcezza?»
«Oh, non posso dirlo» sussurrò lei scusandosi. «Ma abita nella villa bianca, vicino al precipizio»
«Interessante… »
esultò soddisfatto il capo, accarezzandole una guancia con le dita sporche e tozze e facendola rabbrividire con un’unghia sudicia e spaccata, mentre lei cercava di reprimere il disgusto.
«Magari potresti condurci lì, eh?» domandò con voce zuccherina.
Erika sorrise. «Si,potrei, ma… » si separò dalle dita dell’uomo, indietreggiando. «Non lo farò» concluse con voce sicura, estraendo rapidamente il pugnale e ferendo repentinamente la gamba dell’uomo dietro di lei. Sentì la lama affondargli nella coscia fino al manico, il sangue caldo di lui bruciarle la mano.
Le urla strazianti riempirono la piccola radura mentre Erika estraeva l’arma e tornava all’attacco.
Meno uno…
Il capo della banda la fissò un attimo tra lo sconvolto e l’eccitato, passandosi la lingua sulle labbra secche e spellate a quella vista.
La bambina ha del fegato…” pensò, compiaciuto all’idea di quella sfida.
Con un cenno delle dita ordinò ad altri due di attaccarla, ma Erika, fulminea, schivò il primo fendente, scansandosi ed abbassandosi al colpo dell’altro; da quella posizione ne approfittò subito e conficcò il pugnale nella pancia del ladro, che rantolò come un topo ferito, accasciandosi al suolo. La caduta dell’uomo però le fece perdere l’equilibrio e gli altri compagni colsero l’occasione: rapidamente la accerchiarono, il pugnale insanguinato accanto al malfattore ferito.
Erika, disarmata, indietreggiò, ostentando tuttavia uno sguardo sicuro e controllando a che altezza fossero i rami. Sfortunatamente era finita in un piccolo boschetto di aceri e non c’era modo di evadere con quella via di fuga. Più presto di quanto si aspettasse, la sua schiena si infranse contro il tronco della pianta.
Maledizione, sono in trappola!
I cinque uomini rimanenti sorridevano malignamente, mangiandosela con gli occhi pur sapendo che spettava il primo giro al loro capo.
Erika, con muto ribrezzo, tirò un potente calcio inmezzo alle gambe del più vicino che, chinatosi per il dolore, lasciò un varco.
Lei scattò, piantando un piede sulla schiena dell’uomo usandola come trampolino per il salto.
Ma fu troppo lenta.
Il capo le afferrò fulmineo la caviglia che aveva usato per darsi lo slancio, facendola rovinare in terra.
I tre uomini ancora in piedi si fiondarono immediatamente sulla ragazza, bloccandola braccia e gambe e cominciando a spogliarla, ignorando le sue urla e reggendosi al tronco lì vicino per i continui strattoni che dava.
Il capo, nel frattempo, provvedeva a slacciarsi la cinta e godersi lo spettacolo della fanciulla che si ribellava. Non avrebbe resistito ancora molto, si sentiva sempre più eccitato ed infatti in quel frangente calò su di lei, cercando di abbassarle i pantaloni ed estrarre la sua erezione dai propri.
«Allora dolcezza, sei pronta?» sogghignò, ma Erika gli sputò in faccia, senza smettere di dare violenti strattoni agli uomini.
«Tu… piccola insolente, come osi... » la minacciò e fece un cenno agli altri i quali, soddisfatti, le strapparono la camicia, scoprendole il seno e cominciando a palparla.
Erika urlò, mentre il capo di quegli schifosi energumeni si premurava di aprirle le gambe ormai nude.
«Nooo!» strillò lei ed un attimo prima che il malvivente la stuprasse, se lo vide crollare addosso, la guancia ispida sul suo ventre.
Il cuore le batteva all’impazzata per lo spavento e come lei, anche gli altri si immobilizzarono, fissando il tomohawk che spuntava dal cranio insanguinato del loro leader.
Alzarono timorosamente lo sguardo verso l’alto e subito lasciarono le braccia di Erika che, rialzatasi, afferrò il pugnale e lo conficcò nella schiena del più vicino, mentre Connor ammortizzava il salto con le ginocchia ed estratta la piccola ascia dal capo dell’uomo, in due rapidi colpi faceva fuori i superstiti.
Uno stormo di uccelli si levò dalle cime degli alberi e quando tacquero, la radura parve ancora più silenziosa, l’atmosfera sospesa.
Poi Erika lasciò cadere il pugnale sull’erba secca e rapidamente si riallacciò gli abiti sgualciti.
Connor taceva. Recuperò il tomohawk, riassicurandolo alla cintura e si voltò per tornare a casa. Avrebbe voluto rimproverarla per la sua incoscienza, ma l’orgoglio lo fermò.
Si morse la guancia, prima di prendere fiato e dirle di andare, ma non fece in tempo a parlare che venne bloccato dalla voce di lei.
«Questa… è già la seconda volta che mi salvi»
Notò l’amarezza e la vergogna in quelle parole ed Erika sentì le membra prudere. Dopo tutto quel tempo non era ancora in grado di difendersi come avrebbe voluto e sicuramente Connor avrebbe pensato di aver sprecato mesi interi ad istruire un’incapace.
Strinse i pugni e prese a camminare. Non voleva guardare la sua schiena, si sentiva come se non l’avrebbe mai raggiunto così. Allungò il passo, ritrovando le giare d’acqua che aveva depositato prima del combattimento e se le issò in spalla, pronta a riprendere il cammino.
«Ratonhnhaké:ton»
Erika si voltò, confusa. Sperava di incontrare lo sguardo di lui, ma l’uomo teneva ancora il viso celato dal cappuccio.
«È il mio nome. Non te l’avevo ancora detto»
«Già»
commentò lei in un sussurro.
Se n’era ricordato. La cosa le infuse una strana e calda soddisfazione. Lo guardò accennando un sorriso mentre il suo sguardo correva ai corpi senza vita dei malviventi dietro di loro.
«Grazie» mormorò e Connor non sapeva se quella riconoscenza fosse per il salvataggio o la rivelazione.
Riprese a camminare con Erika accanto, un po’ ansante per il recente scontro, diretto a casa.
Lei non poteva saperlo, ma sotto l’ombra del cappuccio era celato un sorriso sincero.



Connor si affrettava a tornare alla scogliera, dopo l’accaduto dei briganti e con Erika sempre più esperta di quei boschi era improvabile che qualcuno tenesse sott’occhio la casa. Non che fosse preoccupato di subire furti, ma non era sua, quella dimora e desiderava che l’anima di Achille potesse riposare in pace.
Nelle ultime settimane poi aveva cercato di ignorare quella voce nella sua testa, voce che continuava a tentare di fargli capire perché cercasse il più possibile di evitare lo sguardo della ragazza, in modo differente da come aveva sempre fatto. Non più per rimanere un mistero ai suoi occhi, ma perché la vicinanza lo rendeva nervoso. Aveva notato il volto di Erika rabbuiarsi più volte di fronte al suo atteggiamento scostante e ogni volta sentiva una spiacevole nausea invadergli lo stomaco.
Aveva deciso di ignorare quelle sensazioni e concentrarsi solo su ciò che faceva di solito, incluso occuparsi dei trasgressori.
Passando per la radura del lago però, qualcosa lo distrasse. Dovette rimettere prima a fuoco per ritrovare ciò che aveva catturato la sua attenzione e quando lo individuò, gli si seccò la gola.
Sotto l’acqua della cascata, un’affusolata e pallida figura stava allungando e rilassando le braccia verso l’alto, la testa reclinata all’indietro, la lunga chioma color miele scuro sciolta sulla schiena snella ed umida.
Avidamente, senza accorgersene, l’uomo seguì con lo sguardo le curve si quel giovane corpo oltre i lombi, perdendosi nelle rotondità del bacino e scivolando per le gambe, ammaliato.
Si ritrovò con la mente incapace di formulare pensieri razionali mentre Erika gettava ancora una volta il capo sotto l’acqua ed un paio di ciocche le finivano oltre le scapole, nascoste al suo sguardo.
Poi la ragazza fece per voltarsi e Connor, facendo un passo in avanti per poter osservare meglio, si sbilanciò, perdendo l’equilibrio e rovinando tra i cespugli sottostanti.
Attirata dal tonfo, la giovane si voltò verso il rumore, per verificare se si trattasse di cacciatori o selvaggina, ma quando vide il familiare copricapo candido e la veste tinta dei colori nazionali istintivamente si ritrasse, coprendosi con le braccia e le mani dove i capelli non arrivavano, arrossendo ma senza indietreggiare. Sentiva il cuore batterle all’impazzata speranzoso ed ansioso.
Tuttavia la caduta parve far riscuotere l’uomo che, lanciandole un’ultima occhiata, prese la rincorsa e saltò sugli alberi, sfrecciando verso casa spinto dal forte desiderio di lasciarsi alle spalle quel luogo il più in fretta possibile.
Erika vide il mantello svolazzare dietro di lui e sparire tra le fronte, rapido come uno sbattere di ciglia. Continuò a fissare il punto dove lui era scomparso finché, scuotendo la testa e sospirando profondamente, si tuffò elegantemente nello specchio d’acqua ai suoi piedi, diventando un’ombra rosata e sfumata sotto la superficie limpida e vibrante.



Non riusciva a levarsela dalla testa. Nonostante ci avesse provato insistentemente, l’immagine di Erika sotto la cascata continuava a popolargli i pensieri. Aveva tentato di calmarsi sedendosi sul divano, facendosi una doccia ghiacciata, ma quella strana e nervosa pulsazione che si era impossessata delle sue membra non accennava ad abbandonarlo.
Alla fine aveva optato per sfogare la sua tensione con l’attività fisica, così, indossato un paio di pantaloni di pelle chiara, montò sull’albero più vicino e, tenendosi appeso solo con le game, calò all’indietro, tenendo le mani ben salde dietro la nuca per poi fare leva ed arrivare col petto a toccarsi le ginocchia.
Sentiva tutti i muscoli contrarsi ed allungarsi, il familiare ma sopportabile dolore all’addome, ma continuò imperterrito a concentrarsi sull’esercizio finché non udì dalla vetrata aperta che dava sul parco il portone d’ingresso sbattere.
In un attimo tutta la calma che era riuscito a guadagnarsi svanì come neve al sole. Prese un profondo respiro e dopo essersi massaggiato le tempie, aver afferrato una maglia di cotone intrecciato dal portico ed essersela infilata, avanzò nel salone, incedendo con aria decisa.
Sentì i passi di Erika dirigersi verso la scala e seguitoli, la bloccò col piede sul primo gradino, in tono serio.
«Erika… aspetta» la chiamò grave e lei si voltò nella sua direzione.
Aveva legato i capelli ancora umidi in una treccia che teneva sulla spalla, in volto un’espressione stupefatta, incredula ed imbarazzata che lo sorprese.
Capì solo in un secondo momento che era la prima volta che lo vedeva senza cappuccio, a volto scoperto. Una piccola parte di lui si domandò che impressione le dovesse aver fatto, ma non ci fece più di tanto caso.
«Cosa succede?» rispose infine lei, con una nota di preoccupazione nella voce.
«Credo che… questa situazione sia durata anche troppo»
Lei sgranò gli occhi, le labbra schioccarono nel separarsi.
«Che intendi dire?»
Il suo cuore dolse mente si preparava a cacciarla via.
E’ anche per questo che deve andarsene
«Non puoi più stare qui, questo non è il tuo posto» dichiarò Connor duro e sbrigativo, i suoi battiti che, furiosi, gli martellavano nelle orecchie mentre si voltava ed allungava il passo verso l’uscita, considerando chiuso il discorso.
«Come scusa?» esclamò lei shokkata, facendo un passo avanti e scendendo dalla scala, tirandolo per un braccio per farlo girare e guardarla in volto. «Tu mi avevi detto che… »
«Che potevi restare finché non ti fossi rimessa»
replicò lui liberandosi dalla stretta. «E mi pare di aver fatto anche troppo per te»
La ragazza ingoiò il groppo che le era salito in gola e sollevò fieramente il mento.
«Se è per quello che è successo oggi alla cascata, i-... »
«No, non c’entra nulla»
mentì lui in tono severo, troncando la frase. «Quindi ora prendi la tua roba e vattene»
Erika però non aveva intenzione di dirgli addio in quel modo, quindi lo tirò nuovamente, stringendo più forte e guardandolo accigliata.
«Mi avevi promesso che mi avresti insegnato tutto ciò che sai» gli ricordò.
«Quel patto non è più valido» ruggì lui, sciogliendo la presa ancora una volta mentre lei spalancava la bocca, oltraggiata, pronta a scatenare su di lui la sua furia ed indignazione. Allungò una mano rapidamente, pregustando l’infrangersi delle proprie dita sulla guancia di lui, ma l’uomo fu più rapido e la bloccò, inchiodandole il polso al lato della testa, contro il muro. Erika soffocò un gemito di dolore.
«Sei davvero… » si morse la lingua per impedirsi di parlare mentre il cuore minacciava di esploderle in petto. Non era abituata a tutta quella vicinanza, dentro si sentiva in tumulto.
«Davvero cosa?» rimbeccò lui denigratorio, immobilizzandole anche l’altra mano quando questa si levò per vendicare vanamente la gemella.
Le nocche di Erika scricchiolarono per l’impatto contro la parete, mentre l’aria le veniva a mancare: il corpo del giovane a causa dell’impeto di quel gesto, si era schiacciato contro il suo, tanto che potevano sentire il fiato l’uno dell’altra e vedere il proprio riflesso nei loro occhi.
E poi, nonostante fosse senza fiato ed energie per quella discussione tesa, Erika si sporse in avanti, catturando le labbra del giovane con le proprie, cercando di trasmetterli tutta la confusione e la frustrazione che stava provando.
Connor però non rispose e quando la ragazza si separò per riprendere aria la fissò turbato.
Erano entrambi sorpresi di non riuscire a sentire i propri cuori che pompavano furiosi, il cui suono era coperto dai loro respiri profondi ed affannosi. Le loro iridi non si separarono per un solo istante, ognuno cercando di capire cosa stesse pensando l’altro.
Quando poi però Erika cominciò a pentirsi del suo gesto e fece per distogliere lo sguardo, Connor unì le loro bocche con irruenza, il suo corpo che cercava istintivamente un contatto con quelle dell’altra. Erano morbide e calde, quelle labbra, qualcosa in esse gli impediva di separarsene.
Solo quando si ritrovarono nuovamente entrambi ansanti Connor le lasciò i polsi, permettendole di allacciargli le braccia al collo esentire le sue forme sul proprio torace.
Erano storditi, ammaliati, quasi ubriachi ed il cervello di Connor si sconnesse definitivamente, perdendo ogni capacità logica e razionale.
Le sue mani le accarezzarono lascivamente i fianchi, intercettando dapprima la morbida ed eccitante concavità laterale dei seni e lacurva del bacino per poi sgusciare verso il bordo anteriore della camicia dilino di lei, strattonandola e prendendo a tirarla verso l’alto. Nel contempo Erika si affrettava a condurre il compagno di sopra, tirandolo mentre lei cominciava a salire i gradini camminando all’indietro.
A metà della scala il giovane riuscì finalmente a farle passare la maglia oltre la testa e gettarla sui gradini. L’istante successivo era nuovamente ancorato ai fianchi di Erika, incidendo con irruenza i segni delle proprie dita sulla pelle di lei mentre sentiva le morbide colline della giovane schiacciarsi ed espandersi sul suo petto nudo, i capezzoli che si sfioravano leggermente facendoli ansimare.
Le mani di Connor scesero ancora, arpionandosi al fondoschiena della ragazza e toccandole un gluteo con delicatezza, indirizzandole sue dita in mezzo alle gambe di lei e sfiorandola attraverso i corti pantaloncini di pelle.
«Ngh… » gemette lei, soffocando le labbra nella spalla del compagno che continuava imperterrito a torturarla lentamente, continuando a salire le scale. Erika si era aggrappata alla schiena di Connor, incapace di muoversi, così, mentre lui giungeva in cima alla rampa, lei si ritrovò praticamente seduta su una delle sue gambe, la sua intimità che sfregava fastidiosamente contro il tessuto.
Prese inconsciamente a strisciarsi su di lui, mentre Connor le slacciava concitato anche quell’indumento, pronto ad abbandonarlo nel corridoio.
Ancora pochi passi e sarebbero giunti alla sua camera da letto. A quel punto l’uomo era riuscito nella sua impresa, ritrovandosi la compagna nuda e fremente stretta al suo corpo.
Dio…” pensava, stordito dal desiderio. La fece rimettere in piedi, trascinandosela fino all’uscio che era la loro meta. Erika però aveva ripreso a baciarlo, impedendogli di aprire la porta.
L’aveva spinta contro il muro e baciata furiosamente sulla bocca, sul collo, sulla clavicola, sul seno, carezzando la gamba che lei aveva allacciato al suo fianco.
Poi si riscosse abbastanza da poter girare il pomello metallico ed entrare. Iniziò immediatamente ad armeggiare con i propri pantaloni, mentre Erika si slacciava i sandali in cuoio e li abbandonava sul tappeto.
Quindi, completamente svestita, si chinò di fronte all’uomo, strattonandogli l’indumento verso il basso e liberando la sua pulsante e gonfia erezione.
Ingoiò a vuoto, prima di fiondarvisi, prendendola in bocca e dandole delle lunghe lappate, donando all’uomo un po’ di sollievo. Connor gemette, la testa che gli vorticava mentre intrecciava le proprie dita ai capelli biondo scuro della compagna, reclinandola testa all’indietro.
«Aah… Erikaaah… »
Sentire quella lingua calda e quelle labbra vezzeggiare la sua erezione a quel modo, mentre con le mani gli stuzzicava i testicoli lostava facendo lentamente impazzire. Aveva bisogno di appoggiarsi, reggersi a qualcosa o sarebbe crollato.
«Erika… baah…!» quasi urlò quando sentì la lingua di lei quasi avvolgerglisi attorno, inumidendogli la cappella.
Ingoiò, accaldato. Si sentiva madido di sudore, cercava disperatamente un modo per spegnere il fuoco che gli attanagliava le viscere.
«Basta» la pregò flebilmente, il cuore che gli rimbombava nei timpani mentre lei si rialzava, asciugandosi un rivolo di saliva che le scendeva dal labbro e attirando per una spalla il compagno verso il letto. Vi si sdraiò supina, a gambe aperte, in una posizione che pareva urlare “fammi tua ora”.
Dopo averla squadrata per un istante, trattenendosi dal leccarsi le labbra, si avvicinò al talamo, salendovi e sovrastando il corpo della compagna. Calò su di lei, schiacciandosi sul suo ventre, mentre la baciava focosamente e lui si sfregava tra le sue gambe, entrambi terribilmente umidi.
Erika si aggrappò alle sue spalle, gli cinse i fianchi e Connor, portata la propria virilità all’entrata di lei, senza attendere un secondo di più, la penetrò d’un sol colpo.
«Aah!» Erika ansimò pesantemente, mentre gli graffiava le spalle e l’uomo usciva, ma incapace di restare a lungo lontano da quel calore.
Il ritmo divenne subito incalzante, furioso, rapido, turbolento. Non riuscivano a saziarsi l’una dell’altro, cambiavano continuamente posizione, alternavano la supremazia finché Erika non si ritrovò sopra il compagno e cominciò a muovere il bacino, impalandosi su di lui.
Mente Connor muoveva quasi in trance le mano sui suoi fianchi, sul ventre e le stringeva i glutei e i seni, lei ansimava profondamente, i loro nomi divenuti un’erotica litania urlata fra un sospiro di piacere e l’altro.
Connor vedeva le collinette danzanti di Erika si di lui, eccitandosi ulteriormente e così, in preda all’estasi, si tirò con fatica a sedere, stringendo la ragazza mentre si gemevano nelle orecchie.
L’uomo le attaccò ancora una volta l’orecchio, il collo, succhiando e leccando con avidità quella morbida pelle accaldata, mentre entrambi raggiungevano l’apice.
Erika, che aveva già toccato il piacere diverse volte, sentì Connor venirle dentro e cedette, stremata, sulle soffici coltri del talamo, insieme al compagno.
I loro petti si alzavano ed abbassavano rapidamente, le gole arrochite, i corpi pieni di segni e tremanti sotto il venticello serale di fine stagione.
Ormai i colori brillanti del tramonto erano stati sostituiti da una scura e delicata trapunta di stelle.
Non dissero niente, non c’era bisogno di parole. Poco alla volta i loro respiri si calmarono ed Erika posò il capo sul torace dell’uomo, che la stinse a sé.
Qualche minuto dopo udì la compagna dormire serenamente accanto al lui e, probabilmente per la prima volta da quando ricordasse, sorrise senza più pensare che gliel’avrebbe negato ancora.
La luna splendeva, alta nel cielo.



Epilogo



Il lieve tonfo delle sottili zampe della cerva era l’unico rumore che si udiva nella fitta foresta che li circondava.
La notte precedente aveva piovuto ed ora l’aria era satura dell’odore forte dell’humus bagnato, del muschio e delle felci, quasi fosforescenti nella foresta immersa nella bassa ed acquosa nebbiolina del mattino.
I due cacciatori seguivano svelti la preda, le pupille fisse sul capo affusolato dell’animale, mentre dietro di sé lasciavano rami spezzati e terriccio umido e divelso dagli zoccoli.
L’uomo incappucciato mise mano alla cinta, saldando le dita attorno al manico della sua arma ricurva ed affilata, che scintillò inquietante sotto un raggio di sole filtrava attraverso le fronde alte e fitte.
La estrasse, sollevandola letalmente sul capo per accumulare potenza ed una volta caricato il lancio fu pronto a scagliarla.
Un secondo prima che mollasse la presa però, una freccia gli sibilò leggera accanto all’orecchio, distraendolo e facendogli sbagliare il tiro.
Si fermò di colpo per evitare di cadere, mentre il tomohawk si conficcava in un tronco mentre la punta dell’altra arma trapassava il collo della cerva, tramortendola ed abbattendola al suolo.
Rimase di sasso, mentre la compagna lo superava, raggiungendo la preda, abbassandosi il cappuccio e risistemandosi l’arco sulla schiena, la faretra ancora pressoché piena.
Tastò l’animale nella zona di addome e stomaco, appurando che era morto.
Sorrise, colpito, estraendo la sua ascia dalla corteccia ed avvicinandosi all’altra, che replicò con uno sguardo soddisfatto.
Ormai non aveva più bisogno di imparare nulla. Era diventata degna di stare al suo fianco.

THE END

view post Posted: 9/1/2015, 19:53 Tonight... we are young! - Fanfiction non DN

Tonight... we are young!



Le grida gioiose dei bambini, il ronzare delle api, il suono dell’acqua mossa continuamente dai tuffi, la musica commerciale emessa dagli altoparlanti con i disturbi di fondo… la famiglia Uchiha era appena approdata alla piscina pubblica di Konoha!
Itachi, sereno, con un grosso asciugamano in spalla ed un borsone accanto a sé, teneva la mano della fidanzata, Elisa, che aveva posato sulla testa i grossi occhiali da sole ed aveva allacciato attorno al corpo un telone estivo, mentre il piccolo Shisui, sulla sua schiena, rideva, splendente come un raggio di sole, tirando le ciocche appuntite della chioma corvina di Sas’ke, il quale era il solo ad avere un’espressione corrucciata in volto, con la tracolla sulla spalla. Tutta colpa di quel dannato fratello maggiore che si ritrovava.
“Santo”, lo chiamavano… tzé, ma dove?! “Facciamo famiglia, otouto, non stiamo mai insieme!”.
Idiota lui che aveva creduto sarebbero stati soli, senza cognate o nipoti tra i piedi.
Alla fine, rifletté il minore, era tutta colpa della ragazza. Lanciò un’occhiata di puro odio alla causa idi quella disgrazia e lei, sentendosi osservata, si voltò a guardare l’altro. Ghignò, mentre un tic cominciava a nascerle nell’occhio. Ma cosa voleva?!
Lo fulminò con le iridi grigio tempesta, la tensione era palpabile, i fulmini saettavano tra i loro volti…
«Ohi, Sas’ke!» esclamò una voce allegra e gioviale, seguita dal sonoro rumore di una manata. L’Uchiha si girò, simile ad uno zombie, verso il ragazzo dietro di lui, digrignando i denti e sbuffando dalle narici come un toro.
«Naruto…» quasi una domanda, intrisa di furore. «Cosa diavolo ci fai qui?».
Il biondino ignorò la malcelata minaccia nella parole del compagno di squadra, e con noncuranza gli mise un braccio attorno alle spalle, continuando a camminare, mentre padre, madre e figlio li seguivano soffocando le risa.
«Beh, Elisa-chan aveva invitato me e Sakura-chan, e abbiamo pensato che sarebbe stato divertente passare il pomeriggio insieme!» spigò mentre l’Uchiha elaborava quelle informazioni.
«S-Sakura?» ne chiese conferma, con una quasi indistinguibile nota di panico nella voce.
«Uhn!»
“Ti prego, tutto ma non…”
«Sas’ke-kuun~ ».
Ti odio”.
Sakura correva nella loro direzione, salutandoli con la mano, la borda estiva di plastica fuxia semitrasparente appesa e sventolante al suo fianco.
«Sakura-chan!» esultò Elisa al vedere la ragazza, dando Shisui al fidanzato ed abbracciando l’amica.
«Ciao Eli!» ricambiò Haruno, dandole un bacio sulla guancia, per poi sorridere in direzione dei compagni e notando infine il bimbo.
«E’ cresciuto tantissimo!» squittì deliziata, prendendolo dalle braccia di Itachi stringendolo a sé.
«Ciao, Shi-chan!».
«Ciao Sakura-bacchan!»
replicò il piccolo, mentre i genitori osservavano il figlio con sguardo amorevole.
«Posso tenerlo io?» domandò la rosa, ed Elisa acconsentì senza problemi.
Poi Naruto, che evidentemente aveva taciuto troppo a lungo, s’intromise entusiasmando gli altri: «Yessha! Visto che ci siamo tutti, possiamo finalmente iniziare a divertirci’ttebayo!».
Depositati rapidamente i propri effetti personali negli armadietti ed afferrati teloni e stuoie, si diressero al parco del complesso acquatico, sistemandosi sotto le fronde di un albero in cima alla collinetta del parco.
Le ragazze spalmarono la crema agli Uchiha, discutendo delle ultime novità e seppur le loro vittime appartenessero alla stessa famiglia, avevano reazioni profondamente riverse: Itachi controllava sereno il biondino che ricopriva Shisui di protezione solare, mentre Sas’ke, tenendo le braccia incrociate, pareva non desiderare altro che ammazzare tutti o scomparire seduta stante.
Naruto fremeva, non vedendo l’ora di tuffarsi, e continuava ad incitare gli altri a sveltirsi.
Quando anche Sakura ed Elisa furono cosparse di abbronzante, raggiunsero le docce: la nuova Uchiha e Naruto scambiatisi un’occhiata d’intesa, diedero una spinta a Sas’ke, spedendolo dritto sotto il getto gelato. Il moretto, dapprima sorpreso, si richiuse immediatamente a riccio, togliendosi rapidamente dall’acqua e fulminando i colpevoli che se la ridevano della grossa.
Una volta che ebbero raggiunto tutti il solarium con le vasche, Naruto, senza nemmeno vasare agli altri, prese la rincorsa e si lanciò in acqua, con un tuffo a bomba, schizzando spruzzi ovunque.
Subito il fischietto del bagnino si fece sentire, ed il biondino ascoltò irritato il richiamo dell’uomo, rivolgendogli un’occhiataccia.
Nel frattempo Shisui, vedendo Naruto, cominciava a smaniare di entrare, così Itachi, saluto sul trampolino, spaccò la superficie dell’acqua con un elegante tuffo a stile e riemerse qualche metro più avanti, la lunga chioma corvina liscia e lucidissima. Sorrise all’indirizzo della fidanzata e lei, prendendo il figlio dalle braccia dell’amica, lo lanciò con cautela nell’acqua. Il suo gridolino esultante mise di buonumore tutti, mentre anch’egli entrava in vasca. Con un paio di bracciate Itachi lo raggiunse e tenendolo, cominciò a farlo giocare.
Con la coda dell’occhio Elisa vide Sakura andare a stendersi su una sdraio, pronta ad una tintarella, e poi notò il cognato, che cercava di stare più lontano possibile dal bordo di quella diavoleria. Ghignando, lo raggiunse, cercando di convincerlo ad unirsi a loro.
«Sas’ke, dai, fai un tuffo!».
«Ma non ci penso nemmeno!».

Intanto però la ragazza stava riuscendo a trascinarselo dietro, sfruttando il pavimento bagnato del solarium che non faceva ben aderire le ciabattine al suolo.
Il panico negli occhi del giovane Uchiha si rifletteva nello sguardo furbo della cognata, che non intendeva demordere.
Ad un certo punto però, lasciò il polso dell’altro, dandogli le spalle e tuffandosi anch’ella nella vasca. Sas’ke ne osservò confuso la sagoma nuotare sott’acqua per poi riemergere accanto al fidanzato, ignorandolo completamente.
Era uno scherzo…?”
Sollevato, il ragazzo fece per voltarsi, ma non fece in tempo a dar la schiena a resto della combriccola che sentì qualcuno urtarlo.
Gli parve di cadere al rallentatore, mentre cielo e terra si ribaltavano davanti a lui, e poi…
Splash!
Finì dritto tra Naruto ed il fratello, accolto dalle risate generali. Tornò in superficie poco dopo, sputacchiando l’acqua clorata e guardandosi intorno, inorridendo al vedere Sakura che tentava malamente di nascondere una risata, mentre sussurrava un “Ops!” ben poco convincente.
Non poté vederlo, ma le due ragazze si scambiarono un occhiolino divertito.


Restarono a spruzzarsi, scherzare e giocare un’oretta, ma siccome Sas’ke continuava a lamentarsi, alla fine decisero di accontentarlo, riuscendo comunque a farla passare per una loro idea.
«È pieno pomeriggio» aveva dichiarato Itachi. «Il sole non fa bene a Shisui, è meglio andare all’ombra e asciugarci un po’».
Così tutta la famiglia Uchiha più Naruto – la Haruno era ancora sdraiata ad abbronzarsi come una lucertola – tornò alla collinetta.
Il biondino iperattivo, però, aveva voglia di un gelato, quindi trascinandosi dietro l’amico si diresse al chiosco, con un sorriso sornione stampato in faccia.
Elisa li salutò con la mano, voltandosi poi a guardare il compagno sdraiato sulla schiena che guardava amorevolmente il loro bambino appisolato sulla pancia di lui con il pollice in bocca, mentre il padre gli accarezzava la testolina bruna.
Sentì quasi il cuore dilatarsi e si strinse al fidanzato, posando il capo sulla sua spalla e sospirando felice. Itachi si voltò nella sua direzione e le baciò una tempia, per poi sorridere a sua volta, il viso illuminato dai raggi del sole.
Elisa porse l’indice al piccolo, che lo strinse nella manina e mormorò nel sonno qualcosa che suonava come “kaachan”.


Passarono la mezzoretta seguente a rilassarsi, giocando con il piccolo Shisui e passeggiando per il parco.
Una volta tornati ai teloni vi trovarono gli altri tre biondo intento a parlare euforico di qualcosa, gesticolando ampiamente il moro seduto a braccia e gambe incrociate, digrignando i denti e cercando di ignorarlo, mentre pregava mentalmente in tutte le lingue che conosceva – e non erano poche - che tacesse una volta per tutte. Infine, la rosa, dopo averli raggiunti si era messa placidamente a leggere un libro. Sentendoli arrivare, strizzò un occhio nella loro direzione e allungò in braccio, dando un delicato schiaffo al braccio dell’Uzumaki, accennando col capo nella direzione degli Uchiha.
«Uhn?».
Naruto alzò il capo e balzò in piedi.
«Ma siete ancora qui? Basta poltrire, torniamo in acqua!».
Gli ex compagni si alzarono in piedi; Shisui corse da Sakura-bacchan, la quale lo prese in braccio e ridacchiò quando il piccolo le si abbarbicò addosso a mo’ di koala.
Mentre tornavano verso le vasche Naruto, illustrò ai nuovi venuti ciò che stava raccontando all’amico, tra l’interesse di Elisa e la consolazione del giovane Uchiha.
«… te lo giuro, era tremendo! Vicino a noi abbiamo visto questo vecchio bonzo, grosso così… » e con le braccia di segno un’enorme pancia invisibile sulla sua «… che dormiva, o almeno, sembrava stesse dormendo! Ad un certo punto ha infilato una mano nei mini slip che aveva addosso e… ha cominciato a ravanare! Dovevate vederlo!»
«Ahahah oddiooo!»
, rise la ragazza, immaginandosi la scena ed approfittandone per stuzzicare il cognato.
«E tu come fai a non riderne, eh?».
Sas’ke la fulminò con lo sguardo.
Per favore, pòrtatela via!».


L’acqua era fantastica. Shisui rideva come un matto, passando dalle braccia di Sakura, a quelle di Naruto, a quelle dei genitori.
Ad un certo punto Elisa ed Itachi si trovarono vicini e lei poté vedere l’espressione del compagno.
«Itachi, cosa c’è?»
Lui fece un cenno in direzione del bordo piscina e la ragazza, seguendo il suo sguardo, vide un bagnino che la fissava: classico ventisettenne, ultra palestrato con abbronzatura biscotto, perfettamente depilato, dal sorriso splendente, gli occhi intriganti, i capelli corvini spettinati al punto giusto ed un pacco niente male.
Al vederlo non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere.
«Pff… ahahah!».
Itachi la guardò stupefatto.
«Cosa c’è da ridere?!».
«Ma guardalo! Ahahah!»
. Cercò di calmarsi. «Ha degli slip minuscoli, rossi per di più, è ridicolo! Ahahah!».
L’Uchiha maggiore parve rincuorato e diede un bacio sulla guancia alla fidanzata.


Ad un certo punto Naruto, visto che Sas’ke era misteriosamente sparito, la sfidò ad una gara di tuffi (che gara alla fine non era) ed Elisa acconsentì.
Quando fu il suo turno, la ragazza, decise di uscire sensualmente, giusto per provocare un po’ il compagno. Arrampicandosi sulla scaletta si preoccupò che il costume le lasciare scoperto quel tanto che bastava del fondoschiena e che le gocce scivolassero lente lungo la pelle bagnata, mentre ancheggiava sui pioli di metallo, mettendo in mostra il proprio lato B.
A quella visione, allo stoico Uchiha si prosciugò la bocca, stordito, e con un0imorivvusa urgenza stretta nel costume.
“Piccola intrigante…”
Segui con lo sguardo affamato la ragazza camminare lungo il perimetro della vasca, come ignara di tutto, finché non la vide scivolare.
Scattò immediatamente verso il bordo, ma quando si rese conto che non era caduta, anzi, si trovava tra le braccia del bagnino che continuava a fissarla si pietrificò un attimo. Quello successivo la gelosia e la rabbia si erano già impossessati di lui.
Mentre faceva quel paio di bracciate per intimare al Don Giovanni di tenere le zampe a posto, lo udì tentare un approccio patetico, ma ugualmente irritante.
«Devi stare più attenta».
Si issò sulle grate di scolo, incenerendo con lo sguardo le mani del tipo che stavano toccando un po’ troppo.
«Sì, hai ragione» aveva replicato freddamente Elisa.
Itachi si fermò un istante ad ascoltare la fidanzata, ma ciò che udì poi gli fece prudere le mani per il fastidio ed il senso di colpa.
«Se fossi il tuo ragazzo non ti lascerei sola un istante».
Elisa era allibita ed il pervertito, approfittandone, le posò un palmo sulla natica per attirarla di più a sé.
Itachi a quel punto vide rosso. In due passi li aveva raggiunti, aveva afferrato saldamente il polso del mister e, stortandoglielo, lo spinse via, cingendo possessivamente la vita della compagna, fulminano il bagnino con le iridi furenti, scarlatte dall’ira. Poi si voltò verso la ragazza e guardandola intensamente negli occhi affermò, in modo che fosse udibile anche dall’altro: «Infatti non la lascerò mai più».
Qualcosa nelle sue parole parve innervosire il bagnino, il quale, pur restando a distanza, gli rispose a tono.
«Si è visto, per poco non si faceva male!».
Elisa sentì l’Uchiha irrigidirsi e l’incazzatura montò pure a lei.
Si sciolse dall’abbraccio del moro, ed avvicinandosi al lifeguard, gli tirò un sonoro ceffone sulla guancia abbronzata, incurante del dolore. Il colpo fu talmente forte che l’altro perse l’equilibrio e cadde sul pavimento bagnato del solarium.
«Shannaro!» gridò Sakura e con un’occhiatina d’intesa all’amica, tornò a giocare con Shisui insieme a Naruto.
Che stronzo hentai!”, pensò lei guardando male il farfallone, riportando quindi l’attenzione su Itachi: fissava altrove le sopracciglia corrugate.
«Itachi?» lo chiamò lei allarmata e finalmente il corvino reagì, intrecciando le proprie dita alle sue e portandola all’interno del complesso acquatico.
Una volta agli spogliatoi il ragazzo si arrestò, senza però dire alcunché.
Elisa quindi gli posò amorevolmente un palmo sul braccio, e cercando di catturare il suo sguardo riprovò, la preoccupazione crescente.
«Itachi, cos’hai?».
Sotto la pelle, la giovane sentì un fremito scuotere i muscoli del moro ed n istante dopo si ritrovò schiena al muro, con una mano di Itachi nei capelli umidi e l’altra stretta attorno i fianchi che la stringeva possessivamente. Le labbra dell’Uchiha si muovevano con decisione, disperazione e tormento, ed Elisa sapeva che cercava di ignorare i propri sentimenti, e invece, quando si separarono per riprendere fiato, la guardò dritto negli occhi, specchiando visi.
«Tu sei mia» proferì con convinzione, ad un centimetro dalla bocca di lei. Poi le sfiorò nuovamente le labbra con le proprie, con delicatezza ed aggiunse, in tono più pacato ma altrettanto ardente: «Solo mia».
Elisa arrossì, schiudendo la bocca, ma non distolse lo sguardo.
«Allora era per questo?».
Itachi scosse la testa, chinando il capo come in meditazione, per poi tornare a guardarla.
«Scusa». La ragazza non capiva. «Giuro che d’or’in poi starò sempre al tuo fianco» promise sicuro, e finalmente Elisa capì il perché di quel comportamento
Qualche anno prima Itachi se n’era andato senza dir niente a nessuno, né a lei, né al fratello, sparendo per più di 18 mesi nel nulla.
Elisa, incinta, era stata malissimo, sentendosi tradita, demoralizzata, finché un giorno non ricomparve, improvvisamente come l’aveva lasciata, stringendola in un abbraccio mozzafiato, conoscendo Shisui e spiegando che era tutta colpa della Yakuza.
«La mafia giapponese è sempre stata interessata al prestigio degli Uchiha» aveva spiegato. «Sapevo di essere nel loro mirino da mesi, da quando la società di famiglia ha cominciato ad assumere più importanza a livello internazionale, ma allora dovevo occuparmene da solo, senza temere per la vita di altri. Ma adesso è diverso, non voglio che la mia famiglia passi il resto della vita con il fiato sul collo»
Elisa lo aveva perdonato subito e Shisui lo adorava, per lei ormai era acqua passata, ma evidentemente Itachi ne risentiva ancora.
La ragazza allora sorrise, ed accarezzando la guancia del marito si sporse in avanti baciandolo piano, senza approfondire.
«Non hai niente da farti perdonare».
Il moro ebbe un altro fremito e di nuovo la sua bocca venne coperta da quella dell’altra. Il contatto, più intimo e voglioso, li accese ed Itachi strinse a sé la compagna, passandole le mani sulle spalle, la schiena, i fianchi, le natiche. Elisa dal canto suo saggiava il petto del fidanzato, scendendo fino a giungere al costume, abbassandolo con disinvoltura e sfiorandogli la pelle nascosta al di sotto con la punta delle dita.
«Eli… » sospirò il moro, ritornando subito a baciarla, intrecciando le loro lingue, mentre la sua razionalità andava scemando al sentire il suo membro vezzeggiato a quel modo.
Sfregava i palmi contro il corpo scivoloso della compagna, infastidito dalla stoffa sintetica e bagnata del suo bikini, decidendo infine di slacciarglielo. Le loro intimità si sfregarono, accompagnate dai loro ansimi, mentre Elisa, eccitata, allacciava una coscia ai fianchi del partner per poter sentire meglio la virilità dell’altro vicino alla sua entrata.
“Kami…”
Itachi la prese in braccio, tenendole saldamente le gambe, e muovendo il bacino, sfregandosi contro di lei. Aveva una tale voglia di sentirla, calda bagnata, tutta attorno a lui…
Elisa ansimava, si sentiva al limite, desiderava essere riempita, subito…! Percepiva la lingua del moro sul seno, sui capezzoli e non le importava di nient’altro.
«Ahh… Itachi… prendimi…!» lo pregò bramosa, mentre Itachi cercava di ragionare.
«Non… qui… » replicò ansante, imponendosi i mantenere il controllo ancora per un istante. Si spostò, le gambe tremanti, verso la porta di uno degli spogliatoi, la compagna ancora in braccio, chiudendola poi con un piede e rifiondandosi sulle labbra di lei, insaziabile.
«Itachi… cos’aspetti?...aaah!... » gemette, stuzzicata dalle dita e dall’erezione del compagno.
L’Uchiha allora spinse ed Elisa fu costretta a coprirsi la bocca con una mano per evitare che venissero i bagnanti a dare un’occhiata. Ansimava velocemente, il petto che si alzava ed abbassava e che non faceva che far eccitare ulteriormente il moro, il quale, vorace, baciava, succhiava e leccava ogni centimetro di pelle che riuscisse a raggiungere.
La ragazza, con le lacrime agli occhi per il piacere, sentiva scariche bollenti di pura lussuria scuoterla ogni volta che il pene di Itachi le sfiorava un punto erogeno, facilmente raggiungibile da quella posizione.
Le pareti di legno azzurro traballavano mentre Itachi aumentava il ritmo delle spinte, entrando sempre più a fondo…
«Kami Itachi… sì…!»
«Eli… ti voglio….!»

Chiamavano l’una il nome dell’altro, come in un’invocazione finché non raggiunsero il limite.
«Eli… sto per-…! Aaah....!» urlò Itachi, la voce rauca mentre veniva copiosamente e sentiva il membro inumidirsi anche dei liquidi di lei.
Infine cedette, tremando per l’orgasmo ed Elisa si ritrovò sdraiata sulla panchina dello spogliatoio, ansante e con lo sperma del compagno che le colava lungo le cosce, mentre Itachi si teneva appoggiato al muro con le mani e la testa, cercando di riprendere fiato. Poco a poco il respiro tornò normale e dopo aver inumidito le labbra secche ed ingoiato a vuoto aprì gli occhi, incontrando le iridi argentee e radiose della fidanzata.
La ragazza, il sorriso che andava da una parte all’altre del viso, si tirò a sedere ed allacciò le braccia al collo del ragazzo, baciandolo un’ennesima volta.
«Aishiteru»
«Watashimo»



Vi prego, fatelo smettere!
Sas’ke aveva perso ogni speranza di uscirne vivo. L’avevano riagguantato mentre cercava di svignarsela e adesso si ritrovava ancora una volta con l’acqua al petto – o meglio, alla gola – e la testa dolorante: Naruto stava parlando con Sakura, sulla destra, noncurante del fatto che dall’altro lato quel demonio di Shiui, arrampicatosi sulla schiena del biondo, continuava a tirargli le ciocche di capelli ridendo come un pazzo e non poteva neppure scappare visto che Haruno gli stava tenendo saldamente il braccio.
Ad un certo punto Naruto alzò lo sguardo e vide Itachi ed Elisa venire verso di loro, mano nella mano, scambiandosi un’occhiata complice con Elisa ed ammiccando a Sas’ke col nipote. Lei gli fece l’occhiolino e poi, insieme al fidanzato, rientrò in acqua.
Lei andò da Sakura mentre il moro riprese Shisui dalla schiena di Uzumaki, dandogli un bacio in fronte e guardando con superiorità il minore, giusto per provocarlo un po’.
Naa, è finito il divertimento”, pensò Naruto dal momento che l’Uchiha maggiore aveva ripreso il figlio. Poi gli venne un’idea.
Sgusciò al fianco di Elisa e mettendole un bacio attorno alle spalle, trillò: «Certo che ce ne avete messo di tempo!» osservò malizioso scoppiando a ridere.
La ragazza stava già per replicare quando si udì un tonfo sordo ed il secondo successivo il biondino si stava massaggiando la parte lesa della testa con un broncio stampato in faccia.
Era stato talmente improvviso che nessuno aveva visto Sakura muoversi, ma era inequivocabile che fosse stata lei visto come agitava minacciosa il pugno, digrignava i denti e lanciava fulmini dagli occhi smeraldini.
«Naruto…» ed il suo tono suonava tremendamente minaccioso « … queste non sono cose da dire! Shannarooo!»



おわり~
view post Posted: 9/1/2015, 19:52 Paint - Fanfiction non DN
Hello,everyone~!
Ritorno oggi con una nuova fan fiction sulla cui
pubblicazione ero molto incerta: il pairing è uno degli
OTP miei e dei miei amici, ma è totalmente crash e avverto
che alcuni potrebbero trovarlo offensivo
. Si tratta di una
TOPxJonfen,cioè una yaoi tra il cantante dei BIGBANG Choi
Seung-Hyun e Jonfen, protagonista del film “Tutto è Illuminato”,
interpretato da Elijah Wood. Tuttavia, se volete semplicemente
leggere una yaoi spinta non ci dovrebbero essere problemi e sarei
molto interessata a ricevere delle recensioni per la fic in sé e non per
il pairing scelto, grazie^^




PAINT


«Sono a casa!»
Seung-Hyun annunciò la sua presenza al compagno, richiudendo la porta. La serratura scattò, mentre il tintinnio delle chiavi nel cestino dell’ingresso anticipava l’entrata del ragazzo nel salotto.
«Bentornato amore!».
Choi fece appena in tempo a vedere una chioma corvina che le sue labbra erano già impegnate in un appassionato bacio col suo fidanzato.
Le lingue dei due innamorati si intrecciarono fameliche, le bocche aspirarono sospiri voluttuosi, mentre le mani saggiavano la morbidezza dei capelli ed il perfetto fisico dell’altro.
I bacini sfregarono ed il più grande dei due ansimò, interrompendo il contatto con la bocca del cantante.
Fino ad un attimo prima l’unica cosa che Choi aveva sentito era il profumo del partner; ora vi si era aggiunto l’odore pungente e leggermente tossico della vernice. Alzando lo sguardo osservò i mobili della stanza ricoperti di plastica trasparente, sul pavimento carta di giornale, secchi ricolmi di un liquido chiaro e, nell’angolo, una scala sporca di pittura candida.
Sorrise. Un paio di giorni prima avevano deciso di riverniciare la sala, visto che lepareti dopo qualche anno cominciavano a scurirsi. Era già stato quasi tutto ridipinto, ma alcuni punti necessitavano ancora una seconda passata.
Guardò poi il compagno chinarsi a novanta gradi per recuperare il pennello ed in un lampo – i jeans improvvisamente troppo stretti – fu dietro di lui a palpargli le natiche fasciate da pantaloni aderenti.
«Jon… non dovresti provocarmi così… », sussurrò rauco, mentre la mano scivolava dall’altro lato del suo bacino.
Jonfen sgranò gli occhi, abbassandosi quasi subito a quelle attenzioni, facendosi sfuggire un sospiro.
«Choi… »
Dio, sentirlo era meraviglioso… la mente del giovane cantante si offuscò ed afferrando la chioma corvina dell’altro tirò, facendolo sollevare e sbattendolo contro l’umida parete retrostante.
Si fiondò subito sul collo del’altro, attirato dalla morbidezza e dal calore dellapelle, mordendolo e leccandolo con entusiasmo.
Il gorgoglio nella gola del partner non faceva altro che farglielo indurire ulteriormente, e le dita corsero lungo il torace dell’ucraino, strattonando bisognoso il bordo della maglia, sfilandogliela senza preoccuparsi di essere delicato e spingendolo sulle spalle, facendolo inginocchiare.
Jonfen sentì una fitta alle rotule, ma la ignorò, troppo stordito dall’eccitazione del momento. Sapendo cosa doveva fare, abbassò rapidamente la zip dei jeans e tirò in basso con veemenza i boxer aderenti dell’altro, ritrovandosi davanti il grosso pene eretto del compagno, pulsante di voglia. La bocca gli si seccò, gli occhi gli pizzicavano tanto si sentiva duro. Voleva essere soddisfatto, ma non sarebbe stato accontentato subito, e ne era consapevole.
Con bramosia prese in bocca il membro dell’altro, fino alle tonsille e cominciò apompare, succhiando come e ne andasse della sua vita, senza preoccuparsi di poter soffocare.
«Nngh… aah!».
Choi non riuscì a trattenersi, e gettò la testa all’indietro, contro la vernicefresca, ansimando profondamente e spingendo il capo di Jonfen verso il suo cazzo.
Jon fece scorrere quella lunghezza nella sua cavità orale, su e giù, dentro efuori, passando la lingua sul glande e cominciando a succhiare.
Già sentiva le prime gocce del suo sapore acre…
“Basta…”
Tirandolo per i capelli, Choi lo sbatté contro il muro e si fiondò sulla sua bocca tremendamente abile.
Mentre si scambiavano uno sporco bacio a bocca aperta, Jonfen sfilò la maglia di Seung-Hyun con irruenza, mentre Choi gli apriva i pantaloni, facendoglieli scorrere lungo le gambe magre.
Le loro erezioni si scontrarono, sfregando l’una sull’altra ed entrambi tremarono di piacere. Jonfen si aggrappò con le unghie alle scapole del compagno, la testa che gli girava, e Choi ne approfittò per far scorrere saggiamente i palmi lungo i fianchi sottili dell'altro, seguendone la curva fino alla concavità della colonna vertebrale ed alle natiche piccole e sode, prendendo a stuzzicare il buco che già si contraeva avido di essere violato.
“Dio…”.
Choi fu percorso da un forte brivido di piacere e bruscamente infilò l’indice nella fessura, prendendo a spingerlo più in profondità, mentre il partner gemeva, imembri accaldati l’uno contro l’altro.
Poi Seung-Hyun sentì la gamba inumidita e guardò il viso di Jonfen: teneva gliocchi errati, si mordeva le labbra, tremava, tanto era il libido, ma cercava in ogni modo di non venire, non ancora, e Choi, al vederlo, rischiò per un istantedi svuotarsi immediatamente. Non era assolutamente intenzionato però a farla finire così presto.
«Jon… », ansimò rauco nell’orecchiodell’amante, mordendogli poi il lobo e leccandoglielo. «Ti prego… resisti… ».
Lo sentì annuire debolmente contro la sua spalla e lo fece subito mettere a quattro zampe sui fogli di giornale, completamente sottomesso all’altro.
Vedendolo in quella posizione, Choi si leccò lascivamente le labbra, pregustando il paradiso che già aveva visitato infinite volte, e lo raggiunse, allargandogli le natiche e strofinando il suo pene ormai al limite tra le gemelle.
«Choi… », gemette il compagno. «Mettimelo dentro…!».
“Oh, no…”
Seung-Hyun aveva decisamente un’altra idea. Continuando a torturarlo da dietro, gli afferrò il membro teso, stringendoli i testicoli gonfi e cominciò a masturbarlo, sentendo di nuovo le dita umidicce. Gli mancava così poco…
A Jonfen cedettero le braccia, tremanti, giacendo in una sorta di posizione a pecorina, ansimando forte, e travolse un secchio di vernice. Il liquido biancastro sgorgò sotto i loro, bagnandoli, finché il cantante non rimise ilcontenitore in piedi.
Fece scorrere i palmi sporchi di pittura lungo il corpo dell’altro, lasciandogli tracce chiare sulla pelle lattea ed infine giunse nuovamente all’antro del compagno.
Chinandosi ulteriormente, cominciò a leccargli il buco, intrufolandovi la lingua dentro, inebriato dai fremiti dell’amante, per poi spostarsi bruscamente ed infilandogli l’indice dentro, subito seguito dal medio, la vernice che gli colava lungo la coscia, spingendo le falangi sempre più a fondo, cercando il punto erogeno.
«Aaaah!».
Jonfen portò subito una mano su quella di Seung-Hyun, bloccando parte dei movimenti che lo stavano portando alla follia.
«Choi… prendimi… adesso!», urlò il moro al limite, la voce rauca e colma di frustrazione.
“Come desideri”
Sfilò le dita, permettendogli di ammirare il buchino arrossato ed inondato di bianco, i marchi chiari dei propri palmi sulla schiena dell’amante; poi afferrò la propria virilità, sensibilissima tanto era il bisogno, e lo portò all’entrata.
Un secondo di attesa e lo penetrò con forza.
«Aaaaaaah!», urlarono insieme, il battito del cuore rimbombava loro nelle orecchie, stordendoli, mentre il calore di Jonfen non faceva che far desiderare al cantante una sola cosa: fotterlo fino allo sfinimento.
Spinse, senza curarsi dell’eventuale dolore dell’altro, affondando in quella carne bollente ed accogliente, il membro teso a dismisura.
Uscì, ma aveva troppo bisogno di quella bruciante morbidezza per restarne lontano.
Riaffondò, ancora e ancora, muovendo freneticamente la mano sul pene del compagno e spingendosi con vigore nel suo culo.
Lo stava sfondando probabilmente, ma non gli importava di niente, voleva solosentire lo stretto anello di muscoli contrarsi attorno alla sua erezione, igemiti di Jonfen, il suo cazzo gocciolante.
«Dio… Choi…», strillò il moretto,inarcandosi all’inverosimile, spingendosi verso il membro dell’amante per trarne ulteriore piacere; il cantante gli aveva colpito la prostata… era stato sublime, nel giro di niente sarebbe venuto…
Dal canto suo Seung-Hyun stava per raggiungere l’apice, tanta lussuria ed impetuosità lo mandavano in estasi.
Una spinta, due, tre…
«Choi… sto per…», ed il giovane sentì il seme caldo del compagno inondargli la mano, mentre anche lui esplodeva, riempiendo l’amante del suo sperma. Fluiva, e pensava che non era mai venuto tanto.
Continuò a muovere il palmo, facendo svuotare completamente il compagno, finché non si accasciò, esausto, contro la schiena di Jonfen, sudato e pienamente soffi sfatto, rimanendo ancora nell’antro, troppo stanco per spostarsi.
Le loro teste giravano vorticosamente, non sarebbero stati in grado di reggersi in piedi.
Poco a poco la stanza ed il suo mobilio incellofanato tornarono ad acquistare dei contorni più o meno definiti.
Seung-Hyun si sentiva pieno, felice. Rise, il buonumore trasudante da tutti i pori mentre accarezzava Jonfen dolcemente.
Finalmente uscì, i muscoli ancora vibranti, osservando il proprio sperma uscire dal buco allargato e colare lento lungo le cosce del compagno, aiutandolo poi adalzarsi, facendolo poi sedere tra le sue gambe, sul pavimento ricoperto di giornali e vernice.
Jonfen poteva sentire il respiro del compagno chetarsi col passare dei minuti, un suono rassicurante, mentre le dita del cantante gli passavano tra i capelli, facendo miagolare.
Choi non riusciva a togliersi l’espressione beata dal volto, era stata senza dubbio la migliore performance che avessero mai eseguito.
Poi, un commento malizioso fece capolino nel suo cervello e decise che non c’era alcun motivo per tacerlo, facendo arrossire vistosamente l’altro.
«Beh, direi che al muro serviva proprio unaseconda mano di bianco».



The End
view post Posted: 9/1/2015, 19:50 In Case You Need - Fanfiction non DN

IN CASE YOU NEED





Sas'ke non si spiegava come Itachi fosse riuscito a convincerlo ad accompagnarlo allo Sharingan, il famoso club del sopraccitato, pieno di quei suoi amici strani coi quali lui non c'entrava nulla e che preferiva di gran lunga evitare.
Per di più, i locali a luci rosse non erano proprio nel suo genere: non aveva alcun bisogno di soddisfare i suoi desideri sessuali con sconosciuti che ballavano aggrappati ai pali del palco, poteva avere chi desiderava senza abbassarsi a tanto. Anzi, era pure costretto a declinare parecchi inviti, tante erano le offerte che gli venivano sottoposte.
“Tsk, è tutta colpa tua, niisan ...”, pensò irritato mentre sorseggiava un Cuba Libre al bancone dietro il quale si aggiravano le bariste, agghindate in abiti fin troppo succinti per essere una scelta d'abbigliamento personale.
La sua espressione corrucciata sembrava aver attirato l'attenzione di una delle ragazze che, pulendo un boccale da birra, si sporse verso il cliente, osservandolo con attenzione.
«Itachi ti ha costretto a venire, vero?», domandò col tono di chi la sa lunga.
Sas'ke alzò lo sguardo su di lei, squadrandola col suo solito occhio clinico: i capelli scuri erano legati in un'alta, lunga e fluente coda di cavallo che le ricadeva dietro la nuca, gli occhi color cioccolato, perfettamente truccati, risaltavano grazie alla matita nera, passata sull'interno della palpebra con precisione, la bocca dalla forma morbida luccicava per il leggero lucidalabbra. L'Uchiha fu lieto di notare che non era eccessivamente truccata, al contrario della collega bionda che in quel momento stava lavorando con lo shaker, sotto le occhiate voluttuose di alcuni uomini e donne che attendevano i propri drink. Non era mai riuscito a sopportare la frivolezza cui cedeva la maggior parte delle donne.

«Mmh», rispose, e l'occhio gli cadde sul décolleté messo in mostra da un top rosso cremisi, succinto e lucido. «Come se non avesse altra gente a cui badare», commentò aspro, per poi riportare lo sguardo sul viso di lei, ridente e malizioso.
«Comprendo la tua frustrazione», fece allegra. «Ma sai, entrare nella mente di quell'uomo è impossibile».
«Altroché», concordò Sas'ke, terminando il Cuba Libre. Era già il terzo, l'irritazione per il fratello cominciava a scemare, offuscata dalla musica e dalla voce sensuale della ragazza e dall'alcool.
«Senti … ti va di ballare?», propose la barista all'altro senza giri di parole.
Ora, normalmente Sas'ke non avrebbe mai fatto una cosa del genere, non era il tipo e di solito non ne aveva neppure voglia. Ma l'idea di distrarsi dal pensiero fastidioso del maggiore ed
intrattenersi con quella ragazza lo allettava particolarmente.
Perciò rispose con un «Certo» e si alzò dallo sgabello alto, mentre lei aggirava il bancone e lo seguiva sul dancefloor.

Le luci rossastre e violette si riflettevano sulla stroboscopica, specchiandosi sulla folla sottostante, illuminandola fiocamente e creando un'atmosfera piuttosto intima, che spingeva le coppiette ad appartarsi sui divanetti di pelle ad amoreggiare dietro i veli semi trasparenti che pendevano dal soffitto.
La ragazza l'aveva condotto esattamente in mezzo alla pista e gli aveva allacciato le braccia sottili al collo, cominciando ad ancheggiare sensualmente intorno al corpo dell'altro, strusciandosi lascivamente contro il suo internocoscia che, già sveglio da un po', cominciò a farsi ancora più presente.
Sas'ke si spingeva istintivamente verso di lei, i cui occhi non si allontanarono neppure per un secondo da quelli scuri di lui, se non quando si girava, stuzzicandolo con il suo fondoschiena perfettamente fasciato dai pantaloni attillati.
“Kami”, pensò l'Uchiha mentre i suoi movimenti si legavano a quelli di lei che si voltò di nuovo, accostandosi al ragazzo, le cui mani scivolarono sulle natiche della barista, prendendo a palparle con vigore e dalle labbra lucide della moretta fuoriuscì un gemito strozzato. Per darsi maggior piacere si avvicinò all'intimità dell'altro, sentendola decisamente consistente ed il suo sorriso soddisfatto si specchiò nel ghignetto malizioso di lui.
Il cervello di Sas'ke funzionava ad intermittenza. I corpi dei ballerini attorno a loro sembravano quasi eterei mentre l'unica cosa che non appariva soffusa era il volto di quella ragazza. Doveva cedere?
“Chissene frega!”, si disse. Di sicuro Itachi se la stava spassando, perché non avrebbe dovuto divertirsi anche lui?
La sua lingua si accostò all'orecchio di lei e ne percorse il guscio lentamente, facendo rabbrividire la compagna che si aggrappò alla sua camicia.
«Tsuitekoi1», le sussurrò lascivo, prendendola per mano e trascinandola bisognoso nel bagno degli uomini, chiudendo la porta non appena furono dentro.

Le piastrelle bianche li accecarono per un istante, ma il moretto non perse tempo e si fiondò sulle labbra della ragazza, impossessandosene con passione, mentre si strusciava contro l'allacciatura dei suoi pantaloni. Così, abbandonando le loro lingue ad uno sfrenato inseguimento, le mani della ragazza corsero a sbottonare i jeans dell'Uchiha, infilandosi direttamente nei suoi boxer, afferrando saldamente il membro teso di lui e prendendo a masturbarlo senza troppi complimenti, percependolo già leggermente bagnato.
Sas'ke ansimò, mentre quelle dita lo viziavano senza pietà e il desiderio gli stordiva la testa.
Risalì con le mani al top di lei, sollevandolo fino a mostrare i seni tondi e sodi. Non indossava neppure il reggiseno … il moro si leccò le labbra, separandosi da quelle della barista e attaccando il collo morbido.
«Sas'ke … », soffocò lei, stringendo la mano libera nei capelli appena ingellati del partner che le stava mordicchiando e lisciando la zona della giugulare.
Sentendo pronunciare il suo nome in quel modo – era sempre stato così erotico? - l'Uchiha s'indurì ulteriormente, lasciandole un vistoso succhiotto sulla pelle e superando l'ostacolo del tessuto plastificato, prendendo tra le labbra un capezzolo turgido e cominciando a stuzzicarlo con i denti, lappando la pelle dolce intorno al bottoncino di carne.
La ragazza liberò un lungo gemito di piacere e la sua stretta sul pene dell'altro si fece più salda, mandando una scarica di piacere al compagno, il quale temette di venire all'istante. Allungò il braccio per fermarla, con estrema fatica, mentre si dedicava all'altro seno, palpando quello appena lasciato.

I loro ansimi rimbombavano nel bagno, stordendoli ed eccitandoli di continuo.
«Sas'ke … aspetta … », lo pregò lei, e l'altro decise di accontentarla. La ragazza s'inginocchiò, abbassando definitivamente l'intimo dell'Uchiha e leccando lentamente la sua virilità, dalla punta alla base, per poi prenderla in bocca, mentre la sua mano gli stimolava i testicoli gonfi.
Il petto del ragazzo si alzava ed abbassava velocemente al pompare di lei, la gola arrochita dai gemiti. Quella lingua umida lo stava mandando letteralmente in estasi, veder sparire il suo cazzo in quell'altro caldo era incredibilmente eccitante. Era certo di star per avere l'orgasmo più soddisfacente della sua vita.
Le tirò i capelli per allontanarla, un filo di saliva e liquido seminale rimasto ad unirli. Le slacciò i pantaloni in un istante, abbassandole i tanga di pizzo nero e tornò alle labbra ed alla lingua dell'altra, assaggiando il leggero sapore del suo sperma, mentre due dita si facevano strada nella sua femminilità, preparandola. La sentiva ansimare nel bacio, senza un attimo di tregua e poco dopo le sollevò una gamba liscia, allacciandosela in vita; prese in mano il suo membro e portandolo all'entrata della compagna la penetrò completamente. Ai giovani si mozzò il respiro, alti gemiti si levarono e Sas'ke prese a muoversi, uscendo e riaffondando.
«Kami, sì!», lo incitò lei ed il ritmo si fece frenetico. Non avevano quasi il tempo di respirare, tra i baci famelici ed i continui e rochi ansimi.
Il moro non ce la faceva più: poche altre spinte e venne abbondantemente insieme alla ragazza. I liquidi viscosi presero a colare lungo le cosce di lei, ma i due amanti non vi fecero caso, mentre tentavano di recuperare fiato.

«Sei dannatamente bravo a fare sesso», si complimentò lei ridacchiando con un sospiro e facendo inconsciamente aumentare l'ego già spropositato dell'altro, che ghignò soddisfatto, mentre il suo cuore riprendeva pian piano a battere ad un ritmo regolare.
Infine Sas'ke uscì dalla ragazza e, afferrata un po' di carta, la ripulì con delicatezza, per poi fare lo stesso con sé. Si lisciarono i vestiti stropicciati e lei si riaggiustò l'acconciatura.

Quindi l'Uchiha aprì la porta e fece per uscire seguito dalla barista quando vide suo fratello, con una mano sul fianco di una ragazza dagli occhi chiari ed i capelli color miele, il cui corpo era elegantemente fasciato da un abitino argenteo, in tinta con i tacchi.
Itachi fece un sorrisetto - cui il minore rispose con un'occhiataccia – e si rivolse alla sua dipendente, con voce carica di sottintesi.
«Eccoti qui, Haruhi. I clienti mi hanno chiesto di te al bar, venendomi addirittura a disturbare», fece. «Torna subito di là». Era un rimprovero, ma carico di ironia e né Sas'ke né l'interpellata si fecero intimorire da quelle parole severe.
«Sissignore», rispose infatti lei, facendo l'occhiolino al suo datore di lavoro, e voltandosi per tornare alla sala, ma Sas'ke la fermò per un braccio, dopo aver memorizzato il nome della compagna con un ghignetto soddisfatto.
«E' una mia responsabilità, niisan. Un servizio speciale perfettamente svolto», la difese con nonchalance, mentre lei si portava la mano libera alla bocca, le labbra incurvate all'insù, per mascherare la risata.
Negli occhi di Itachi passò un lampo strano e sbuffò, cosa che il minore interpretò come un via libera e lasciò il braccio della barista.

«Tutto a posto, allora. Torno ai miei affari», sentenziò il maggiore e continuando a stringere a sé l'accompagnatrice per un fianco s'incamminò lungo il corridoio, fino a sparire su per la scala.
«Scusa per la seccatura», fece Sas'ke, ma Haruhi scosse la testa serena.
«Non c'è niente per cui ti debba far perdonare», corresse lei. «Anzi, tutt'altro».
L'Uchiha ghignò e si avvicinò alla compagna.
«Voglio rivederti», disse serio, facendola sorridere.
«Anch'io, Sas'ke. Ma possibilmente non in ambito “lavorativo” … ».
«Pensavo la stessa cosa», concordò lui.
La barista assunse un'espressione pensierosa, poi parlò. «Mmh … vieni».
Lo prese per mano, riconducendolo nel locale e, aggirato il dancefloor, tornò dietro al bar, mentre la collega le lanciava un'occhiata interrogativa che Haruhi ignorò e, preso un post-it ed una penna, vi scrisse velocemente una serie di cifre, per poi consegnare il foglietto al ragazzo dall'altro lato del bancone.
«In caso ti servisse».


Dopo quella volta, Itachi non dovette più chiedere al minore se desiderasse accompagnarlo allo Sharingan. Dopotutto, a detta di Sas'ke, “non era poi così male”.



おわり~





1: Seguimi. E' una sorta di tributo al filmato “When You Go Down” delle UchimakiPro – cosplayer che adoro.

Link EFP nel titolo
view post Posted: 9/1/2015, 19:49 «Ma io sono Itachi Uchiha!» - Fanfiction non DN

«Ma io sono Itachi Uchiha!»





La lunga ed elegante limousine color petrolio frenò dolcemente di fronte al locale. Giovani ed adulti in cerca di divertimento si affannavano all’entrata, mentre i due armadi a tre ante – che poi erano i buttafuori – cercavano di contenere la mandria che smaniava di scatenarsi sul dancefloor e abbordare al bancone.
Itachi osservava la calca con un sorrisetto, soddisfatto del successo del suo locale, lanciando con lo sguardo una frecciatina al fratello, il quale preso com’era da Naruto non ci fece caso. Kiba scherzava con Sai, mentre Neji e Shikamaru osservavano distrattamente gli altri.
Ad un certo punto bussarono al finestrino oscurato: Itachi abbassò il vetro e l’autista, un giovane sui vent’anni piuttosto carino, sorrise affabile e accennò con un movimento del capo al locale dietro di sè.
«Arrivano».
Di lì a due secondi sotto le gigantesche luci rossastre dell’insegna che recitava Sharingan’s Club comparve un gruppo di ragazze agghindate con divise alla marinara, un po’ troppo grandi per poter frequentare ancora il liceo. Itachi si affrettò ad aprire la portiera, il suo battito d’improvviso più rapido alla vista della fidanzata, mentre un movimento alle sue spalle gli segnalò che anche gli altri scendevano dall’auto per fare i cavalieri.
Notò con la coda dell’occhio chiome bionde, castane e rosa sparire dietro di lui, finché accanto alla ragazza che non riusciva a smettere di fissare non restava solo la promessa sposa. Kiba raggiunse Hinata col cuore in gola, trattenendosi dall’istinto di appartarsi con lei in un qualsiasi posto e si limitò a baciarla con passione, prendendola in braccio e portandola fino all’auto.
L’Uchiha, rimasto in piedi, si decise ad avvicinarsi alla moretta e le sfiorò velocemente le labbra.
«Ehi», fece lei allegra, trattenendo la bocca dell’altro contro la propria.
Un languore si fece rapidamente strada nello stomaco dei due, che però non poteva ancora essere placato.
«Voi due, quelle cose fatele a casa vostra!», li richiamòNaruto con una risata, beccandosi uno scappellotto da Sas’ke, mentre Kiba replicava con un: «Senti chi parla» e Neji rembeccava sentenziando un: «Da che pulpito». Entrambi, imbarazzati, tornarono a sedersi sui divani in pelle nera e l’ultima coppietta si unì a loro.
Shikamaru diede l’indirizzo all’autista, che partì sgommando ed i ragazzi presero a servirsi drink e snack, le luci soffuse, la musica bassa e stimolante.
Un brindisi dopo l’altro, una bottiglia dopo l’altra, erano sempre più allegri. Solo i due Hyuuga e Nara si astennero.
«Agli sposi!».
«Alle limousine!».
«Alla tequila!».
«Al sesso!».
«Agli spogliarellisti!», brindò Elisa, facendo scontrare il proprio calice con quello di Temari ed ingoiando il liquido ambrato.
Itachi la guardava con un cipiglio che sembrava di rimprovero, mentre i convitati salutavano gli altri mano a mano che giungevano alle proprie case.

Infine fu il turno dell’Uchiha maggiore di fornire la destinazione allo chauffeur.
«Ma è fuori città, ci vorrà almeno un’ora!», notò quello.
Tuttavia Itachi non replicò e tirò su il finestrino interno.
Elisa era ancora su di giri, un sorriso enorme stampato in volto. Si sdraiò contro la spalla del fidanzato e sospirò entusiasta, cominciando a gesticolare.
«Oooh, Itahi, è stato fantastico!». Risata. «E gli spogliarellisti, dovevi vederli, erano così sexy...».
Al ragazzo venne un tic all’occhio e bloccò i polsi della giovane, guardandola negli occhi grigio tempesta, tra il comprensivo e l’irritato.
«Quanti bicchieri hai bevuto?».
«Mah, sette... otto, forse di più... che importa!».
Il moro la lasciò e la strinse tra le braccia, dandole un bacio sui capelli ed accarezzandola.
«Sciocca, lo sai che non reggi l’alcool...».
Lei si indispettì e svicolò dalla presa.
«Massì che lo reggo, sto benissimo!».
L’espressione di Itachi era inequivocabile: sotto il peso di quello sguardo, Elisa si sentì un po’ in colpa, decidendo di scioglierlo un po’.
Riavvicinandosi, si strusciò contro il petto di lui, sporgendo bene in fuori il seno stretto nella camicetta da scolara.
«Dai Itachi, non fare il difficile...», miagolò languida, accarezzandogli il torace con un indice, cosa cui l’Uchiha non rimase indifferente, ma che decise di ignorare. Notando un’apparente mancata reazione, la ragazza prese a leccare lascivamente il collo del fidanzato ed esultò interiormente quando udì un unico, roco sospiro. Le mani di lui andarono ad insinuarsi nei capelli lisci della compagna, scendendo lentamente sulla nuca – la pelle ghiacciata provocò un brivido d’eccitazione ad Elisa – attraverso il cotone leggero e sintetico della blusa, proseguendo il loro corso.
Lei, entusiasta di come stava andando, slacciò senza contenersi troppo i bottoni della camicia del moro e sostituendo l’abbandono del tessuto con la propria bocca. Sospirò, l’eccitazione che cresceva sempre di più. La pelle di Itachi aveva un odore così... invitante. Non si trattenne e mentre mordicchiava i capezzoli bruniti ed Itachi le sollevava la minigonna palpandole il fondoschiena, le dita della ragazza si affrettarono ad abbassare i pantaloni ed i boxer dell’Uchiha, trovandosi di fronte al membro teso e turgido di lui. La salivazione aumentò, gli occhi le pizzicarono di bramosia. Calò su quell’asta che in un istante sparì tra le sue labbra, esperte ed avide di accoglierla. Succhiava, e Itachi gemeva. Leccava, e Itachi ansimava. Pompava, toccava e stuzzicava, e Itachi implorava e chiedeva di più.

Quando poi Elisa dovette riprendere fiato, si ritrovò subito la bocca impegnata da quella dell’altro che la divorava vorace. Si sentiva accaldata, il cuore batterle furiosamente nel petto mentre la lingua di Itachi non le dava tregua, lisciandole la sua, sfiorandole il palato e le guance.
Il bacio passionale lasciò entrambi senza respiro e mentre si reggevano l’una all’altro e si ansimavano nelle orecchie, Itachi sussurrò con voce roca: «Comunque sei davvero eccitante vestita così», e le morse il lobo, strappandole un flebile gemito di protesta.
Le mani di lui ora desideravano solo spogliarla, ma nella frenesia i bottoni non volevano saperne di uscire dalle asole. L’Uchiha armeggiò con quegli arnesi infernali finché non perse la pazienza e le fece sfilare la camicetta dalla testa, provvedendo subito al reggiseno.
Elisa si accomodò su una gamba di lui, la minigonna che scopriva un’ampia porzione di coscia e gli agganci delle autoreggenti dal bordo di pizzo, mentre il moro affondava il viso nel seno di lei, stringendo una delle protuberanze ed indurendosi al vederla gonfiarsi tra le mani, al sentire sulla lingua il capezzolo inturgidirsi, nelle orecchie gli ansimi della fidanzata vogliosa, le sue dita nella lunga chioma ormai sciolta dell’Uchiha.
Itachi non sapeva dove palparla, avrebbe voluto possedere almeno cinque o sei mani in più. Passava dal seno, ai fianchi, alle natiche senza sapere dove soffermarsi, finché non decise che i tanga, seppur, striminziti, erano di troppo: il suo membro, scoperto, sfregava contro la femminilità ancora celata di lei e non riusciva più a trattenersi: la ragazza si sollevò, aiutandolo a sfilarle la mutandina di pizzo e finalmente il corvino poté godere della morbidezza di quella pelle. Il suo lungo ed eccitato sospiro venne intrappolato dalla bocca di Elisa, che lo divorava affamata. Gli succhiava le labbra senza freno e condusse la lingua umida dell’altro in uno sporco bacio a bocca aperta.
Saliva, umori, sudore. Musica sensuale. Luci basse. Caldo.
Itachi agguantò le cosce della compagna, le tirò e lei si ritrovò con la schiena al sedile, semisdraiata, le gambe avvolte al collo del ragazzo e la sua vulva pronta a bagnarsi.
Ed ecco che Itachi cominciava a leccargliela e lei gemeva forte, la gola secca, senza forze, eccitata, mentre l’Uchiha la guardava negli occhi e l’aria si caricava di sesso.
La punta della lingua del moro era implacabile, la viziava, la stuzzicava senza pietà, e gli ansimi saturarono l’abitacolo. Poi le sfiorò il clitoride ed Elisa per poco non esplose.

«Aaaah!... Itachi... basta... giocare...!».
Le sue unghie raschiavano le spalle del compagno, strappandogli ulteriori gemiti e decise che era d’accordo con lei e ne aveva abbastanza.
La tirò su e facendola sedere sul proprio bacino, entrò completamente in lei.
«Aaaah!».
Cominciarono subito a muoversi, la voglia era costringente.
Spinta.
Tum-tum. Tum-tum.
Caldo.
Tum-tum. Tum-tum.
Morbido.
Tum-tum. Tum-tum.
Invitante.
Guidava i movimenti della ragazza con i propri, il ritmo frenetico li stordiva, li eccitava ed entrambi sapevano che non sarebbero durati ancora a lungo.
«Sì! Itachi! Sììì!».
Elisa ansimava senza ritegno, impalandosi con libido sempre crescente, il pene di Itachi che centrava continuamente un suo punto erogeno che la mandava in estasi.
Uno, due, tre.
I due amanti esplosero, i propri liquidi si mischiarono, i loro gemiti si armonizzarono, accompagnandosi con le ultime spinte.
Infine, sudati ed ansanti rimasero aggrappati l’una all’altro, gli odori pungenti nelle narici, la pelle appiccicosa ed accaldata che li stordiva.
Itachi prese a cullare Elisa, accarezzandole i capelli, mentre lei gli baciava il collo e lo stringeva a sé.
Rimasero abbracciati per un tempo indefinito, finché ad un certo punto il moro riconobbe fuori dal finestrino un viale familiare. Lo fece notare alla fidanzata ed in silenzio si rivestirono, scambiandosi maliziose occhiate d’intesa.
Tempo cinque minuti e l’elegante limousine parcheggiò di fronte all’entrata di Villa Uchiha.
Lo chauffeur scese e corse ad aprire la portiera ai passeggeri, che uscirono con un cenno di ringraziamento verso di lui. La ragazza si stiracchiò, mentre l’autista tornava al posto di guida.
Itachi si avvicinò al finestrino e bussò con le nocche.
«Quanto ti dobbiamo?».
Quello scosse il capo e le mani e sorrise furbo.
«Nulla». E fece loro un occhiolino per poi rialzare il vetro oscurato e fare retromarcia.
Rimasti soli, Elisa soffocò una risata al vedere il viso rosso di imbarazzo del compagno, il quale guardava ovunque meno che verso di lei. La giovane si avvicinò, gli schioccò un bacio a fior di labbra e prendendogli la mano, si diressero a casa.


*_*_* ItaEli *_*_* Merry Xmas *_*_* ItaEli *_*_*




«Kanpai!».
Il tintinnio dei calici risuonò per tutto il giardino e dopo la prima sorsata il chiacchiericcio si riaccese.
«E quindi Costantino non vi ha fatto pagare nulla perché...?», chiese Naruto allegro mentre Kiba si sporgeva per ascoltare.
«Già», confermò Elisa con una risata, portando nuovamente il bicchiere alle labbra.
La cerimonia era stata organizzata nel parco degli Hyuuga, abbastanza ampio da poter ospitare almeno il doppio delle persone che in quel momento vi si trovavano. E non erano poche.
«Ehi, ma il lancio del bouquet?», domandò ad un tratto un’entusiasta Ino, mentre altre ragazze cominciavano a ridacchiare.
Sakura si avvicinò alla sposa con un sorriso sereno di incoraggiamento. Il corpo snello fasciato da un abito color pesca al ginocchio, una ciocca rosa le scivolò sulla guancia, scappata dal fermaglio adorno di fiori chiari. Hinata si voltò verso l’amica e ricambiando l’espressione radiosa annuì, alzandosi in piedi. Hanabi la raggiunse, sollevandole lo strascico e la accompagnò al centro del giardino, mentre venivano raggiunte da Kiba e Shino.
Sakura abbracciò Hinata, dopodiché si voltò verso la folla.
«Tutte le ragazze single o non maritate qui per favore!».
Una decina di giovani donne si accalcò di fronte a lei, bramose il mazzo di fiori.
Elisa si voltò verso Itachi, facendogli un occhiolino e il segno della vittoria per poi riportare l’attenzione sulla mora ed il marito.
La giovane si girò di spalle e dopo un attimo di pausa lanciò il bouquet, che sorvolò il parto perfettamente curato, seguito dagli occhi dei convitati e raggiunse il gruppo di aspiranti promesse spose. Venti braccia si sollevarono, pronte ad afferrare la promessa matrimoniale e...
«Oh, ma tu pensa!», esclamò Elisa.
Nel parco risuonò un applauso, poco dopo accompagnato dai fischi di apprezzamento del pubblico maschile quando Kiba sollevò l’ampia gonna dell’abito della moglie per lanciare la giarrettiera.
Haruno scosse il capo e abbracciò la fortunata vincitrice.
«Omedetoo! (1)».
«Arigatoo, Sakura-chan!».
Sas’ke sbuffò scocciato all’idea che la ragazza sarebbe entrata a far parte a tutti gli effetti della famiglia, ma il maggiore gli diede uno scappellotto che fece erompere Naruto e Sakura in una fragorosa risata.


Quando anche le ultime luci del crepuscolo sparirono gli sposi vennero accompagnati nella villa per cambiarsi e prepararsi alla luna di miele, lasciando gli invitati a ballare nell’ampia veranda.
Poi il suono di un clacson richiamò amici e parenti che corsero ad accalcarsi sul vialetto per salutare i novelli sposi.
«Fate buon viaggio!».
«Divertitevi!».
«Dateci dentro!».
L’auto partì tra i battimani e le lacrime di orgoglio ed Elisa cinse Itachi in vita, stringendo il bouquet fra le dita.
«Spero davvero che siano felici».
«Anch’io», concordò il moro abbracciando la ragazza. «E chissà, forse anche il nostro momento non è poi così lontano...».


おわり~




1Congratulazioni!


Link EFP nel titolo
view post Posted: 9/1/2015, 19:48 Kyoudai - Fanfiction non DN

KYOUDAI




Mia sorella non era mai stata una ragazza molto espansiva: era dolce, gentile e sempre disponibile ad aiutare gli altri, ma anche estremamente timida.
La ammiravo moltissimo, pur essendo totalmente diversa da lei, per il suo aspetto, per i modi, perché non sarei mai stata così pacata e tranquilla. Io ero invece una specie di maschiaccio, casinista ed estroversa, ma entrambe eravamo riuscite a farci degli amici che si sopportassero.
Tuttavia, ero contenta di come fossi e non volevo assomigliarle, ma avere quelle qualità solo per me: fin da quando ero piccolissima era sempre stata lei a prendersi cura di me, stavamo sempre insieme e finii per sviluppare nei suoi confronti un affetto troppo morboso, tanto che una notte arrivai a sognare di baciarla, sfiorare quelle labbra probabilmente morbidissime.
La cosa mi lasciò parecchio turbata, e ciò che più mi sconcertava era che l'idea non mi dava neppure fastidio, anzi... mi ritrovavo a pensare a lei sempre più spesso, e ad essere gelosa.
Ero sempre stata più grande della mia età, quindi ogni tanto frequentavo anche i suoi amici, tra cui anche nostro cugino Neji, l'unico a conoscenza dei miei pensieri su Hinata. Era un buon confidente ed un ottimo ascoltatore, anche se non approvava viste le sue convinzioni, ma non rifiutava mai di assistere ai miei sfoghi. Non erano i miei desideri il problema.

Il problema si chiamava Uzumaki Naruto, al cui nome rispondeva un ragazzo abbronzato, biondo ed esuberante, per il quale mia sorella aveva una cotta. Anzi, diciamo pure che ne era innamorata, e questo mi seccava alquanto Non tanto per il fatto in sé quanto perché Hinata diceva di adorare – oltre ai suoi occhi azzurro cielo – la sua determinazione e capacità di non arrendersi mai. Insomma, era caratterialmente identico a me. Per carità, non avevo nulla contro Naruto, ero certa che saremmo potuti essere ottimi amici non fosse per quel piccolo dettaglio, solo che era praticamente cieco e non si accorgeva di tutte le attenzioni che Hinata riservava per lui, dandole corda e coccolandola come fosse un cucciolo, probabilmente a causa del carattere di lei. La cosa peggiore era che a Naruto piaceva un'altra persona, ma anche se mia sorella l'avesse scoperto, avrebbe desiderato solo la felicità del biondino.


Il tempo passava e la situazione non si era smossa di un millimetro: io che desideravo Hinata e lei che sognava Naruto.
Una sera Neji diede una festa alla sua villa, invitandoci tutti. Rimanemmo tutti stupiti dal fatto che avesse organizzato un evento del genere, ma lo giustificò illustrando che in realtà l'idea era di Kiba e che lui aveva solo messo a disposizione la casa, dal momento che il suo appartamento non consentiva di ospitare troppe persone.
Alle 20:00 Naruto e i suoi migliori amici Uchiha Sas'ke e Haruno Sakura erano passati a prenderci con la lucente ed elegante berlina del moro, per poi recarci insieme da nostro cugino.
Le luci erano già accese e la musica talmente alta da raggiungerci fin nell'abitacolo dell'auto. Naruto scese per primo, aprendo con una risata la portiera di Sakura, che scese divertita, per poi attendere che anche io ed Hinata uscissimo dalla macchina. Posai i piedi sull'asfalto per prima, tenendo la mano di mia sorella per aiutarla a raggiungermi, mentre lei arrossiva e balbettava un grazie.
Kami, no! Ammetto che vedere le sue guance imporporate era parte della causa del mio gesto, ma la cosa mi fece eccitare e avrei preferito evitarlo visto e considerato anche il suo abbigliamento.
Ringraziammo Sas'ke per il passaggio e salutato Neji che ci era venuto incontro con un'aria che la diceva lunga, prendemmo parte alla festa.


Ooh, Kiba me l'avrebbe pagata cara! Non sapevo come né perché ma era riuscito a convincere Hinata a bere. Diavolo, mi ero distratta solo un secondo per parlare con TenTen e quell'idiota si era messo a provocarla! Non solo era astemia e l'alcool le dava subito alla testa, ma l'Inuzuka si era anche azzardato a farle i complimenti sull'abito – e la scollatura in particolare – suggerendole che questa era la sera giusta per dichiararsi al biondo.
Vedere la mia adorata sorella, sempre così riservata, avvicinarsi più spigliatamente del solito ad un Naruto intento a scherzare con Rock Lee e richiamare il suddetto biondo con voce seria e sicura era stato da brividi.
«Naruto-kun posso parlarti un attimo?». I suoi occhi color perla non erano mai riusciti a non separarsi da quelli celesti di lui per così tanti secondi, infatti il ragazzo, dapprima disorientato, aggiustò le labbra in un sorriso a trentadue denti e appoggiò una mano sulla spalla di Hinata, posando il bicchierino di Bacardi che stava sorseggiando su un tavolino.
«Ma certo, dimmi pure!».
Mia sorella lanciò un'occhiata eloquente a Lee e quello si dileguò borbottando qualcosa sul voler chiedere a Sakura di ballare, per poi notare che la rosa era già avvinghiata a Sai e portarsi via l'intera bottiglia che stava dividendo col biondo.
Finalmente soli, Hinata prese un respiro profondo e senza distogliere lo sguardo da quello del ragazzo confessò i sentimenti che provava nei suoi confronti.
«Naruto-kun no koto ga... dais'ki da (1)». E si sporse in avanti per baciarlo.
Dovrei ringraziare Neji che proprio in quel momento mi urtò, facendomi girare e vedere l'ultima scena a cui avrei mai voluto assistere. Mi cadde il bicchiere a terra, ma non ci feci caso, totalmente sotto shock, mentre Kiba se la rideva della grossa.
Il biondo, stupefatto, sgranò gli occhi e con delicatezza sospinse mia sorella all'indietro, separandosi dalle labbra di lei, con un'aria imbarazzata e colpevole insieme.
«Gomen ne, Naruto-kun... watashi... (2)», balbettò Hinata rendendosi conto di cosa il rifiuto del ragazzo volesse dire.
«No, Hinata, tranquilla. Sono, ecco... lusingato di piacerti, ma... ». Il suo sguardo corse tra la folla fino ad incontrare un paio d'occhi d'onice e lo abbassò.
«Wakatteiru (3)».

I due guardavano in direzioni opposte. A quel punto mi sbloccai, scossi la testa e avanzando verso mi sorella, la afferrai delicatamente per una mano senza badare al biondo e la trascinai a passo rapido attraverso il salone, puntando al piano superiore. Quando fummo vicino all'Inuzuka ne approfittai per fulminarlo e quello capì che avrebbe fatto meglio ad espatriare entro cinque secondi.
Una volta di sopra aprii la stanza degli ospiti dove eravamo solite dormire quando andavamo da Neji e la chiusi a chiave, mentre Hinata si torceva le mani, l'espressione mortificata.
«Neesan che ti è saltato in mente? Perché hai dato retta a quell'imbecille?», esplosi infine. Non volevo essere così brusca, ma mi sentivo tradita e arrabbiata, così l'impulsività mi fece parlare. Lei si morse le labbra; a quel gesto avvertii uno strappo dalle parti dello stomaco, che cercai di tenere a bada, e mi avvicinai, prendendola per le braccia.
«Doushite?! (4)», chiesi nuovamente, scuotendola. Anche se avevo cinque anni meno di lei, eravamo alte uguali, perciò quando sollevò il capo e mi immersi nelle sue iridi color perla non dovetti alzare la testa. Lei mi scostò, accigliandosi.
«Perché non ce la facevo più, Hanabi! Anche se Naruto-kun non mi avrebbe ricambiata volevo che lo sapesse! Volevo baciarlo almeno una volta!».
Sgranai le palpebre, scaldandomi.
«Ma perché lui, Hinata? Perché quando hai già me?».
La sua espressione si fece confusa.
«Che vuoi dire?».

“Ora o mai più!”, mi dissi, e la baciai.
Kami, le sue labbra erano più tenere e dolci di quanto avessi mai immaginato, meglio di ogni sogno che avesse mai popolato le mie notti. Più le assaporavo, più desideravo continuare. Le mie mani scivolarono lungo il raso dell’abito succinto, saggiandone i fianchi sottili, stringendoli per poi risalire lungo la schiena sinuosa ed abbassare la zip, la fretta palpabile. Quando ormai i due lembi di tessuto erano separati ed aperti, Hinata si scostò impaurita, stringendosi l’abito contro il seno prosperoso, rossa in viso, tentando di coprirsi, cosa che non fece altro che aumentare la mia voglia di lei.
«Che stai facendo, Hanabi?», balbettò, mentre le prendevo le mani e gliele inchiodavo ai lati della testa, strusciandomi contro di lei e baciandole il profilo della mandibola fino a giungere alla pelle morbida del lobo per mordicchiarlo. Non riuscivo a fermarmi, ora che ne aveva avuto un assaggio desideravo anche il dolce.
Tuttavia, quando mi accorsi che mia sorella tremava ed era sul punto di piangere mi fermai spaventata e la chiamai.
«Hinata?».
Si morse le labbra.
«Hinata!».
Le lascia i polsi e la abbracciai forte, respirando profondamente, lasciandomi circondare dal suo profumo. Aveva paura, era evidente. L’avevo turbata e non era mia intenzione. Mi allontanai da lei dandole le spalle, i miei intenti iniziali svaniti.
Cosa mi era saltato in mente?! Era mia sorella, mia sorella...

Non avevo neppure la forza per chiederle scusa. Serrai le palpebre ed i pugni, indecisa sul da farsi: dovevo tornare giù e far finta di nulla?
«Hanabi», sussurrò una vocina bassa, alla quale seguì una mano leggera posata sul braccio. Un brivido mi corse lungo la schiena. Mi voltai a guardarla, confusa e colpevole, nelle iridi perlate.
«Scusa, non ce la facevo più a tener dentro ciò che provo per Naruto-kun, dovevo dirglielo!», esclamò sicura. «Ma al suo rifiuto ho capito che non avrei avuto alcuna speranza...». Mi guardò convinta negli occhi. «Voglio dimenticare, Hanabi, non mi importa come. Dimenticare ed andare avanti».
Me lo stavo immaginando, di sicuro.
«Mi potresti fare questo favore?».
Il suo sguardo era quasi implorante.
Feci un passo avanti. Un altro. Ora i nostri volti erano di nuovo a pochi centimetri di distanza. Le sollevai il mento, prendendolo fra due dita e mi avvicinai finché non potei sentire il suo fiato sulla lingua. Non ce la feci più.
La baciai di nuovo, stavolta più piano, più dolcemente, stringendola a me ed accarezzandole la schiena nuda. Era assurdo, ma quella pelle liscia mi eccitava da morire. Hinata si alzò in punta dei piedi e si strusciò contro di me, scoprendo il seno, e sentii il suo cuore battere forte.

Tum tum. Tum tum.

Anche le mie pulsazioni aumentarono quando allacciò le braccia al mio collo, sciogliendomi i capelli per poi ridiscendere lungo le scapole e tirando il tubino color notte che indossavo verso il basso, slacciandomi il reggiseno a fascia finché non rimasi solo con le mutandine. Dio, mi sentivo terribilmente bagnata e vogliosa.
Le mie mani andarono a palparle le natiche, mentre le sollevavo la gonna dell’abito argenteo che la copriva, facendoglielo passare sopra il capo e lanciandolo in un angolo.
Ci guardammo, le guance arrossate, riprendendo a baciarci con foga, le lingue che si cercavano continuamente mentre l’abbraccio in cui ci stringevamo faceva sfregare i nostri capezzoli turgidi gli uni contro gli altri, strappandoci gemiti di piacere. Hinata ansimò e ne approfittai per dedicarmi al collo e al décolleté, stringendo quelle colline morbidissime tra le mani e sentendo l’immediato ed urgente bisogno di spogliarmi completamente.
“È abbastanza!”
Mi sfilai quell’ultimo pezzo di stoffa per poi sospingerla sul materasso, farle divaricare le gambe e liberando anche lei del pizzo inutile.
Quante volte l’avevo vista nuda da bambina? Non me ne ricordavo, ma non avevo mai desiderato tanto il suo corpo.

Gattonai sopra di lei leccandomi le labbra mentre le sue mani si dedicavano al mio sedere, e presi fra le labbra uno dei bottoncini di carne, facendola gemere in un modo che andò solo ad aumentare la mia voglia.
Mi chiesi distrattamente quanto avrei ancora resistito, ma senza pensarci più di tanto, il mio cervello totalmente scollegato. Poi Hinata spostò le dita, percorrendomi la fessura tra le natiche fino a giungere alla mia apertura.
Mi scostai di scatto, guardandola stupefatta, ma il suo viso, seppur arrossato, non diede segnali di alcun tipo: il suo indice prese ad accarezzarmi la vulva, a sfiorarmi il clitoride, facendomi cedere contro il suo seno invitante. Tentai di reggermi piantando gli avambracci sul letto, ma era difficile: sarà che ero già fradicia, ma quel dito scivolava ogni volta un po’ più dentro, finché non si immerse completamente dentro di me, senza smettere di muoverlo.
«Ah!», sgranai gli occhi, mentre l’indice continuava la sua esplorazione, appagante ed insufficiente al contempo. Presi a spingermi contro quell’indice, cercando di darmi maggior piacere, ma Hinata non ne inserì altri, così tenendomi si una sola mano, scesi a saggiare il ventre piatto, insinuando un dito nell’ombelico e premendo. Hinata reclinò di scatto la testa all’indietro, tappandosi la bocca da cui era sfuggito un gemito roco. La guardai, ma non si scoprì.

“No, ora che ti ho sentita non ti darò tregua, neesan”, e presi a spingere più forte. Ansimava senza ritegno sotto al palmo, mentre continuavo ad andare incontro al dito di lei, ancora dentro di me, sentendolo sfiorare le pareti interne.
Ad un certo punto allentai il ritmo ed il dito scorse fino alla sua femminilità, umida ed invitante.
Dio, sentivo il suo liquido ovunque. Un sospiro tremante, mentre le pizzicavo il clitoride.
«Ah», squittì, cercando di scostarmi le dita e serrando le gambe, ma io continuai, sfregando il palmo contro le labbra del suo intimo e posizionare indice e medio sull’apertura pulsante, per poi infilarli dentro.
Il corpo di Hinata si tese come una corda, formando un arco ed aprì di nuovo le gambe.
«Hanabi...».
“Non pronunciare il mio nome così...”.
Volevo solo farla impazzire, anche se stavo facendo la stessa fine che avevo previsto per lei: quelle pareti si contraevano, umide, contro i miei polpastrelli che scivolavano dentro e fuori con una facilità che mi mandava in estasi. Le muovevo sempre più velocemente, stordita dalle sue urla di piacere, dal suo corpo che si contorceva.
Allungai una mano, palpandole il seno sinistro mentre continuavo a penetrarla con forza sempre maggiore.
«Hanabi!».
Le tappai la bocca con la mia ed il bacio fu bagnato, sporco, lussurioso. Le morsi le labbra e finalmente inserì un altro dito in me.

Ci davamo piacere a vicenda, sempre più vicine al punto di non ritorno, i nostri corpi sudati ed allacciati scossi da brividi.
Quando poi aggiunsi un terzo dito, Hinata perse la testa.
«No...! Aaah!... Hanaah... bi! … Bastaaah...!».
Ma la ignorai, volevo che provasse tutto il piacere possibile.
Scesi con la testa fra le sue gambe, sfilando le dita e compiacendomi del suo brontolio di disappunto, prendendo a leccarle la vulva, mentre l’indice insisteva sul clitoride.
«Hanabi... aaah!».
Sentivo i suoi umori colare continuamente sulla mia lingua, ero certa di star per venire anch’io solo a guardarla, era troppo erotico vederla contorcerci...
Le bloccai una gamba ed infilai la lingua in lei.
I nostri ansimi rimbombavano sui muri, ci stordivano, ci eccitavano...
«Hanabi...!».
Mi ritrassi, tornando a mordicchiarle le labbra, succhiarle la lingua mentre continuavo a masturbarla con le dita.
«Hanabi sto per...!».
E sentii le dita e me stessa più bagnate che mai.
Esplodemmo insieme, i movimenti delle nostre falangi sempre più rapidi che accompagnavano i nostri gemiti lunghi e profondi.
Non ci curammo del copriletto sporco del nostro piacere, né delle nostre dita umide e ricoperte di liquido gelatinoso, ma solo di noi. Hinata si raggomitolò contro il mio petto, premendo le guance contro il mio seno e sospirò soddisfatta.
Se non fossi stata tanto esausta il contatto mi avrebbe stuzzicata ancora, ma non avevo la forza di muovermi né di ripulire.
Hinata già respirava lentamente, profondamente addormentata. La guardavo sorridendo, il visino arrossato e le labbra dischiuse e lucide che mi invogliavano a baciarla piano e coccolarla, stringerla a me per farla sentire al sicuro. Le presi una mano e, baciatola, me la strinsi contro il petto, abbandonandomi al sonno.
Alla festa avremmo pensato l’indomani.


おわり~





1)Naruto-kun... sono innamorata di te...
2)Mi spiace Naruto-kun, io...
3)Capisco
4)Perché?!
view post Posted: 9/1/2015, 19:47 Bijutsu wa... - Fanfiction non DN

Bijutsu wa...






“Maledetto quel Kakashi e maledetta pure l’Akatsuki!”
Deidara era particolarmente nervoso. Da giorni camminava senza sosta verso il villaggio più vicino, con quel dannato braccio fuori uso.
Come fosse uscito dal Kamui dell’Hatake non voleva saperlo, gli bastava essere ancora in vita per potersi vendicare. La cosa che più lo mandava ai pazzi però era che ancora una volta un doujutsu aveva battuto la sua arte, la sola che valesse la pena di essere venerata!
Non vedeva l’ora di riprendere possesso del suo braccio maciullato ed aveva supposto che ci avrebbe pensato Kakuzu – Kami, quell’uomo certe volte era davvero inquietante! - e invece no! Lui e quel fanatico religioso ed irritante del suo compagno erano in missione, quindi avrebbe dovuto cavarsela da solo, ricorrendo ai vecchi metodi. Il giorno in cui Kakuzu avrebbe anteposto una qualsiasi cosa ai suoi amati soldi sarebbe crollato il mondo, ne era certo.

Finalmente entro sera scorse dei tetti all’orizzonte e nel giro di mezz’ora giunse alle porte di un villaggio anonimo. Non sapeva se vi vivessero ninja o meno ma non gli andava di vanificare tutti i suoi sforzi quindi per evitare problemi lasciò coprifronte e cappa nel cavo di un albero.
Si era rifiutato di pensare che l’ospedale di un minuscolo agglomerato come quello fosse al completo ed aveva avuto ragione. Tuttavia non si aspettava che il chirurgo fosse occupato, perciò per finire a sua volta sotto i ferri avrebbe dovuto aspettare. La sua espressione omicida doveva dirla lunga, perché la centralinista gli diede una camera nel giro di niente, accompagnandolo persino all’ingresso del corridoio dove avrebbe alloggiato ed avvertendo il reparto.
«Mi scusi, lei è il paziente della 707, vero?».
A parlare era stata una delle infermiere. Deidara si voltò, scrutandola da capo a piedi con le iridi azzurre per poi rispondere un: «Uhn».
«La stavo aspettando».
Lo condusse all’interno, in una stanza come le altre, anonima.
«Tifa to iimasu (1). Sarò la tua infermiera». Un piccolo inchino che le fece ricadere i boccoli scuri oltre le spalle.
«Iwa Deidara desu (2)», fece lui distrattamente.
La giovane sorrise, probabilmente non era la prima volta che aveva a che fare con pazienti del genere. Pose al biondo qualche domanda riguardo lo stato della parte lesa per poi sciogliere le bende. Al prendere atto delle condizioni del braccio sgranò gli occhi: era una delle peggiori ferite che avesse mai visto. Pensò bene di non illustrare la situazione al ragazzo di fronte a lei, passando praticamente al programma.
«Allora, Iwa-san. Kiite kudasai (3). Con una ferita del genere dovremmo ricostruire tutto l’avambraccio. Sarà un lavoro lungo e difficile, pertanto le chiedo di portare un po’ di pazienza. Domani stesso verrà operato, ma per la convalescenza temo dovrà restare qui per un certo periodo».
Lo sguardo id Deidara si assottigliò, ostile. Non aveva proprio voglia di sprecare mezzo mese in un ospedale. Stava già per protestare quando l’infermiera bloccò il suo tentativo di replicare.
«Onegaishimasu (4)». I suoi occhi erano castani, grandi e caldi. Probabilmente era il classico tipo che teneva davvero a chi curava. Il biondo la osservò di nuovo, fissando le iridi color cioccolato di lei. Aggrottò le sopracciglia e sbuffò irritato la conferma.
«Uhn. Va bene».
Decisamente, la sua irritazione stava per sfiorare il picco.

L’operazione era andata sorprendentemente bene visto e considerato dove era stata svolta.
“Chi l’avrebbe mai detto”, pensò sarcasticamente Deidara scrutando il soffitto candido della camera.
L’avevano imbottito di anestetici, ma sentiva un certo pizzicore ed un leggero fastidio ai muscoli che gli faceva venir voglia di stirarseli. Resistette all’impulso.
Toc Toc!
«Shitsureshimasu (5)».
Tifa-san entrò, richiudendosi la porta alle spalle e reggendo la cartella clinica dell’interessato tra le mani.
«Come si sente?».
«Niente di esageratamente doloroso».
«Ii desu nee (6)».
Si avvicinò alla flebo, controllando il sacchettino colmo di liquido e farmaci trasparenti, picchiettandolo con le dita. Deidara la osservava da sotto la frangia, ma il braccio di lei gli impediva si vederne il volto, così i suoi occhi corsero lungo il camice bianco che risaltava la vita stretta della donna e buona parte delle gambe lisce e snelle.
«Faranno effetto tra un po’, poi sentirai sonnolenza».
Uno sbuffo. Tifa lo guardò e si sporse verso di lui.
«Non posso fare niente per renderti il soggiorno più gradevole?».
Il biondo assunse un’espressione pensosa per coprire il fatto che il suo sguardo era caduto sull’allacciatura superiore del camice.
«A meno che tu non faccia saltare in aria un’ala di questa clinica, no. Niente».
Lei rise, cosa che lo irritò.
«E cosa ci sarebbe di così esilarante?».
«Non ho parlato di divertimento. L’esplosione è arte».
Gli occhi da cerbiatto di lei danzavano allegri. Il biondo non capiva se fosse davvero interessata o se amasse troppo il suo lavoro.
«In genere le persone non considerano un fungo di fumo o delle macerie “arte”», commentò serafica.
Deidara si mise sulla difensiva.
«E sentiamo, allora, cosa sarebbe l’arte, uhn?».
«La medicina».
Lui era scettico, pertanto la giovane continuò.
«L’arte è il bene ed il bello. La medicina non rispecchia forse questo?», chiese quasi sovrappensiero, allontanandosi dal lettino e dirigendosi all’uscita.
«Tornerò più tardi per monitorare le tue condizioni».
Batan!
Deidara rimase di nuovo solo mentre le palpebre si facevano pesanti.
“La medicina un’arte...?”
Si chiese perché saltavano sempre fuori pazzi che non riconoscevano le potenzialità di un incendio, del botto, del fumo e dell’odore di bruciato.
“Che assurdità”, pensò sogghignando prima di addormentarsi.

Senza che neppure avesse avuto modo di rendersene conto, Deidara aveva quasi raggiunto il termine del suo percorso di convalescenza. Tifa si occupava di lui personalmente e visto che non c’erano molti pazienti ebbero anche modo di parlare. Ovviamente il biondo omise deliberatamente di essere membro di un’organizzazione criminale qual’era l’Akatsuki, ma lei non indagò mai in faccende che riteneva troppo private. In ogni caso era incredibile quante cose l’uno dell’altra avessero scoperto in una decina di giorni, sviluppando il classico legame dottore/paziente, forse giusto un po’ più forte dato quanto avevano imparato a conoscersi.
L’ultima mattina i due passeggiavano nel piccolo parco dell’ospedale, pressoché in silenzio. Si sentivano solo gli uccelli che di tanto in tanto si posavano fischiettando sui rami degli alberi.
Deidara non vedeva l’ora di poter riutilizzare il braccio e lavorare la sua argilla esplosiva, ma non dimenticava che per guarire completamente servivano ben più di un paio di settimane e che se l’avevano tenuto lì per tutto quel tempo era solo per controllare che non si verificassero problemi coi nervi o i muscoli. Di sicuro Hidan l’avrebbe sfottuto a vita se fosse tornato col braccio ingessato e dopotutto Pein non gli aveva dato scadenze, impegnato nella cattura di altri bijuu. Dopotutto quella pausa – seppur on voluta – si stava rivelando più piacevole del previsto e il biondino era contento che non l’avrebbe trascorsa parlando con il suo io interiore.
Tifa d’altro canto era affascinata da quel paziente scorbutico e leggermente esaltato, però ammirava il suo estro artistico, anche se insolito, e quella sorta di tic che aveva, di aggiungere “uhn” al termine di ogni frase, in tono saccente, la divertiva. Senza contare che aveva anche un fisico da paura – come aveva potuto verificare quando lo aiutava a cambiarsi gli abiti: il corpo era snello, non eccessivamente muscoloso, una vistosa cicatrice campeggiava nel bel mezzo del torace, richiusa alla bell’è meglio e gli addominali del ventre perfettamente allineati. Insomma, non era affatto da buttar via e le sarebbe dispiaciuto non vederlo più.
«Senti, Deidara...».
«Uhn?».
«Visto che da stasera sarai libero di tornartene a casa, perché non ci prendiamo qualcosa insieme, per festeggiare?», buttò lì. Era un chiaro invito ad uscire.
L’interessato non ci pensò a lungo, aveva ancora mezzo mese prima di tornare e non vedeva perché non dovesse divertirsi.
«Perché no?».
Tifa sorrise allegra e lui ricambiò con una smorfia. Non era avvezzo a quell’espressione gioiosa, ma le labbra della brunetta piegate all’insù gli trasmettevano buonumore.
«Bene, allora quando stacco andiamo a farci un giro».

Inutile dire che la serata andò più che bene. Si fermarono ad una griglieria visto che per pranzo non avevano mangiato molto e bevvero saké senza preoccuparsi di contare i bicchieri.
Quando poi uscirono dal locale, le guance di Tifa erano piacevolmente imporporate e barcollava leggermente, brilla. Indicò ridacchiando a Deidara dove fosse casa sua e vi si recarono cercando di evitare di sbattere contro i muri.
Una volta dentro Tifa accese la luce, permettendo all’altro di individuare il divano e di coricarcela, per poi guardarsi intorno: era uno stabile piccolo ma accogliente ed arredato con buon gusto, cosa che lo mise a suo agio.
Si voltò quindi verso l’infermiera che respirava tranquillamente rannicchiata sul sofà.
Evitando di intenerirsi a quella visione, sbuffò e se la caricò in spalla col braccio buono, portandola in camera da letto e sistemandola sul futon matrimoniale ancora sul pavimento. La ragazza sembrò essersi accorta che non si trovasse nello stesso posto, così tirò una manica del biondo che stava per ritornare in salotto per dormire lì. Lo guardava con occhi appannati, ma il tono con cui parlò non pareva quello di una persona sbronza.
«Resta qui con me».
Un boccolo scuro le ricadde sullo zigomo, ma lei non ne parve infastidita. Lui la osservò qualche istante, memorizzando quell’espressione tra il serio ed il buffo e non poté fare a meno di trovarla adorabile.
«Va bene», concesse spegnendo la luce e coricandosi a sua volta.
Tifa si spostò leggermente, finché la sua mano non giunse a sfiorare il petto dell’altro e la sua fronte non fu a contatto con le labbra di lui. Sollevò quindi il capo e le assaggiò per un breve attimo, guardandolo dritto in quelle iridi azzurre che riuscivano sempre ad intrigarla.
Si separò poco dopo, insonnolita e bofonchiò un “Oyasumi (7)”; dopodiché si addormentò, lasciando perplesso Deidara, immobile sul fianco e con ancora la morbidezza della bocca di Tifa sulla propria. Non gli era dispiaciuto. Non gli era dispiaciuto per niente, ed era stato... dolce. Per la prima volta dopo tanto tempo stirò le labbra in un sorriso sincero e la guardò, deliziato da quel viso sereno. La strinse a sé, le dita nelle ciocche corvine e cullato dal suo profumo la seguì nel mondo dei sogni.

Il mattino seguente Deidara si risvegliò col capo della ragazza poggiato nell’incavo della sua spalla, un braccio che gli cingeva la vita. La sensazione di non potersi muovere era fastidiosa così cercò di concentrarsi sulla giovane che dormiva ancora beatamente. Il sole le illuminava il viso, facendole stringere le palpebre con più forza. Magari stava solo fingendo.
«Ehi».
«Mph», borbottò lei, sfregando la guancia contro il petto del biondo, il quale sentì uno strattone dalle parti dello stomaco, per poi scuotere la testa.
«Tifa».
Un altro sbuffo. «Che c’è?».
In effetti non c’era niente. Stranita dal silenzio si alzò lentamente, stropicciando gli occhi e puntellandosi sui gomiti, mentre con una mano copriva uno sbadiglio.
“Sembra un gatto”, pensò Deidara divertito, e lei lo fissò contrariata. “E sembra anche non ricordare nulla di stanotte...”.
«Mi hai fatta alzare, che succede?».
«Nulla, davvero. Pensavo solo che oggi dovrò andarmene... tornare a casa».
La moretta allora si riprese, mettendosi a sedere sul futon a gambe incrociate. Assunse un’espressione pensierosa, mordendosi il labbro, poi esordì.
«Senti, Deidara, io...».
Lui le coprì le labbra con l’indice, gesto che provocò una scarica elettrica in entrambi. Le iridi da cerbiatta si sciolsero un po’, le guance più rosse del solito.
«Lo so che vuoi che resti».
Lei annuì, il dito del biondo continuava a serrarle la bocca.
«Ma non lo desidereresti se sapessi chi sono».
Tifa aggrottò le sopracciglia, e con una mano scansò quella dell’altro.
«Che vuoi dire?».
“Pein non se la prenderà. Non è una kunoichi”.
«Sono un membro dell’Akatsuki».
Gli occhi dell’infermiera si spalancarono, le labbra si separarono con un leggero schiocco, aprendosi un una piccola O. Davvero non se l’aspettava, anche se era a conoscenza che fosse un ninja. Deidara attendeva una risposta, cercando di capire cosa stesse pensando, scrutandola da sotto le sopracciglia chiare. Non voleva andarsene davvero, ma preferiva essere onesto, dopotutto era per merito suo se sarebbe tornato ad utilizzare il braccio.
Poi Tifa parlò, interrompendo le sue elucubrazioni mentali.
«Dire che non mi importa è una bugia...».
“Lo sapevo”. Il biondo si preparò mentalmente a lasciare quel piccolo villaggio, ma alla fine del posto non gliene fregava granché.
«... perché non voglio che tu muoia».
“Eh?”.
Questo davvero non se l’aspettava.
«Che vuoi dire?», domandò confuso.
«Quello che hai sentito. È pericoloso, e potrebbero ucciderti mentre sei in missione o qualcosa del genere...».
Deidara sbuffò, un soffio che assomigliava ad una risata sarcastica.
«È assurdo».
«Ma vero».
Pareva davvero sincera.
«Beh, per quando sarò guarito dovrò raggiungerli».
«Non ci vedremo più».
Il biondo scosse la testa. «No».
Stettero in silenzio per qualche minuto, ognuno perso nei propri pensieri, senza sapere che erano gli stessi: si desideravano, se non sul piano psicologico ed affettivo, perlomeno su quello fisico. Tifa era il classico tipo che si affezionava ai pazienti, ma preferì evitare di immaginare la spiacevole sensazione che avrebbe sentito per un addio, e lo stesso Deidara, che si sentiva stranamente in sintonia con quella ragazza che riteneva la medicina essere un’arte.
«Allora vediamo di spendere bene queste due settimane».
«Uhn».
Si alzarono, e dopo una rapida colazione si organizzarono brevemente per la giornata, per poi prepararsi ed uscire. Prima d aprire la porta però il biondo bloccò la giovane per un braccio, sporgendosi verso di lei e baciandola piano, per un brevissimo istante. Quando si separò Tifa aveva ancora gli occhi chiuse e le labbra semi-aperte.
Non appena realizzò cos’era accaduto riaprì le palpebre e lo guardò incuriosita.
«E questo per cos’era?», domandò con un luccichio nelle iridi.
«Per esserti presa cura di me... e non farmi parlare da solo come un idiota», rispose lui vago. Lei ridacchiò, posandogli le labbra all’angolo della bocca.
«Di niente allora».



Il tempo con Tifa passava troppo velocemente. Doveva lavorare tutte le mattine, durante le quali Deidara faceva un giro in città o più spesso fuori, per allenarsi e scaricare la tensione.
All’uscita dall’ospedale facevano uno spuntino con i dango e passeggiavano. Più volte poi la moretta gli aveva chiesto di mostrarle in diretta la sua tanto amata arte e ne rimase affascinata, soprattutto quando si ritrovò ad osservare il villaggio dall’alto di un uccello di esplosivo.
«Ahah», rise una sera, dopo aver assistito alla creazione dei ragni.
«Non è divertente», la apostrofò lui.
«Sì, invece», replicò lei, scendendo con un balzo dal tronco dov’era seduta ed avvicinandosi al biondo con fare serio. Gli prese con delicatezza il braccio leso e cominciò a sciogliere le bende, rivelando la pelle lievemente arrossata ed un lieve gonfiore, ma sembrava essere integro. L’artista strinse il pugno rilassando poi le dita: sembrava perfettamente a posto.
La guardò grato, mentre lei gli allacciava le braccia al collo e si sollevava sulle punte dei piedi verso il suo viso.
«Grazie», sussurrò, prima di cingerle la vita ed appoggiare le labbra su quelle di lei, prendendo ad assaporarle con gusto, mentre faceva aderire ulteriormente i loro corpi ed intrufolava la lingua nell’altro di lei, il cui muscolo gemello si intrecciò subito con l’altro.
L’aria era calma, si sentivano solo gli uccelli, le voci dal villaggio e gli schiocchi delle loro labbra e lingue che si incontravano vogliose. Quando dovettero riprendere fiato, Tifa gli accarezzò una guancia, immergendosi nelle iridi azzurre.
«Lo sai che oggi è l’ul-... Nnh...».

Senza sapere come ci fossero finiti, i due si ritrovarono nella camera dell’infermiera, nudi ed accaldati, con una scia di vestiti sgualciti abbandonati sul pavimento al loro passaggio, intenti a baciarsi voracemente, accarezzarsi e sfregare le intimità, le loro voci erano un tripudio di gemiti.
Tifa aveva ancorato le dita alle spalle del biondo che passava le mani sui fianchi, l’addome, i seni e le gambe divaricate di lei, le lingue che assaporavano la pelle morbida e profumata. La moretta, sentendosi stimolata nelle sue parti più sensibili, si stringeva all’amante, mentre una delle mani di lui si spostava sul basso ventre della compagna, la quale, una volta che la terza bocca aveva cominciato a dedicarsi alla sua femminilità, prese a contorcersi, miagolando sotto l’artista.
«Nnh... Deidaah... rah...», ansimò, ricatturando la lingua del proprietario con la propria con irruenza. Il nukenin la stava viziando, palpandola ovunque e facendole desiderare di più.
Il biondo quindi scese lungo il collo di lei, leccandolo lentamente fino alla giugulare e succhiò forte, mordicchiandole la cute delicata finché non comparve un’evidente macchia rossa. E ancora giù, con la lingua solcò le collinette dei seni tondi ed invitanti, lappando i capezzoli inturgiditi finché non ebbe un’idea. Si tirò a sedere tra le cosce di Tifa ed armeggiò rapidamente con la cucitura del suo petto, finché le labbra dell’apertura non si spalancarono, rivelando la quarta gemella. Al vederla la giovane sentì una scarica di piacere più forte delle altre percorrerla. Era terribilmente eccitata, si sentiva già bagnata e pronta.
Deidara ridiscese con una mano lungo i seni, le anche ed il pube di lei, preparandola con una lingua, mentre con l’altra le massaggiava una collinetta, la compagna accudita dalla lingua del petto.
“Oddio...!”, era tutto quello che Tifa riusciva a pensare mentre riprendeva a giocare con la lingua di Deidara e le sue dita gli scorrevano lungo la schiena, separandosi alla vita: una prese a palpargli le natiche, l’altra oltrepassò la peluria bionda dell’internocoscia, fino ad assestarsi sul pene teso e vibrante del partner, che prese a percorrere sensualmente dalla base alla punta, sfiorandogli con l’indice il prepuzio.
«Nngh...», ansimò il biondo, separandosi dalle labbra dell’infermiera ed cessando le attenzioni che le stava dedicando per sorreggersi con i palmi sul materasso e muovere il bacino incontro alla mano di lei. Voleva venire e non poteva, trattenendosi a stento. La brunetta se ne accorse, così scivolò tra le coperte finché il suo viso non si ritrovò di fronte all’erezione dell’altro. Avvicinò le labbra al membro, aprendole e soffiando leggermente, il fiato caldo che fece tremare Deidara per il libido e lo costrinse ad intimarle di proseguire. Le bastò una lappata lenta attorno al buchino perché il biondo esplodesse, schizzandole in faccia.
«Aaah!».

Crollò, respirando affannosamente mentre Tifa risaliva, permettendogli di posare la testa sui propri seni. Gli accarezzò i capelli, mentre percepiva il clitoride pulsare, inviandole scariche di desiderio.
«Deidara...», lo chiamò con voce lasciva. «Facciamolo... adesso...!».
E da lì in poi fu puro e delirante piacere.
Il biondo le fece sollevare le gambe, le lingue sempre intente a lasciare scie umide e bollenti al proprio passaggio, e posizionò il proprio pene all’entrata dell’amante, incatenando il suo sguardo celeste con quello liquido di lei finché non vi lesse la conferma definitiva e cominciò a penetrarla non troppo piano, eccitato all’inverosimile e non ce la fece a trattenersi più di tanto.
«Aaah...!», di nuovo le loro voci si armonizzarono finché il biondo non fu completamente dentro ed iniziò spingere.
Le pareti interne di lei erano morbide, liscissime, ed il caldo assuefacente: quando usciva voleva solo rientrare nuovamente in quel paradiso mentre lei gli andava incontro e le lingue riprendevano a lavorare sul suo corpo.
Intorno a loro, su di loro, c’era solo odore di sesso, di lussuria.
Tifa spinse Deidara, facendolo stendere supino e si sedette su di lui, impalandosi, stabilendo un altro ritmo; poi il biondo tornò a dominare, finché non centrò un punto erogeno che la fece urlare.
«Deidara... ti prego... fammi tutto ciò che vuoi...», supplicò Tifa accaldata e stordita dai gemiti che rimbombavano nelle loro orecchie.
Allora i baci si fecero sempre più infiammati, le spinte veloci, energiche ed irregolari. Nessuno dei due avrebbe mai voluto smettere.
Ed infine arrivarono a toccarlo, quel piacere che tanto desideravano: un urlo liberatorio riempì la camera mentre Tifa veniva riempita dal seme dell’amante che si unì al proprio.
Deidara tremava, e con le membra vibranti crollò accanto a Tifa che gli si strinse contro, baciandolo ancora, piano, o almeno, così avrebbe voluto fare.
Stremati dal piacere i due si addormentarono, l’una tra le braccia dell’altro senza curarsi di niente.

La notte trascorse forse troppo in fretta e il biondo si risvegliò più teso di quanto avrebbe voluto. Tifa dormiva serena, la guancia posata sul suo petto, un braccio a cingergli la vita ed i lunghi capelli scuri sparpagliati ovunque.
Un sospiro: era certo che gli sarebbe mancata. Le accarezzò istintivamente il capo mentre lei cominciava a stropicciare le palpebre fino ad immergere lo sguardo in quello dell’altro. Un sorriso piccolo, accennato, che non le raggiunse gli occhi, velati invece di malinconia. Lo sapevano entrambi senza parlare, ma non avevano intenzione di sprofondare nella depressione. La moretta quindi recuperò un po’ del suo entusiasmo, saltando in ginocchio sul materasso e stampandogli un bacio sulle labbra.
«Coraggio, è ora di colazione!».



L’artista aveva un brutto presentimento da quando si era alzato, che gli stringeva le viscere e gli dava la nausea. Tifa era a lavoro e lui uscito nuovamente.
«Katsu!», ansimò esausto. Scaricava la frustrazione facendo esplodere le sue creazioni, ma non riusciva a sentirsi soddisfatto. Furente, estrasse un kunai dal porta armi e lo scagliò violentemente per terra, infilzandolo nell’erba, e si accasciò pesantemente contro il tronco di un albero.
Non aveva previsto di rimanere tanto, né che avrebbe conosciuto qualcuno, ma era accaduto e la cosa lo irritava, soprattutto perché aveva la piena consapevolezza che in fondo era anche colpa sua.
“Mattaku... (8)”.
Ad un tratto udì uno stridio simile al verso di un corvo e scattò immediatamente in posizione di difesa.
Silenzio. Nessun movimento.
Crack!
Uno schiocco come di ramo spezzato. Subito si voltò, trovandosi di fronte ad Uchiha Itachi.
«Deidara».
Il biondo sibilò contrariato e strinse gli occhi.
«Cosa vuoi?».
«Pein si chiedeva che fine avessi fatto», rispose monocorde.
Ecco cos’era quella sensazione.
«Digli che domani sarò di nuovo tra voi».
«Ti conviene sbrigarti, c’è qualcuno che devi conoscere».
«Cosa intendi?».
«Che dopo la morte di Sasori, Pein ha ritenuto opportuno che viaggiassi con un nuovo compagno».
Un cenno.
«Allora ti aspettiamo», disse, ed il corpo ammantato si dissolse, liberando uno stormo di corvi.
A quel punto l’artista si lasciò andare con un sospiro contro il tronco di un albero, scivolando lentamente e facendo scontrare il capo col legno retrostante.
Un uccello volò fuori dal suo nido quando un rabbioso pugno si infranse sulla corteccia.



Tifa correva verso di lui con un pacchettino e non appena lo raggiunse glielo ficcò tra le mani.
«Bento», spiegò, le labbra all’insù, ma il biondo non ricambiò, il viso contratto in una cupa espressione.
Il sorriso della moretta di congelò mentre una folata di vento soffiava. Chinò il capo, rabbrividendo, i boccoli scuri a coprirle lo sguardo. Pareva volersi trattenere, impedirsi di reagire esageratamente.
Deidara non muoveva un muscolo, non riusciva a parlare. Sapeva che avrebbe capito e attendeva in silenzio, mentre poco a poco Tifa si calmava, fino a risollevare lentamente il capo.
«Sai...», iniziò, e il biondo era già pronto al peggio. «... ti servirà per il viaggio», concluse e gli occhi di Deidara si spalancarono per lo stupore.
Si era aspettato accuse, pianti, dichiarazioni, invece Tifa era stata matura: era consapevole del finale che avrebbe avuto la loro storia ed aveva reagito di conseguenza. Era ammirato, Deidara, e al tempo stesso sentiva che gli sarebbe mancata moltissimo.
«Grazie».
Lei lo guardò e sorrise.
«È stato un piacere, Deidara».
«Uhn», replicò l’altro, senza badare al bento che aveva tra le mani.
«Sayoonara».
E si voltò di spalle, diretta a casa.
Il biondo sentì uno strappo dalle parti del ventre e si morse le labbra. Così si salutavano? Un addio del genere gli dava la nausea. Sarebbe stato meno sofferto forse, ma all’artista pareva solo squallido. Il cuore gli batteva furiosamente nelle orecchie, gli girava la testa.
“No... non così...”.
Cominciò a correre, sebbene l’infermiera non si fosse allontanata poi di tanto.
“Non così...”.
«TIFA!».
Lei si girò, giusto in tempo per venire accolta tra le braccia del biondo che la strinse forte, immergendo il viso nei boccoli mori della ragazza, aspirandone il profumo, mentre l’altra ancorava le dita alla maglia del nukenin.
Poi Deidara le prese il mento fra due dita e lo sollevò, portando le sue labbra alla propria altezza e le baciò delicatamente. Al contatto Tifa sospirò, avvicinando maggiormente il biondo a sé, ed il bacio si infiammò: si succiarono le labbra, le lingue, si mordicchiarono, si assaporarono finché ebbero fiato.
Infine, lentamente, si separarono e si guardarono negli occhi. Tifa strofinò la guancia contro il palmo di lui, stringendolo fra le dita, le labbra piegate all’insù dolcemente. La bocca della mano di lui le accarezzavano la pelle morbida della gota, mentre il proprietario la guardava un’ultima volta: era bella, con il viso arrossato e gli occhi lucidi, privi di lacrime.
Era il momento di andare. Si chinò nuovamente verso di lei, sfiorandole piano le labbra socchiuse ed umide più volte, ma senza approfondire. Si fermò, osservando quelle iridi calde con un sorriso sincero.
Finalmente era pronto a tornare. Un ultimo bacio e si voltò, diretto lontano da quel villaggio e da lei, nell’aria restava sospesa solo una parola dal gusto dolce-amaro.
«Sayoonara...».



10 Anni Dopo...

Tifa aveva appena spento i fornelli ed asciugato le mani.
«È pronto!», chiamò, sistemandosi un piatto nell’incavo del braccio, prendendone poi altri due e dirigendosi verso la tavola.
Dal corridoio sentì i passi del figlio che corse fino alla propria sedia e vi si sedette, impaziente.
Un uomo già era accomodato a capotavola e sorrideva al piccolo esuberante, mentre la donna posava i piatti accanto alle bacchette e si chinava a baciare il marito sulle labbra, per poi sistemarsi accanto a lui e separare i bastoncini di legno.
«Itadakimasu!».
Mangiarono serenamente, chiacchierando e scherzando.
La giovane, osservando il pargolo, pensò che era stata davvero fortunata a trovare un uomo come Ruka, lo amava davvero, la rendeva felice. Eppure...
«Kaachan, moo aru? (9)», chiese con occhi da cucciolo.
I genitori risero e lei si avvicinò col piatto del bambino verso la cucina.
«Certo, Dei-chan!».
… non aveva dimenticato quel biondo un po’ pazzo che l’aveva accusata di non capire niente di arte.



… bakatsu da!



おわり~




1Mi chiamo Tifa
2Sono Deidara
3Ascolti
4La prego
5Avanti!
6Molto bene
7’Notte
8Dannazione!
9Mamma, ce n’è ancora?


Link EFP nel titolo
view post Posted: 9/1/2015, 19:45 Diamond - Fanfiction non DN

Diamond





«Ma perché diavolo Pein ci ha radunati con tanta fretta?!», esclamò scocciato Hidan, mentre i membri dell'Akatsuki si riunivano intorno al leader. Kakuzu scoccò un'occhiataccia omicida al compagno, pregando un dio in cui non credeva per ottenere la grazia di non dover più sentire quell'estremista parlare di un mancato sacrificio a Jashin.
Fu esaudito: l'albino stava già per lamentarsi, quando Kisame lo interruppe.
«Io mi fido di Pein. Se ci ha detto di incontrarci qui ci sarà un motivo».
Tutti tacquero: chi per un motivo, chi per l'altro avevano una ragione per trovarsi lì in quel momento.
Poi finalmente la voce dell'uomo che attendevano riempì la grotta.
«Vedo che ci siete tutti. Bene».
Avanzò verso il centro del covo, seguito da Konan, scrutandoli tutti con i suoi occhi inquitanti, i quali davano la spiacevole sensazione che carpissero un qualsiasi pensiero.
«Vi ho fatti venire qui per comunicarvi che da oggi avremo un nuovo compagno tra noi».
Prima ancora che si sollevasse il brusio di curiosità, un'altra voce si fece sentire.
«Compagna», corresse, e la figura ammantata di una ragazza spuntò dalle ombre. Non era eccessivamente alta – doveva avere poco meno di vent'anni, gli occhi color smeraldo osservavano le persone attorno a lei, il viso a forma di cuore contornato da una chioma scura, che mandava bagliori scarlatti.
Un altro attimo di silenzio e poi Hidan, che evidentemente aveva taciuto troppo a lungo, protestò.
«Ma che... ?! Una ragazzina?!».
Lo sguardo di lei saettò verso l'uomo che si rivolse poi al capo.
«Pein... stai scherzando, vero?».
Ma l'occhiata che Nagato gli scoccò era inequivocabile.
«Oh, andiamo... che potere avrà mai?», si lamentò, tornando a guardare la nuova arrivata.
«Vuoi provare?», propose lei, nella voce una nota vagamente sadica, gli occhi d'improvviso più ardenti.
«Per favore... se sei davvero così potente, usa Itachi come cavia», suggerì, facendo un cenno in direzione dell'interessato.
Lo Sharingan lampeggiò da sotto la frangia e la ragazza parve ancora più divertita.
«Uchiha Itachi, eh? Lo shinobi che ha sterminato il proprio clan e tradito il suo villaggio... sarò un onore». Un ghigno.

Ci fu un momento di tensione, un lontano plic di tanto in tanto interrompeva l'atmosfera. L'istante successivo tutti i nukenin scattarono sull'attenti: avevano percepito una presenza sconosciuta, insieme a loro, e si voltarono verso quella fonte di chakra, rimanendo stupefatti: un bambino correva incontro ad Itachi, protendendo le manine paffute in avanti, gli occhi grandi e scuri colmi di felicità.
«Niisan!», chiamò, prima di abbracciarlo in vita e strofinare il faccino contro la stoffa ruvida del mantello.
Nessuno osava fiatare, guardavano tutti tra il loro compagno e la ragazza senza capire.
Dire che l'Uchiha era impietrito è usare un eufemismo. Avrebbe giurato che il suo cuore si fosse fermato. Non osava guardare verso il basso, lo Sharingan disattivato, lo sguardo appannato fisso davanti a sé.
“No... non è possibile... che diavolo sta succedendo?!”
Si costrinse a calmarsi, ma non ci riusciva: lo sentiva, quel corpicino aggrappato alle sue gambe, che continuava a chiamarlo con quella vocina e appena femminile dell'infanzia. Terribilmente reale.
Poi, quasi in trance, portò una mano ad accarezzargli la testolina. Il suo cuore riprese a battere, ad un ritmo un po' troppo veloce, e si accorse solo allora di aver trattenuto il fiato, mentre tra le dita sentiva i capelli serici del fratello minore.
«Sas'ke...», sussurrò, stringendolo a sé con un sospiro.
Era perfettamente consapevole che si trattava di un jutsu della novellina, ma non riuscì a trattenersi. Percepiva il cuoricino dell'otouto volare, sbattendo le ali veloce come quelle di un colibrì.
E poi, repentinamente, Sas'ke sparì, lasciando ad Itachi una terribile sensazione di vuoto, sentiva ancora sulle mani il calore del più piccolo. Era stato come saltare un gradino scendendo le scale: gli si erano strette le viscere. Ammise a sé stesso che non si era mai spaventato tanto.

A quel punto Pein interruppe i pensieri del moro, presentando ufficialmente la giovane.
«Akumuko (1) ha un potere alquanto singolare: è specializzata in un genjutu che consiste, una volta individuato il bersaglio, di concretizzare il suo sogno più grande, rendendolo tangibile e visibile agli occhi di chiunque. Un'arma davvero molto potente».
Nel gruppo di nukenin passò un brivido, consci che non sarebbe stato conveniente ritrovarsela come nemica.
«Per ora la affiderò a Hidan e Kakuzu. Vi chiedo di addestrarla ben-...».
«Che cosa?!».
«... Per quanto sia una maestra nelle arti illusorie, l'apprendimento del taijutsu è fondamentale».
Scrutò penetrante ognuno dei compagni e concluse.
«È tutto», terminò, per poi andarsene insieme a Konan.
Akumuko quindi si voltò verso i suoi nuovi senpai. Quella situazione non le creava disagio, ma anzi, era elettrizzata. Era stata evitata a lungo per quella sua abilità, la Figlia dell'Incubo. Aveva un nome, sì. Ma non lo utilizzava più. E poi, quando Pein e Konan l'avevano trovata in quella biblioteca, intenta a fare ricerche sui genjutsu e le avevano proposto di unirsi a quella famigerata organizzazione proprio per le sue abilità, aveva accettato subito.
Con uno sguardo tra il sadico e il divertito, raggiunse i due uomini e sorrise, o meglio, ghignò, mentre occhi violetti e verdi la studiavano attentamente, i primi irritati, i secondi indifferenti.
«Allora, vogliamo cominciare?».



Akumuko imparava in fretta: nel giro di un mese kunai e shuriken erano diventati parte di lei, come delle appendici. Apprese lo stile di combattimento dei due, sottile e letale uno, vistoso e solenne l'altro, finendo con lo scherzare con l'albino sul culto di Jashin e inducendo Kakuzu a desiderare di non essere immortale per potersi ammazzare e non doverli più sentire.
Le capitò anche di andare in missione con Itachi e Kisame. L'Uchiha non le rivolse mai la parola, ancora turbato, mentre Hoshigaki la trovava divertente, ed usava nei suoi confronti modi paterni, cosa che stupì non poco la ragazza visti i rapporti col suo padre biologico.
Con i due artisti e i nukenin di Ame non ebbe occasione di viaggiare, ma non era quello il suo obiettivo, e dopotutto non si era unita da molto.
Qualche volta Deidara partecipava ai suoi allenamenti, per stimolarla a provare sempre nuove combinazioni di attacco e difesa e sviluppare le capacità di reazione ad uno stile di combattimento cui non era abituata.
In seguito il biondo cercò sempre si convincerla che l'esplosione fosse l'arte perfetta e definitiva, m con scarso successo.
La ragazza era invece interessata ad Akasuna no Sasori. Non avendoci mai interagino, era curiosa di conoscerlo un minimo.
Una era si recò alla sua stanza e bussò tre volte che le nocche.
«Dare da (2)», sentì rispondere dall'interno. La voce era tagliente, diversa da come l'aveva sempre sentita, e al pensiero che probabilmente non aveva Hiruko con sé si sentì emozionata: sapeva dal bombarolo che neppure lui l'aveva mai visto senza.
«Akumuko da (3)», replicò dopo un attimo.
«Naze koko da (4)», domandò irato.
La kunoichi non aveva voglia di parlare attraverso una porta, perciò spinse quell'asse di legno ed entrò.
«Per vederti».
Non fece in tempo a dare un altro passo che un kunai le sfiorò la guancia, tranciandole di netto una ciocca di capelli. I fili scarlatti caddero a terra, come al rallentatore, mentre lei sorrideva, a metà tra lo sconcertato e il compiaciuto.
Sasori era egli stesso... una marionetta. Una marionetta senza fili.
«Non saresti dovuta venire qui». La avvertì, rimanendo di spalle, ma la ragazza lo ignorò e si accostò alla scrivania, posando una mano sul tavolo e l'altra sullo schienale della sedia.
La superficie era ingombra di strumenti da lavoro, lume, appunti, schemi e viti, il porta kunai cui mancava un'arma stava nell'angolo.
«Che stai facendo?», s'interessò, posando lo sguardo sul tomo che l'altro reggeva tra le mani. Non l'aveva ancora visto in volto, aveva solo notato la chioma rossiccia e disordinata.

L'interpellato non si voltò, ma continuò a leggere. Avrebbe voluto ucciderla, ma Pein probabilmente non avrebbe gradito.
«Ricerche».
«Mmh...», commentò, leggendo qualche riga del manuale per poi ridacchiare.
«Lavorazione del vetro?».
Nessuna risposta.
«Come mai ti interessa?».
Ancora silenzio. Poi, siccome Akumuko non demordeva, Sasori sopsirò.
«Voglio rinforzare le mie marionette e le loro armi, ma devo trovare il modo più efficiente di usare i materiali...», spiegò voltando pagina.
Un piccolo sorriso comparve sul volto della giovane: probabilmente il rosso non aveva mai parlato tanto con qualcuno senza minacciarlo di morte, ne era contenta. Ad un tratto si sovvenne di ciò che le aveva insegnato suo padre.
«Perché non usi il diamante? È indistruttibile, scalfibile solo da un altro diamante...», buttò lì, e si diresse all'ingresso. Appoggiò una mano sullo stipite della porta, facendo vibrare il kunai che vi era infilzato e si congedò.
«È stato un piacere parlare con te».



Era stata una missione particolarmente impegnativa, accompagnata dal biondo, gioviale per l'assenza del compagno. Deidara era piuttosto soddisfatto, e soprattutto quella ragazza cominciava ad interessarlo seriamente, un po' per il suo sadismo, un po' per l'abilità.
Una volta al covo però, Akumuko svicolo dalle richieste del nukenin di Iwa e si diresse verso la stanza del marionettista.
Bussò, ottenendo come risposta solamente dei rumori, e decise di entrare ugualmente.
Il rosso era intento a lavorare – o meglio, cercare di lavorare – quello che riconobbe subito come diamante. Nel punto in cui la lama sfiorava il blocco di carbonio sprizzavano scintille. Ad un tratto uno stridio riempì la camera e il disco rotante schizzò, impiantandosi nella parete rocciosa, il diamante intatto e perfettamente luccicante.
Sasori gettò con rabbia il manico dell'ormai inutile sega circolare a terra, per poi dirigersi alla scrivania. Una volta giratosi si accorse di non essere solo e dopo un breve scambio di sguardi le fece un cenno, senza però profferire parola.
«Non riesci a tagliarlo?», insinuò lei. L'altro le rivolse un'occhiata furente e finalmente la giovane poté vederlo in volto: il viso, indurito dal legno, era quello di un ragazzo, dovevano avere circa la stessa età, le iridi color nocciola fredde. La ignorò, riguardando i propri appunti, mentre Akumuko gli si avvicinava.

«Serve il diamante per tagliare il diamante», ripeté.
«Ti avevo sentita già la prima volta».
«E perché hai usato una lega allora?».
Silenzio.
«Senti, se proprio vuoi, so dove trovare gli strumenti adatti».
Di nuovo lo sguardi di lui saettò verso l'ospite, bramoso.
«Come?», chiese solo.
Lei sorrise.
«Sarei tentata di chiederti qualcosa in cambio, ma mi interessa parecchio questo tuo progetto, quindi ti aiuterò senza reclamare una ricompensa».
Il rosso assottigliò gli occhi, sicuro che stesse scherzando, ma Akumuko lo ignorò.
«Non ci guadagno nulla. Ti sto offrendo una mano», continuò, porgendogliela con un sorrisetto che di sincero pareva avere ben poco. Tuttavia, Sasori decise di fidarsi, e le strinse le dita.
Quelle di lui erano fredde, dure, inumane, constatò lei. Si chiese dove fosse il nucleo di quel meccanismo, ma la maglia nera ed i pantaloni altrettanto scuri impedivano di investigare approfonditamente.
«Andata».



Fortunatamente in quel periodo Pein aveva incaricato i membri dell'Akatsuki di fare ricerche sui Bijuu, quindi sarebbero stati liberi di vagare per le terre ninja a tempo più o meno indeterminato.
I due allora pianificarono come procedere, vagliarono ogni eventualità ed infine partirono.
Era strano viaggiare insieme: per Sasori era la prima volta che aveva come compagno qualcuno che non fosse Deidara, per Akumuko il problema era parlare con l'altro attraverso Hiruko. Non solo aveva un aspetto molto più minaccioso, ma anche la voce risultava differente, cupa e roca. Tuttavia decise di non farci caso e di godersi la conversazione.
All'inizio camminarono in silezio, poi però il marionettista le fece – con stupore di lei – una domanda.
«Perché sei così informata sul diamante?».
Akumuko tacque, presa in contropiede. Si chiese il motivo di quella curiosità, ma forse era solo per parlare.
“Gli interessa davvero?”. Aveva dei dubbi, eppure decise di fidarsi e raccontarglielo.

«Quando ero piccola vivevo in un piccolo villaggio di Kaze no Kuni (5). Mio padreera un artigiano, esperto nella lavorazione del vetro e del diamante e le sue creazioni erano molto rinomate. Mia madre lo ammirava per questo, e insieme a lui mi incoraggiava ad imparare per tramandare quella che era la tradizione di famiglia. Eppure dopo qualche tempo gli affari cominciarono ad andare male, e mio padre fu costretto a lasciare l'attività. Iniziò a bere, diventò violento con me e mia madre che lavoravamo a turni alterni nella locanda di un amico di famiglia come cameriere, e alla fine lei decise di lasciarlo, portandomi con sé».
La ragazza interruppe il racconto. Il ricordo di sua madre le metteva addosso una tale malinconia... si strinse le braccia sul petto, cercando di ritrovare il contegno. Sasori si sentì a disagio, Akumuko non si era mai esposta tanto. Attese, paziente, e la giovane riprese fiato, continuando a narrare.
«Non riuscimmo ad allontanarci troppo: uscite dal villaggio venimmo attaccate da un manipolo di banditi. La uccisero...», rimembrò lei, lo sguardo lontano. «Ma i ninja di Suna ci avevano già localizzate. Fecero appena in tempo a difendermi, li arrestarono e mi riportarono da mio padre, ma io non avevo alcuna intenzione di rimanere con lui. Quella fu la prima volta che si attivò il mio genjutsu, ma non era un bel sogno, come riesco a fare ora. Lo torturai, nella mente, i suoi incubi peggiori si materializzavano di fronte ai suoi occhi... si suicidò nel giro di una settimana».
Sulle labbra di Akumuko spuntò un ghigno. «Ma da allora la gente cominciò a mormorare e ad allontanarmi, per evitare che facessi lo stesso a loro. “Figlia dell'Incubo”, così mi chiamavano, e accettai il mio nuovo nome».

Il marionettista si sorprese: Akumuko non era il suo vero nome? Un'improvvisa ed inattesa curiosità lo invase: come si chiamava allora?
«Comunque, decisi di imparare a controllare quel genjutsu, che avrebbe anche potuto sfuggirmi di mano, così cominciai a cercare in ogni biblioteca di ogni villaggio rotoli che mi potessero aiutare e poco alla volta l'Incubo si tramutò in sogno. Il desiderio rende le persone più fragili della paura».
Una pausa.
«È in una di quelle biblioteche che Pein e Konan mi hanno trovata».
Era quella la sua storia dunque? Pensava a come doveva essere cresciuta quella ragazza, e sapeva che come per lui non doveva essere stato facile. Come lui aveva perso i genitori, ed erano più simili di quanto pensassero.
«Scusa, mi hai chiesto del diamante, non della mia vita», ridacchiò imbarazzata.
«No, è stato interessante».
Proseguirono senza aggiungere altro.



In un paio di giorni di cammino giunsero al vecchio villaggio di Akumuko.
Erano finiti a discutere di vari argomenti, di sé stessi e la ragazza aveva a sua volta scoperto dell'infanzia del rosso. L'aveva sentito, quel vuoto. Lo comprendeva, il suo dolore e la sua solitudine.
Tolte le cappe dell'Akatsuki, nascostole nei pressi dell'ingresso e celato Hiruko, i due varcarono il portone.
Per Akumuko ritrovarsi tra quelle vie familiari fu come immergersi nel passato. Erano passati quasi dieci anni, ma le case, le stradine, l'atmosfera erano sempre le stesse. Tutto identico, ma lei era diversa, cresciuta, e non l'avrebbero riconosciuta, maledicendola e rinchiudendosi in casa.
Guidò l'altro verso il vecchio negozio, quasi incredula di non dover ignorare gli insulti e sentirsi ferita perché veniva evitata come la peste.
Finalmente giunsero sul posto. La bottega era sigillata, la porta barricata da spesse assi di legno.
“Non vedevano l'ora di disfarsene e dimenticare”.
Si rivolse al suo accompagnatore.
«Non possiamo sfondare la porta ora; aspettiamo stanotte, entreremo dal retro».
Attesero dunque il calar delle tenebre sulla cittadina prima di imboscarsi nel vicolo parallelo retrostante e scassinare silenziosamente la porta, premurandosi di oliare i vecchi cardini arrugginiti prima di aprire. Quindi spalancarono l'uscio ed avanzarono nella stanza buia. La luce della luna si rifletteva su alcuni strumenti metallici, che rilucevano debolmente, coperti da diversi centimetri di polvere. Le assi di legno sul pavimento ammuffito cigolavano, ma parevano ancora stabili, l'aria era densa e soffocante per il chiuso, stantia, e faticavano a respirare.

Akumuko respinse con determinazione i ricordi della propria infanzia concentrandosi solo sull'oggetto della loro ricerca. Dopo aver acceso una vecchia lanterna con il katon, il laboratorio si illuminò di un fioco bagliore rossastro. Il tavolo da lavoro, polveroso, era ingombro di strumenti di ogni tipo non messi meglio, pezzi di metalli, minerali e cristalli grezzi o appena smussati, i cocci multicolori si mischiavano ai batuffoli grigi. Sugli scaffali alcuni oggetti intagliati brillavano: le creazioni di suo padre, le sue preferite. In fondo, la porta che collegava il retro al negozio.
La ragazza sospirò e, facendosi forza, spiegò a Sasori come fosse fata la sega di cui necessitavano. Frugarono ovunque, esaminando le cianfrusaglie sulla scrivania, controllando gli sportelli del mobiletti, finché il rosso esclamò trionfante.
«Mits'keta! (6)».
Akumuko si voltò trepidante verso il compagno, e rivide la lama ed il manico del suo strumento preferito. Scintillò quando il balunginare della candela intercettò la sua superficie.
I due si guardarono vittoriosi, le labbra piegate all'insù, e con un cenno d'intesa, l'una dopo l'altro, uscirono dalla bottega. Prima di serrare nuovamente l'uscio però, la ragazza abbozzò un sorriso, guardando nostalgica la stanza.
“Magari una cosa buona l'hai fatta, papà. Arigatou”.
Soffiò sullo stoppino e la fiammella si spense, un filo di fumo che saliva a spirale nell'aria, ed uscì, chiudendo la porta alle sue spalle.



Quasi non si accorsero del viaggio di ritorno. Ripercorsero i propri passi di volata ed una volta tornati al covo Sasori non volle sentire ragioni: minacciò Akmuko di amputarle uno o più arti se non gli avesse insegnato ad utilizzare lo strumento e lei sentenziò che non c'era bisogno di tanta brutalità e che l'avrebbe aiutato in ogni caso.
Si immersero nel lavoro, nei progetti, provarono e rielaborarono, fecero esperimenti, testarono, finché il rosso non ebbe un'illuminazione ed una sera cacciò la compagna per realizzare l'idea, dichiarando di volerlo fare da solo.

Qualche settimana più tardi Sasori e Deidara tornavano dall'ennesima missione di ricerca. Il marionettista avrebbe preferito di gran lunga rimanere a lavorare ai suoi piani, ma Pein aveva avuto da ridire sul suo atteggiamento misantropico dell'ultimo periodo e gli aveva intimato di adempiere ai patti.
Il biondo non vedeva l'ora di sgranchirsi le gambe e mostrare la sua arte esplosiva a chiunque, volente o nolente.
Ad un certo punto, senza quasi che se ne rendessero conto, la discussione dei due sfociò nel consueto dibattito tra l'istante fugate e l'eterno.
«Certo, le armi delle tue marionette non sono male, ma non possono competere col mio C4».
In genere il rosso non lo ascoltava neppure, ma quella volta non riuscì a trattenersi, troppo entusiasta dell'andamento della realizzazione delle nuove “bambole”.
«Magari prima. Ora hanno qualcosa di diverso».
Deidara si fermò subito: non solo gli aveva risposto, ma non aveva mai captato quel tono di voce proveniente da Hiruko. Perdipiù, mai e poi mai, nella sua superbia, avrebbe ammesso che le sue marionette avessero qualcosa da perfezionare. Non ci mise molto a farsi un'idea su chi gli avesse impiantato quel seme nella testa, quindi decise di stuzzicarlo un po'.
«Non è che ti ha aiutato qualcuno?», sogghignò.
Anche Sasori si arrestò. Ecco, aveva parlato troppo. Tentò di recuperare un po' della sua aura distaccata e minacciosa.
«Taci», sibilò, ma il biondo lo ignorò.
«Bene, allora se non c'entra nulla, non ti dispiacerà se ci provo io».
Rieccola, la furia omicida assopita: Sasori, furioso, puntò la coda avvelenata di Hiruko al collo dell'altro, che intese d'aver osato troppo, pur se sentiva una certa soddisfazione per aver ottenuto una simile reazione dall'algido compagno.
«Tu azzardati anche solo a guardarla ed entrerai a far parte della mia collezione». Il tono era basso, profondo e terrificante. Deidara ingoiò a vuoto, preoccupandosi infine per la propria incolumità, ed alzò le mani in segno di resa.



Finalmente. Finalmente era riuscito a perfezionare le sue marionette, finalmente la sua arte sarebbe stata davvero eterna. Dopo aver modificato i “fantocci” aveva provveduto a sé stesso. Non solo era indistruttibile ora, ma con un espediente era anche riuscito a ricreare tratti e caratteristiche umane.
Soddisfatto, si gettò sul letto, esausto e gratificato, le braccia, ora morbide e calde, piegate dietro la testa.
Le immagini di quei mesi di dura ricerca e lavoro gli scorrevano in mente, frenetiche. Poi s'intromisero visioni di Akumuko, dei suoi consigli, del tempo trascorso insieme, ed infine la discussione con Deidara.
Perché gli aveva dato tanto fastidio?
Sbuffò scocciato: lo conosceva il motivo, ma non osava ammetterlo neppure a sé stesso. Quella ragazza l'aveva intrigato fin troppo, preferiva vederla così.
TOC TOC!
“Uhn?”.
Si voltò in direzione della porta e l'oggetto dei suoi pensieri fece il proprio ingresso nella stanza.
«Ciao, ero venuta per vedere come andavano le co-...».
Al vedere Sasori tacque improvvisamente, e corrugò le sopracciglia. Aveva qualcosa di diverso... una aspetto più... umano.
Il rosso l'ascoltò senza fiatare né muoversi, fissandola neutro.
Akumuko a quello sguardo s'indispettì. Dopo tutta quella fatica non le diceva nulla? Bene, non era sua intenzione infastidirlo.
«Se hai voglia di parlarne sai dove trovarmi», si congedò voltandosi e mettendo mano alla porta. Fece per abbassare la maniglia, ma le sue dita non rispondevano ai comandi.
Irritata, provò a ritrarre la mano e notò dei sottili fili di chakra che la trattenevano. Il suo corpo quindi si girò, mentre sentiva la serratura scattare.
Sasori era ancora comodamente sdraiato, l'immagine del relax, con un braccio ancora a fargli da cuscino, l'altro appoggiato sulle lenzuola, i filamenti blu che spuntavano dai polpastrelli.
Gesti appena accennati ed Akumuko si ritrovò ad avanzare verso di lui, chiedendosi stupefatta il motivo quando finì a cavalcioni sull'altro.
Stavolta nelle iridi color nocciola di Sasori c'era una luce diversa, non sapeva cosa fosse, ma non le piaceva sentirsi inerme, quindi decise di usare il genjutsu sul ragazzo sotto di lei.
All'inizio sembrava non essere cambiato nulla, ma ad un certo punto un movimento ai margini del loro campo visivo li distrasse, facendoli voltare.
Subito i loro muscoli si contrassero per la tensione quando si ritrovarono a guardare quella stessa stanza come uno specchio, lo spazio dilatato, e ritrovare sé stessi, in quella stessa posizione, che li fissavano. Akumuko aggrottò le sopracciglia, senza capire, ma quando l'altra sé cominciò a svestirsi e calare verso il volto del compagno dissolse l'illusione, tornando al vero Sasori.
Aveva capito bene? Sasori voleva lei? Il suo sguardo urlava “Perché?”; percepiva il cuore batterle fortissima, non riusciva a credere che il rosso fosse serio, ma quel genjutsu non mentiva mai.

Com'era possibile che Sasori si fosse innamorato di lei? Com'era possibile che la ricambiasse? Sì, anche lei sentiva quel calore quand'erano insieme, quando si guardavano, e il gelo quando invece erano separati.
Poi il rosso parve leggere qualcosa nei suoi occhi e seppe che poteva azzardarsi a continuare. Lentamente la fece spogliare: le mani di lei andarono al bordo della maglia scura, prendendo a sollevarlo sensualmente, scoprendo poco a poco lembi di pelle chiara, rivelando il reggiseno color notte, abbondantemente riempito, celando momentaneamente il collo ed il viso per poi finire per terra.
Sasori osservava estasiato ed eccitato il corpo della giovane, sentendo dopo decenni quel cogenti bisogno di morbidezza e calore. Non era abituato e si sentiva quasi stordito per il desiderio.
Troppo distratto, allentò i fili di chakra ed Akumuko ne approfittò subito per bloccargli i polsi sul cuscino, ai lati del capo. Calò su di lui, le labbra a due centimetri da quelle dell'altro.
«Questa tecnica va bene per giocare».
E lo baciò.
Con un sospiro trepidante, le loro labbra si sfiorarono, ansiose di assaggiarsi, le lingue che presero a lisciare le rispettive bocche, per poi incontrarsi a metà strada e cominciare a danzare.
Un brivido di piacere ed aspettativa pervase i loro corpi, e Sasori portò le braccia attorno al collo di lei, sentendo i capelli lisci tra le dita, ed attirando la sua nuca verso di sé, approfondendo il contatto.
Nel frattempo le mani di Akumuko sgusciavano verso il bordo della maglia del partner, provocandogli brividi. Il tessuto nero finì intrappolato tra le dita sottili di lei e tirato, sollevato con veemenza, rivelando poco a poco l'ombelico, i muscoli affusolati della pancia, i leggeri addominali, il torace giovanile. Sasori la aiutò allungando le braccia, ma ormai la sua eccitazione era palpabile: si calò i pantaloni, un grosso rigonfiamento nei boxer scarlatti. Al vederlo, la ragazza sentì la bocca ardere affamata e rimirandolo come una cacciatrice si leccò sensualmente le labbra, per poi scendere nuovamente su di lui, strusciandosi contro l'erezione del rosso che ansimò lascivamente. Sentiva il membro tendersi sempre di più ma non gli andava di fare il passivo tutto il tempo: con un colpo di reni ribaltò le posizioni, afferrandole la schiena e cominciando ad accarezzarla, con movimenti lenti e rilassanti. Giunto al gancio del reggiseno, provvedette a slacciarlo e sfilarglielo, potendo finalmente guardare bramoso quelle morbide forme. Spostò i palmi dai fianchi alla pancia, alle collinette e cominciò a baciarle e succhiarle, prendendo in bocca i capezzoli bruni ed eretti e mordicchiandoli. La lingua andò a lisciarli, mentre lei cacciava piccoli gridi di piacere. Poi Akumuko gli tirò bisognosa le ciocche rosse e si riappropriò della sua bocca, della lingua, del sapore.

Le carezze si facevano via via sempre più audaci e basse. Ora Sasori sentiva l'incavo del pube sotto i polpastrelli, liscio e morbido. Ansimò nel bacio, mentre le dita cominciavano a sfiorare il clitoride.
«Ah!».
Per la sorpresa, la ragazza arpionò le scapole del compagno, divaricando istintivamente le gambe per dargli maggiore libertà di movimento. L'indice quindi prese a stuzzicarla e più sentiva le unghie conficcate nelle spalle più si eccitava. La sentiva già bagnata e quando il suo dito si sporcò di quel liquido sospirò, facendolo strusciare più in basso, fino a ritrovarselo umido ed appiccicaticcio. Percorse la forma della vulva leggero, le mani di lei che si imprimevano la forma delle spalle sui palmi, finché l'indice non la penetrò e cominciò a muoversi circolarmente, saggiando quel terreno morbido, liscio e bagnato.
«Aah... Sasori...».
Akumuko non si aspettava nel modo più assoluto che un solo dito l'avrebbe fatta godere tanto. Sollevò il bacino e il dito scivolò più in profondità, mentre cercava di non far uscire neppure un gemito dalle labbra ed il rosso ne infilava un secondo ad accompagnare il precedente.
La stanza faceva eco agli ansimi mentre Sasori la osservava bramoso inarcarsi al suo tocco. La voleva subito, desiderava riassaggiare il sapore della sua pelle, delle sue labbra... tornò alla bocca aperta di lei e le succhiò quei petali, la lingua calda che andò incontro alla sua quasi in trance. La danza della lussuria ricominciò, mentre la mano libera di lui le accarezzava il ventre, i fianchi, e risaliva verso un seno. Sfiorò il capezzolo brunito ed Akumuko sibilò, incoraggiando il rosso a non fermarsi. Lo vezzeggiò finché i tendini del collo della compagna non lo distrassero e risalì, prendendo a suggere con veemenza un punto vicino alla giugulare ed addentarlo di tanto in tanto. Quella morbidezza lo stava mandando in estasi, continuò finché lei non gli tirò la chioma scarlatta, facendola staccare e rivelando un vistoso succhiotto, per poi mordergli il labbro inferiore.
«Non che la faccio più... entrami dentro!», miagolò ardente.
Sasori sentì una stretta di libido alle viscere e ingoiò. Senza farselo ripetere due volte estrasse le dita ed Akumuko percepì il fastidio del sentirsi vuota. Imprecò, mentre il marionettista, afferrato il suo membro, lo indirizzava verso l'apertura di lei, penetrandola fino in fondo, con un colpo solo.

«Aaah, porco Jashin!», esclamò lei. Era grosso. Un po' troppo, e non se l'aspettava, era tutta un'altra storia rispetto alle precedenti dita. Però ricordava il piacere provato con quelle e cercò di rilassarsi, provando ad immaginare quanto avrebbe goduto nonappena si fosse abituata a quell'invadente presenza.
Dopo poco il dolore andò scemando e la ragazza ringraziò mentalmente il compagno per essere rimasto immobile.
«Muoviti», disse, eccitata ulteriormente dall'aspettativa, ma il rosso non eseguì. Akumuko lo guardò allarmata, e lui le restituì un'occhiata storta. Non capiva.
«Porco Jashin?!».
Ah, ecco.
«Prova tu ad avere Hidan come senpai e poi ne riparliamo», rimbeccò, per poi baciarlo con passione. La lingua tornò a stuzzicare quella dell'altro, le mani intente ad accarezzargli i capelli e farsi scorrere i fili rossicci tra le dita, muovendo il bacino per incitarlo.
Sasori quindi uscì, la guardò un attimo negli occhi e rientrò, sospirando per la strettezza ed il calore, armonizzando la sua voce con i gemiti della compagna.
Eccolo, il piacere che aspettava. Si inarcò mentre il rosso le baciava le guance, le mascelle e scendeva sul collo, succhiando avidamente. Teneva un palmo piantato sul materasso per tenersi in equilibrio e darsi la spinta, continuava ad insinuarsi nella ragazza con ritmo sempre più veloce ed Akumuko finalmente cominciava a sentire la sensazione di pienezza: la stordiva, la eccitava, le faceva bramare di più.
«Kami, Ori... sì!».
Quanto lo desiderava! Fece leva sui gomiti e senza permettere che il rosso uscisse da lei, ribaltò le posizioni, continuando a muoversi.
Dio, le girava la testa.... gli inchiodò i polsi ai lati della testa e prese ad impalarsi ansimando forte.
«Aaah, Aku... muko...», gemette, e lei tornò a baciarlo.
Un turbine di lussuria li aveva avvolti, e ora non c'era più possibilità d'uscita. Si alternavano continuamente, ora sopra, ora sotto, finché non raggiunsero l'apice.
«Sto... per... venire!», la avvertì lui sconnessamente, ma lei continuò a spingersi, finché non sentì il membro di lui tendersi ulteriormente e il suo liquido schizzare contro le sue pareti interne.
L'orgasmo colse anche lei, che si liberò con un urlo di puro libido per poi accasciarsi sul suo petto, il respiro corto.
Il torace si Sasori si alzava ed abbassava velocemente e mentre le accarezzava i capelli color mogano non si trattenne dal posarle le labbra sulla fronte. Infine, il sonno li sopraffece e si addormentarono l'uno tra le braccia dell'altra.



Akumuko si svegliò di soprassalto.
Istintivamente si voltò verso il compagno e sgranò le palpebre nel constatare che tremava, sul viso un'espressione tra il triste ed il terrorizzato.
«Sasori!».
Non rispondeva, e cominciò seriamente ad allarmarsi. Decise di vedere cosa lo turbava tanto ed in un attimo l'incubo si materializzò accanto a loro: un bambino che lavorava sui cadaveri di un uomo ed una donna che gli assomigliavano molto, il bimbo che cercava il surrogato di un abbraccio dai genitori mummificati, marionette, marionette, marionette...
«SASORI!», lo chiamò più forte, ed il rosso finalmente aprì gli occhi.
Subito la ragazza lo strinse forte, il cuore le batteva furiosamente, quelle immagini la sconvolgevano: seppur le avesse accennato qualcosa non immaginava fosse così terribile. Era stata quella l'infanzia del ragazzo? Aveva trasformato l'affetto in materialità, la solitudine in forza...
«Va tutto bene ora», gli sussurrò, facendosi abbracciare da Sasori e tenendogli la mano. Calda. Umana.

La kunoichi si ridestò alle prime luci dell'alba, sentendo i passi leggeri di Kakuzu nel corridoio: aveva l'abitudine di alzarsi sempre prestissimo e di sicuro la stava cercando.
“Merda!”, pensò, spalancando gli occhi e rigirandosi nell'abbraccio dell'altro. Tuttavia il compagno la stringeva in una morsa ferrea, impedendole di muoversi. Per quanto le facesse piacere non era nelle sue aspirazioni morire durante l'allenamento, quindi gli morso forte il collo e si mise a sedere. Il giovane, svegliatosi di soprassalto con un urlo, la guardò contrariato che si rivestiva, toccandosi la ferita.
Una volta essersi infilata anche la cappa si voltò, leccò la parte lesa e gli depositò un bacio a stampo sulle labbra socchiuse. Ora poteva seguire il suo senpai.
Una volta alla porta però, la voce dell'altro la bloccò.
«Non te ne andare».
Il tono era piatto ma Akumuko lo prese sul serio, voltandosi.
«Piuttosto ti alleni con me».
La ragazza era sorpresa, ma mantenne un'espressione impassibile. Avanzò fino alla scrivania del rosso, prese un fude (7), lo intinse nella china e raggiunse il compagno.
Accomodatasi al suo fianco, Sasori si voltò nella sua direzione e lei gli prese un braccio. Tenendolo fermo, tracciò pochi caratteri e si rialzò, mentre il rosso leggeva, e capì.
«Ecco, ora siamo insieme».



Poco più tardi Kakuzu le comunicò che quel giorno lui e Hidan avevano una missione cui lei non avrebbe potuto partecipare, e di affidarsi a qualcun altro.
«Wakatta. Jaane (8)», lo salutò, e si diresse immediatamente verso la propria stanza, chiudendosi dentro a chiave.
Si concentrò qualche attimo e subito apparve una donna dai capelli scarlatti e le iridi verde smeraldo, le labbra stirate all'insù sul viso giovane.
Akumuko ricambiò il sorriso, abbracciandola.
«Ciao mamma».
La donna strinse la figlia, accarezzandole il viso.
«Ciao, piccola mia».
Toccare di nuovo sua madre le faceva venire voglia di piangere. Quanto le era mancata...
Sciolsero l'abbraccio, continuando a tenersi per mao, gli sguardi incatenati.
La più giovane sospirò, decidendosi a spiegare perché l'avesse chiamata.
«So che non ti sono mai piaciuti i tatuaggi, ma ora mi dovresti aiutare a fare una cosa», disse estraendo un kunai dalla borsa.
La donna la guardò con un sorrisetto triste, sfiorandole di nuovo una guancia.
«Sei sicura di quello che stai facendo?».
«Mai stata più sicura».
E la madre, senza investigare oltre, prese l'arma, mentre la figlia scostava i lunghi capelli dalla nuca e stringeva i denti.
Quando la punta cominciò ad incidere la carne delicata, Akumuko soffiò, serrando le labbra ed impedendosi di ringhiare per il dolore. Il sangue le colava lungo la schiena, caldo, ma non se ne curò, concentrata solo sul gesto che aveva deciso di compiere.
Nonappena non sentì più il ferro sul collo ed i tagli aperti cominciavano a bruciare, afferrò un pannetto, sistemandoselo sulla nuca. Il fresco la rilassò e tornò a guardare la donna, riconoscente.
«Arigatou».
L'altra scosse la testa, abbracciandola per l'ultima volta.
«Sii felice, Lidia».



Pein aveva nuovamente convocato l'Akatsuki con urgenza.
«La nostra spia a Suna ci ha comunicato che è il momento giusto per attaccare l'Ichibi».
«Era ora!», bofonchiò Hidan scocciato. Il capo lo ignorò deliberatamente e proseguì.
«Se ne occuperanno Sasori e Deidara, è il lavoro giusto per loro».
Lo sguardo di Akumuko saettò verso quello del compagno, mentre Nagato e Konan uscivano dalla sala del Gedo Mazou. Il gruppo si sciolse e la ragazza per il nervosismo si scostò la chioma dal collo.
I membri designati per la missione la raggiunsero, discutendo della procedura migliore da seguire, finché le iridi azzurre del biondo non si posarono sulla nuca di lei. Rimase immobile per qualche istante per poi guardare arcigno il compagno ed andarsene imprecando ad alta voce.
Anche Sasori lo notò e ne rimase sconvolto: la coda di Hiruko provvedette ad afferrarla in vita e la portò nella propria camera, sbattendola violentemente contro il muro ed uscendo dalla marionetta.
«Cos'hai fatto, come...?». Lasciò la domanda in sospeso, l'impeto che lo spingeva a tenerla per il collo.
Lei gli prese le dita, facendogli allentare la stretta.
«Il mio vecchio sogno era rivedere mia madre», spiegò.
Sasori la guardò interdetto.
«Vecchio?».
Lidia sorrise.
«Il mio nuovo sogno è stare con te».
Non avrebbero potuto abbassare lo sguardo neppure volendo, iridi verdi in iridi nocciola. Poi il rosso prese un kunai e si incise il nome di lei sul petto, la scritta dell'avambraccio svanita, ma impressa nella propria mente. La ragazza lo fissò, allibita e felice.
«Ecco, ora staremo insieme per sempre».



おわり~




1Figlia dell'Incubo
2Chi è?
3Sono Akumuko
4Cosa sei venuta a fare qui?
5Paese del Vento
6Trovata!
7Pennello giapponese
8Capito, a dopo


Link EFP nel titolo
view post Posted: 9/1/2015, 19:44 Orange Mask - Fanfiction non DN

ORANGE MASK





Non era un'Uchiha.
Avrei dovuto pensare al benessere del clan, ma non ero riuscito a trattenermi dal compiere quella scelta decisamente egoistica.

C'era in corso la guerra: un tempo avevo visto morire familiari e nemici uno dopo l'altro, le città distrutte e la disperazione e la paura regnare sovrane, ora lo scenario era di altrettanta devastazione, ma non c'era nessuno ad assistervi.
Era destino che io ed Hashirama – dannato! - ci saremmo scontrati, ma perché diavolo quella maledetta situazione avrebbe dovuto complicarsi ulteriormente?!
Gli occhi di mio fratello mi avevano reso praticamente invincibile eppure non avevano captato quel pericolo: Senju avrebbe dovuto tener meglio sott'occhio sua sorella. Per quanto ne poteva sapere era morta in battaglia. Si capiva da come combatteva, il suo dolore. Sfogava la sua rabbia su di me, eppure pareva volersi trattenere, quasi provasse rimorso.
Che cosa stupida, la pietà. Non ha senso aver compassione di un nemico, quanto l'unica cosa che egli brama è la vittoria, il riscatto, non importa a qual prezzo.




___うちは一 族___



Il rombo dei tuoni squarciava il cielo tempestoso con ruggiti feroci, i lampi rischiaravano le nubi e l'aria umida, satura dell'odore della pioggia, della terra bagnata e del sangue.
Si poteva quasi dire che fosse un momento di tregua, più quieto. Stavamo recuperando le forze ed il chakra, quando con la coda dell'occhio vidi avanzare a passi strascicati dei compagni, che portavano con sé una donna.
Mi bastò osservarla un solo istante, notare sui vestiti l'assenza del ventaglio rosso e bianco, ma anzi, l'ultimo simbolo sulla faccia della Terra che avrei voluto vedere per attivare il Mangekyou Sharingan.
Erika Senju.
«Che bastardo, mandarci la sorella!», sputai velenoso.
«Va' all'inferno!», ringhiò lei alzando il capo verso di me, i capelli biondo scuro intrisi di fango dondolavano inerti ai lati del viso, gli occhi color caramello colmi di odio e disprezzo.
«Ci stiamo già finendo, per mano vostra!».
«Ed è ciò che meritate, Uchiha!».
La vidi rabbrividire per un attimo al mio sguardo iroso ed omicida. Scattai verso di lei, dandole un violento schiaffo su una guancia e afferrandole subito i capelli, tirandoli per farle alzare il capo e guardarla bene in faccia.
«Non. Osare», la minacciai, facendo un cenno ad uno shinobi alle sue spalle. Venne imbavagliata all'istante, legata mani e piedi, le manette che le bloccavano il flusso di chakra.
«Non mi abbasserò ad usarti come ostaggio», dissi. I suoi occhi non si separavano dai miei nemmeno per un secondo, attenti e guardinghi.
«Ma non sperare di tornare dal tuo clan».
E la portarono via.


La battaglia continuava, incessante, come la pioggia ad Ame no Sato; ancora morti, feriti, sembrava impossibile quanto pochi eravamo rimasti.
Non si poteva respirare un istante, combattevamo quasi senza ricordarci il motivo, ma volevamo vincere, per non perdere più nessuno e, soprattutto, per orgoglio del Clan.

La Senju restava chiusa nella tenda tutto il giorno. Non ero così spietato da non darle nulla da mangiare, dal momento che non era mai stata in battaglia, ma nonostante ciò, lei non toccava nulla. Per lo meno, ne ammiravo la forza di volontà.
Purtroppo era il tipo di persona che non si dà mai per vinta e non smise un solo istante di cercare di scappare.


___うちは一 族___



Avevo perso. Hashirama era diventato Hokage.
Come poteva Konoha riconoscerlo come tale? Dopo il massacro, la strage procurata al nostro clan durante la guerra, con che coraggio ci guardavano in faccia, i Senju?
Non ne avevo idea, ma decisi di andarmene lontano da lui e dal clan, che dopo i numerosi lutti e seppellimenti dei nostri cari cui eravamo stati costretti, desiderava solo la pace. Non riuscivo a comprendere come si potesse dimenticare, accantonare l'odio, la sofferenza. Era una vergogna, quel cedimento, e ne ero nauseato.

Nel giro di due giorni avevo già preparato tutto il necessario per partire, lasciarmi alle spalle quel villaggio e quella guerra infamante.
Peccato che ad Hashirama fosse venuta in mente l'idea di convocarmi. Che ipocrita, avrebbe potuto venirmi a cercare di persona. A quanto pare non ero alla sua altezza. Digrignai di denti, infuriato, mentre mi dirigevo al palazzo dell'Hokage, borse in spalla. Avrei sentito le fesserie che doveva riferirmi e me ne sarei andato senza troppi complimenti.
Camminavo svelto lungo i corridoi illuminati, diretto al suo ufficio, scocciato, quando una porta si spalancò: ne uscì una ragazza dai lunghi capelli biondo scuro e le iridi color caramello. Non appena la vidi assottigliai gli occhi, infastidito. Volevo passare oltre senza fermarmi, ma si accorse di me e prese a rincorrermi lesta.
«Madara! Madara, matte! (1)».
I suoi passi erano sempre più vicini, ma non avevo voglia di correre e mi raggiunse poco dopo, afferrandomi il braccio. Mi fermai all'istante, come scottato e mi liberai immediatamente dalla presa, lo Sharingan attivo.
«Non toccarmi», la gelai.
Lei assunse un'espressione colpevole, che si aggiunse a quella sera precedente. Sembrava temere che sparissi da un momento all'altro, si torceva le mani in grembo come trattenendosi dal fermarmi di nuovo usando il contatto fisico. Ero stupito, e sospettoso.
«Mi dispiace che le cose siano andate così», confessò infine.
Strinsi gli occhi.
«Che ipocrita. Se non avessimo perso non sareste così privilegiati. Non credo ti sarebbe piaciuto finire come noi».
Il suo sguardo si indurì.
«Non intendevo questo. Non dovevamo combattere».
Che ingenua.
«E' inutile discuterne, ognuno crederebbe di aver ragione», replicai in tono feroce. «Ci siamo battuti. Avete vinto».
“Per ora”.
«Non ho nient'altro da dire».
Le voltai di nuovo le spalle, diretto dal fratello per farla finita, ma lei non demorse, riprendendo a rincorrermi.

«No, non va bene così! Finiremo per scontrarci di nuovo! E non voglio che ai nostri clan vengano arrecate altre perdite».
Un lieve spostamento d'aria mi informò che aveva nuovamente allungato il braccio per trattenermi, ma fui più rapido e la sbattei contro il muro, tenendola per il collo. Lei però non pareva spaventata.
«Sei libero di non credermi», disse tranquilla, le mani strette alla mia per cercare di allentare la presa, e le sue parole sembrarono ad un tratto spaventosamente sincere.
«Come puoi dirlo?», domandai, per poi cambiare idea. «Non importa».
Dopotutto era una quisquilia. Tolsi la mano.
«Tu te ne andrai però», fece lei, accennando alla sacca che avevo in spalla.
«E dunque? Non ho più niente da fare qui. Persino il mio clan … ». La frase restò sospesa. Che pena, raccontarlo così, alla sorella dell'Hokage…
«Fammi venire con te».
“Nani?!”, ero troppo sconvolto per pensare altro, la sua proposta era stata come un fulmine a ciel sereno.
«Ma che diavolo dici?!».
Si avvicinò ancora, stringendo le dita alla manica del mio mantello. Stavolta non la scostai, tanto era lo stupore.
«Voglio venire con te», ripeté sicura. «Durante la guerra… ho dovuto assistere e curare i membri del mio clan, senza poter realmente fare qualcosa per contribuire mentre gli altri morivano, si sacrificavano! Dovevo stare in silenzio, avere sempre i jutsu medici pronti. Ma volevo aiutare la mia famiglia in modo concreto. Hashirama e Tobirama non me lo hanno permesso!», esclamò poi, frustrata. Non mi perdevo una parola. «Sai cosa significa?! Ora avete stretto una tregua, fondato Konoha, ma come posso tollerare di andarmene in giro così? Non avrei il coraggio di guardare in faccia nessuno!».
Le sue parole scendevano lente nel mio cervello, le assimilavo. Nemmeno io potevo, seppur per un motivo differente. Tuttavia, la sua proposta restava fuori discussione.
«Non è il ca-… ».
«Madara», mi interruppe, aspramente, stavolta. «Di cosa hai paura?».
Grugnai infastidito. La paura non sapevo neppure cosa fosse, non l'avevo mai provata. Solo rabbia, frustrazione. Ma il terrore mi era sconosciuto. Tuttavia tenni per me questi pensieri e la rimproverai.
«Solo perché non hai potuto scendere sul campo di battaglia non significa che abbia senso seguire me».

Che cocciuta che era.
«Invece sì. Potrà essere una scelta egoista quella di fuggire e non curare più nessuno, ma volevo combattere. E anche se nemmeno tu me l'hai permesso, ho capito… che non sei crudele come pensavo. E' stupido, ma anche tu volevi proteggere il tuo clan».
Scossi la testa, la mia pazienza andava scemando.
«Io volevo solo diventare più potente, Erika. E anche i tuoi fratelli. Non sono sono così perfetti come credi», rivelai in tono sarcastico, facendole finalmente abbassare lo sguardo.
«Non è questo il punto».
«Kami, Erika! Sto per lasciare il villaggio, perché diavolo vuoi seguirmi?!», sbottai.
Lei aprì la bocca, come per parlare, ma solo per poi richiuderla e mordersi un labbro. Rialzò lo sguardo, fiera e seria di nuovo.
«Che fastidio ti darei? Sono anche un medic-ninja».
Non mi aveva risposto e non comprendevo le sue ragioni: l'avevo imprigionata, maltrattata, insultata e nonostante i Senju avessero vinto voleva venire con me. Continuava a fissarmi fiduciosa, aspettando una risposta. Ero certo che avrebbe insistito senza problemi.
Alla fine, sbuffai esasperato, voltandomi e facendole un cenno con la mano.
«E va bene. Preparati».



Avevo deciso di ignorare l'incontro con Hashirama, ma d'altronde dubito che sarebbe cambiato qualcosa se ci saremmo incontrati.
Eravamo partiti da un paio d'ore, camminavamo senza curarci dei confini. Erika poteva vantare un'ottima abilità di resistenza, teneva il passo ed imparava in fretta. Mi aveva praticamente costretto ad insegnarle a combattere, cosa che apprese rapidamente e mi permise di testare il suo Mokuton, che come ogni Senju possedeva. Dopotutto, averle concesso di seguirmi aveva i suoi vantaggi.

I giorni cominciarono a confondersi, le settimane passavano, gli allenamenti si intensificavano. Ero sorpreso di non aver ancora percepito alcun chakra di Konoha, anche se – poco ma sicuro – ci stavano seguendo.
Lavoravamo bene in squadra: ognuno riusciva ad adattarsi agli stili di combattimento dell'altro, sorprendendo il nemico ad ogni attacco. Non ci avvicinavamo però ai villaggi ninja, certi che le voci riguardo il primo Hokage si fossero diffuse ed io volevo passare inosservato, cosa che il simbolo del mio clan, svettante sui miei abiti, mi impediva di fare, senza contare che viaggiavo con la sorella di Shodai al seguito.
Tuttavia sfruttavamo parecchio le Henge, tramite cui riuscii poco alla volta ad informarmi sulla posizione ipotetica di Kyuubi no Youko. Erika mi aiutava nella ricerca, ma chiaramente la tenni all'oscuro dei miei piani, certo che non li avrebbe approvati. D'altronde anche se l'avesse scoperto, sarebbe stato un problema del quale disfarsi non era complicato.
Hashirama non avrebbe vinto stavolta: avrebbe pagato per l'umiliazione che aveva fatto subire agli Uchiha.


Una sera finimmo alle onsen per riposare. La stazione termale era fuori mano, ma molto confortevole: una volta fatta arrivare una bottiglia di saké nella stanza aprimmo la porta in carta di riso che dava sulla vasca privata e ci svestimmo senza troppi complimenti, portando l'alcolico con noi ed adagiando gli asciugamani vicino al bordo.
Non appena mi immersi nell'acqua caldissima sentii i muscoli sciogliersi e accanto a me Erika sospirò soddisfatta, un sorrisetto sul volto.
«Aah, ci voleva proprio, vero?», chiese chiudendo gli occhi, mentre anche le labbra si piegavano all'insù: era l'immagine del relax, con la testa reclinata all'indietro, appoggiata alle spugne candide.
Sì, un attimo di tranquillità non poteva far male.
Stavamo in silenzio, a goderci la sensazione di liberazione che diffondeva il liquido caldo attraverso la pelle accaldata.
I miei occhi si spostarono istintivamente sul corpo dell'altra, celata dall'acqua appannata in superficie per il calore.
“E' una bella sensazione dopotutto”, pensai mentre attivavo lo Sharingan e sbirciavo sott'acqua, leccandomi le labbra. Non provai nemmeno a scacciare i pensieri che mi avevano invaso la mente, chi se ne importava che fosse una Senju?
Ad un tratto lei aprì le palpebre – probabilmente si sentiva osservata – e mi guardò sorridente.
«Beviamo?», domandò, ed io, rialzando lo sguardo, allungai una mano ad afferrare il saké e due tazzine, riempiendole quasi fino all'orlo.
«Alla nostra», brindò, e facemmo scontrare le porcellane per poi mandar giù l'alcolico. Dopo il terzo bicchierino le sue guance si erano tinte di un rosato particolarmente stuzzicante.
«Sai, Madara … credo di non averti mai odiato quanto avrei dovuto», fece ad un certo punto. In condizioni normali probabilmente un'affermazione del genere mi avrebbe irritato e stupito al contempo, ma in quel momento ero brillo e mi fece sogghignare: magari avrei potuto trasgredire la regola che mi ero imposto quando il mio clan l'aveva catturata durante la guerra, e cioè non sfiorarla neppure con un dito – in senso lato, chiaramente. D'altronde all'epoca l'idea mi ripugnava, ed umiliarla in quel senso non sarebbe servito a niente. Ma lei, seguendomi, aveva ripudiato il suo clan, seppur per motivi che non comprendevo e non ero a conoscenza neppure della sua consapevolezza riguardo le proprie azioni.
«Io invece sì», commentai in tono leggero, voltandomi leggermente verso di lei. Sospirò.
«Già, suppongo sia co- … ».

Non finì la frase perché le mi labbra si posarono sulle sue, succhiandole voracemente. La sua sorpresa durò mezzo secondo, mentre quello successivo fremeva e ricambiava con altrettanta enfasi. Mi spostai velocemente tra le sue gambe, che prontamente allargò, e cominciai a sfiorarle il corpo con audaci carezze, sentendo sotto i polpastrelli la liscezza e la morbidezza di quella pelle, mentre lei gemeva piano nel bacio ed intrecciava le dita ai miei lunghi capelli per attirarmi a sé. Le nostre lingue danzavano estasiate, allacciandosi e gustandosi a vicenda, mentre le pizzicavo i capezzoli, strappandole ansimi che finivano intrappolati nella mia bocca.
Complici l'alcool ed il mio desiderio, decisi che per una volta si poteva fare … era così inebriante che mi ritrovai a chiedermi come mai non l'avessi fatto prima.
«Madara... », sospirò lasciva, facendomi eccitare ulteriormente, e con gli indici scivolò lungo la mia spina dorsale, provocandomi un brivido, finché la mano non giunse alla mia intimità, prendendo a masturbarla sapientemente.
«Aah … », gemetti, e mi separai dalle labbra di lei poggiando la fronte sulla sua spalla, ansimando, per poi voltarmi verso il suo collo e prendendo a succhiarlo, mordicchiandone la pelle morbida più o meno forte, a seconda dell'intensità delle strette.
Non un solo pensiero coerente mi attraversò la mente, sapevo solo di star godendo, e parecchio.
Mentre la sua mano continuava a muoversi sul mio pene, le mie scesero lungo i suoi fianchi sottili, giungendo alle natiche sode e prendendo a palparle, mentre la sollevavo e le facevo allacciare le gambe al mio bacino. A quel punto i seni non erano più celati dall'acqua, ma ben visibili: il cambio di temperatura le fece irrigidire ulteriormente i capezzoli, uno dei quali finì subito nella mia bocca famelica.
«Nnh … », avevo la sua voce lasciva per il piacere nell'orecchio, cosa che mi portò ad indurirmi ancora di più.
La volevo, la desideravo terribilmente. Una mano si spostò sulla sua pancia morbida, violò l'ombelico, penetrandolo appena e strappandole un altro sospiro per poi giungere alla sua femminilità e cominciare a stuzzicarle il clitoride con l'indice, mentre l'anulare cominciava ad infilarsi nella vulva, sfiorandone le morbide pareti interne.
«Kami, Madara … ah … », miagolò, cominciando a spingersi verso le mie dita ed io passavo all'altro seno, lasciando il precedente con un piccolo morsetto che le fece spalancare nuovamente la bocca.
Sapevo che non avrei resistito ancora per molto, e anche lei non sembrava voler attendere a lungo.
Ripresi a baciarla famelico, uno scontro di denti e lingue che non voleva aver fine, necessario ed eccitante.

«Erikaah … ti voglio … adesso! … Nnh … », biascicai, bloccandole la mano con cui mi stava masturbando ed estraendo le dita dalla sua intimità. Afferrai il mio pene e lo diressi subito alla sua entrata, bisognoso, senza staccare gli occhi dai suoi, e la penetrai.
«Aaah! … », un gemito le sfuggì dalle labbra, che morse subito per tentare di arginare il dolore. Chiuse gli occhi, concentrata, mentre affondavo ancora di più, il suo petto che si alzava ed abbassava rapidamente.
«Resisti, ti prego», le sussurrai, appoggiando nuovamente le mie labbra sulle sue, dolcemente, leccandole piano. Mi artigliò le spalle, schiudendo le labbra ed intraprendendo una lotta per la supremazia con la mia lingua, cercando di distrarsi dal fastidio.
Non mi ero mosso, aspettavo trepidante il via libera; non sapevo come riuscissi a trattenermi, quando desideravo solo prenderla fino allo sfinimento.
«Muoviti», disse infine ,ed uscii da quell'antro caldo ed accogliente per poi ritornarvi con maggiore impeto.
Presi a spingermi velocemente in lei e l'aria si riempì quasi immediatamente dei nostri gemiti, mentre l'acqua debordava dalla vasca. Avevamo concentrato il chakra nei nostri bacini, rendendo il ritmo frenetico.
«Ma … dara … aaaaah! Sì … ».
Kami, sentirla così eccitata era una gioia per le mie orecchie e per il mio cazzo, sempre più duro. Eravamo avvolti dalla goduria, non sentivamo niente che non fosse l'altro e quando centrai un punto in lei che la fece ansimare senza ritegno, il piacere sfiorò livelli che non avrei mai pensato di raggiungere.
Erika continuava ad incitarmi mentre mi spingevo selvaggiamente in lei, stordito dalla libidine.
E poi esplosi, quasi senza accorgermene, riempiendola del mio seme che andò a mischiarsi con i suoi liquidi e gemiti liberatori sfuggirono al nostro controllo. La forza dell'orgasmo mi impedì di muovermi e rimasi in lei ancora qualche minuto, ansimando pesantemente, ascoltando il suo respiro affannoso, il battito del suo cuore.
Infine uscii, mettendomi a sedere, ma lei non mi lasciò, tirandomi verso di sé e baciandomi dolcemente, senza approfondire, mentre con una mano mi accarezzava il volto, lasciandomi stupefatto. Aprimmo gli occhi e ci guardammo: riuscivo a specchiarmi nei suoi, ancora lucidi per l'eccitazione di poco prima ed appoggiai la fronte sulla sua, le nostre labbra vicinissime, i respiri ancora non completamente regolari che si mescolavano.

«Madara … », mi chiamò.
«Sì?», domandai, quasi in trance.
«Sai quando ti ho chiesto di portarti con me, e mi sono trattenuta dal dirti qualcosa?».
«N-hn».
«Era solo … che sono innamorata di te».
Sgranai gli occhi e feci per allontanarmi, turbato, ma lei mi trattenne.
«No, ascolta. Magari tu non ricambi, ma… è ciò che sento io. Te l'ho detto, è da molto tempo che non ti odio più».
La guardavo ammutolito, senza sapere cosa dire.
“È una Senju, una Senju...”, insistevo a ripetermi, ma neppure la razionalità aiutava.
«Eppure quando eravamo in guerra non parevi così … bendisposta».
«Già … », fece lei pensierosa. «Ma era solo per via della battaglia, di ciò che mi avevano insegnato. Non chiedermi cosa sia cambiato, non lo so. Ma è successo».
Scossi la testa.
«Erika … non sono così buono come credi tu, anzi. Te l'assicuro. Non esiterei a distruggere Konoha se vi tornassi, né ad ammazzare i tuoi fratelli, come non ho esitato ad uccidere il mio».
Finalmente un lampo di paura le attraversò le iridi caramellate.
«Ma non mi imp- … ».
Le posai un dito sulle labbra.
«Non dire che non t'importa, lo so che è una menzogna».
Mi spostò il dito, voltando il capo altrove, lo sguardo basso.
«È una mia scelta».
La fissai, concentrato, per poi chinarmi e prenderla in braccio, portandola fino al futon, dove la depositai con delicatezza. Il suo sguardo era stupefatto, ma aveva ragione, la scelta era sua.
Mi sdraiai su di lei, sorreggendomi con le braccia.
«E va bene», concordai, e mi chinai a baciarla di nuovo.


___うちは一 族___


Avevo avuto un figlio. Kagami, così l'avevamo chiamato. Kagami Uchiha, dagli occhi e capelli scuri come la pece, e che ora aveva sei anni. Gli avevamo insegnato tutto ciò che sapevamo, era abile e molto intelligente, senza contare che possedeva già lo Sharingan a due tomoe. Tuttavia, la sua maggior abilità consisteva nel creare jutsu spazio-temporali di livello base, cosa che ci sorprese quanto sconcertò.
Non ci eravamo stabiliti da nessuna parte, viaggiavamo di continuo, fermandoci solo di tanto in tanto in qualche piccolo agglomerato. Kagami non sembrava infastidito dalla vita del ramingo e ogni qual volta ci imbattevamo in qualche nemico era pronto a combattere, lanciare kunai, predisporre trappole.
Man mano che passavano le settimane ero sempre più turbato: sentivo che era giunto il momento che tornassi a Konoha. Ormai possedevo il Kyuubi e avevo limato ogni dettaglio: tirarla per le lunghe non sarebbe servito a nulla, perciò da qualche giorno avevo deviato il cammino verso la Foglia. Erika se n'era accorta, ma non disse niente e quando finalmente varcammo le enormi porte del villaggio provammo una strana sensazione, nemmeno troppo piacevole. Kagami osservava incuriosito gli edifici colorati, i ninja che passeggiavano per strada.
Ad un certo punto Erika rallentò fino a fermarsi, e mi guardò preoccupata, stringendo il figlio a sé.
«Non so quanto ci convenga dirlo ai miei fratelli», disse accennando al ragazzino tra di noi.
«Pensavo lo stesso».
L'unica cosa da fare era tenerlo tra gli Uchiha, e al mio clan apparteneva, dopotutto.


Separarci da lui ci fece dolere il petto.
Avevamo raccomandato ad un mio cugino di prendersene cura, dal momento che non potevamo più occuparci della sua educazione. La sete di vendetta verso Shodai che covavo da annì si acuì ulteriormente al pensiero che non avrebbe mai riconosciuto Kagami, e mi bruciò le vene: non solo avevo subito umiliazioni da parte sua, ma se avesse saputo che la sorella era la madre di mio figlio avremmo finito tutti di vivere. Probabilmente non l'avrebbe scelto lui, ma Tobirama ed il villaggio diffidavano ancora fortemente degli Uchiha. Strinsi i denti.
Kagami ci aveva salutato con uno sguardo triste ed un po' duro, ma sapevamo che se la sarebbe cavata e sarebbe diventato forte.



Eccomi al piano di Hashirama. Erika era con il minore dei fratelli, che non appena l'aveva vista, aveva cominciato a porle infinite domande. Grazie a Kami avevo deciso di entrare nell'edificio dopo di lei, che come da accordi non disse nulla riguardante me o Kagami.
Toc Toc!
«Hai, doozo (2)», sentii dall'interno e spalancai la porta, avanzando sicuro verso la scrivania dell'Hokage che sollevò subito lo sguardo, stupefatto, e si alzò subito in piedi.
«Madara! … ».
Aggirò rapidamente il tavolo, venendomi incontro, ma fui più rapido ed estrassi la katana, puntandogliela al collo, a due millimetri dalla giugulare.
«Sei morto, Senju».




Pioggia.
Gocce di pioggia mi bagnavano i vestiti, attaccandomeli alla pelle, il mal di testa mi impediva quasi di aprire gli occhi.
Ero certo di essere prossimo alla morte, il sangue si mischiava alle lacrime che mi piovevano addosso, la ferita nel petto, aperta, rendeva ogni respiro un'agonia, come fossi infilzato da mille kunai.
Stavo perdendo pian piano la sensibilità delle dita, il manico della katana che stringevo era come impalpabile, inesistente. Sul mio palmo non percepivo più nulla.
Quella dannata Uzumaki (3)… come avesse fatto a sigillare il Kyuubi prima che potessi evocarlo non riuscivo a spiegarmelo, non fosse stato per lei avrei vinto, invece si era tutto concluso con l'ennesimo pareggio, ed il corpo di Hashirama ora giaceva di fronte a me, senza vita, ed io stavo per raggiungerlo.
Ripudiato dal clan, dal villaggio… non stavo lasciando il mondo con onore, come si conviene ad un Uchiha.
Per un attimo il volto di Erika mi balunginò davanti agli occhi, sostituito poi dall'immagine di mio figlio … ormai era lui il capo del clan, sarebbe divenuto inarrestabile e l'avrebbe vendicato, ne ero certo.
“Kagami … ora tocca a te …”



___うちは一 族___



Un giovane ragazzo sorrise amaramente, fissando con espressione dura la sontuosa tomba in cui giaceva il corpo del padre. Il nome del defunto spiccava sotto il simbolo del clan, fiammeggiante sul marmo bianco, il bel volto di lui rovinato dal tanto rammarico che vi era dipinto.
Era tutta colpa di quelle insensate lotte per il potere se era finita così: non spettava a semplici shinobi il controllo delle regioni e dei villaggi, sarebbe finita in un massacro, un lago di sangue. Il mondo era già stato sconvolto da due grandi guerre che non erano state utili ad appianare alcuna divergenza, anzi, i conflitti continuavano ad esserci, ed i ninja ad ammazzarsi a vicenda.
Era la pace che doveva regnare, per quanto fittizia o temporanea, pensò osservando la luna. Dopotutto il mondo shinobi era già pieno di menzogne, tradimenti e disonore.
L'astro argenteo si rifletté nel suo Sharingan e nella mente del giovane, poco a poco, cominciò a prendere forma un'idea …
Si diresse subito verso casa, raccattò le proprie cose e si preparò a partire, non aveva tempo da perdere.
Mentre frugava tra i suoi effetti gli capitò tra le mani una maschera di quando era ancora bambino, regalatagli dallo zio: era bianca, con una spirale color pece che convergeva nell'occhio destro. La osservò per qualche istante, ipnotizzato, per poi intascarla quasi inconsciamente, ed uscì dal quartiere.
Il suo clan, così fiero, relegato ai margini del villaggio, come fosse appestato, magra consolazione l'essere a capo della polizia di Konoha … Tobirama li aveva solo presi in giro.
Il ragazzo digrignò i denti, amareggiato, e superò le porte est, lasciando quel posto tanto odiato, pronto a cominciare le proprie ricerche.
La caccia al Juubi era aperta.



おわり~





1: Madara, aspetta!
2: Avanti!
3: Mito Uzumaki


Link EFP nel titolo
view post Posted: 9/1/2015, 19:43 Slave - Fanfiction non DN

SLAVE





«Kabuto».
La voce viscida e roca dell'uomo risuonò nella stanza male illuminata, in un tono che l'interpellato con disappunto riconobbe, e si avvicinò al Sannin.
«Orochimaru-sama», replicò, con voce altrettanto stucchevole, la luce riflessa sulle lenti del medic-ninja che rendeva la sua espressione più inquietante del solito.
«Chiamalo». L'urgenza era più che percepibile.
«Subito, Orochimaru-sama».
Le labbra dell'albino si storsero in una piccola smorfia mentre si avviava lungo i corridoi del covo. Sas'ke-kun si stava allenando duramente e non s sarebbe mai fatto convocare dal suo sensei in un momento del genere. Sapeva a chi fosse riferito quell'ordine e ogni volta che gli veniva impartito non poteva che esserne contrariato. Nonostante gli fosse stato sempre fedele (eccetto quando era ancora una spia di Sasori) non gli era mai stato concesso quel privilegio, che neppure il tanto agognato Uchiha poteva vantare.
Finalmente giunse alla cella del ragazzino. Non si curò di bussare, l'aveva di sicuro sentito arrivare, perciò inserì la chiave nella serratura e spalancò la porta.
«Tsuitekoi (1)», ordinò il medic-ninja, ed il ragazzino si alzò svelto in piedi, pronto a seguire Kabuto.

Se ne stava in silenzio, carico di aspettativa mentre la chioma pallida del servitore dondolava quieta davanti a sé. Non ricordava nulla che fosse accaduto prima di aver incontrato Orochimaru-sama, ma non se ne curava. A quell'uomo doveva la vita e si sarebbe sdebitato con lui in eterno, se necessario.
Infine, giunsero alla camera del Sannin, in quel momento di spalle, intento ad accarezzare con un lungo dito bianco la testa di un serpente.
«Per voi», annunciò Kabuto, lasciandoli quindi soli.
L'uomo allora si voltò, sorridendo malizioso al piccolo, passandosi la lingua sulle labbra, gli occhi colmi di voluttà.
«Orochimaru-sama», salutò rispettosamente chinando il capo, mentre il Sannin avanzava verso il minore, i cui capelli bluastri gli celavano l'espressione. Un serpente scivolò lungo le braccia del maggiore, sibilante, e con la testolina spinse verso l'alto il mento del ragazzino.
«Guardami, Soryu», ordinò, e subito si ritrovò a fissare due grandi occhi lilla, le guance leggermente imporporate. Semplicemente delizioso.
Si chinò verso il collo dell'altro, leccandolo lascivamente, mentre al piccolo sfuggiva un sospiro soddisfatto al sentire quella lunga lingua che lo solleticava.
Dopo averlo vezzeggiato gli bastò osservarlo un attimo, bisognoso di attenzioni, per eccitarsi definitivamente.
Premette sulle sue spalle, facendolo inginocchiare e Soryu, svelto, slacciò la cintura ingombrante di Orochimaru, abbassandogli i pantaloni e si ritrovò faccia a faccia con il grosso pene dell'altro. Non esitò un istante, accogliendolo subito in bocca e succhiandolo avidamente, mentre con le mani gli stuzzicava i testicoli gonfi.

Il Sannin ansimò di soddisfazione, mentre spingeva la testa del ragazzo verso la propria intimità, che Soryu fece scorrere contro le guance, il palato per poi calarsela in gola. Amava sentire l'erezione consistente del suo padrone, quasi bruciante, talmente in profondità da soffocarlo.
Non si permise neppure di respirare mentre succhiava quell'asta dritta e dura come il marmo.
Andava fiero del talento che possedeva, riuscire ad eccitare fino a quel punto Orochimaru era una sua prerogativa, neppure con Sas'ke raggiungeva l'apice. Era una puttana, certo. Ma la sua preferita.
«Basta così», rantolò Orochimaru, la punta del membro arrossata, la lunghezza tesissima.
In un secondo lo sbatté con violenza sul letto, svestendolo in un istante per poter godere di quel corpicino gracile ed estremamente sensibile. Senza perdere altro tempo afferrò la solita corda, fissandogli stretti i polsi alla testiera, legandogli attorno al capo una fascia di stoffa in modo che gli coprisse gli occhi: sentirlo completamente succube lo mandava letteralmente in estasi.
Scese immediatamente con la lingua lungo il torace magro ed acerbo del piccolo, prendendo a succhiargli e mordicchiargli i capezzoli, le mani pallide che correvano ad accarezzargli i fianchi sottili, le cosce delicate, fino ad assestarsi sul membro semi-eretto.
Soryu non soffocò il gemito di piacere mentre si spingeva contro le dita del padrone, stordito dalla goduria che provava, acuita dall'impossibilità di muoversi e vedere. Orochimaru non riservava quelle attenzioni a nessun altro, solo a lui.
La lingua lunga e serpentina del moro cominciò a lappargli il glande, per poi avvolgersi attorno all'intera lunghezza.

«Aaah... Orochi... maru-sah-mah... », gli occhi gli si rivoltarono all'indietro dal piacere. Kami, voleva solo essere preso, sentiva l'orgasmo sempre più prepotentemente vicino.
Anche il maggiore lo percepì e separatosi dal membro del piccolo, lasciò che venisse, non del tutto soddisfatto.
“Kukuku”, ridacchiò, mentre faceva girare Soryu di spalle, facendogli rialzare i fianchi. Gli palpò le natiche, per poi allargargliele ed insinuarsi nel buchino già violato centinaia di volte con la lingua. Sentì l'anello di muscoli contrarsi e dilatarsi, già pronto ad accoglierlo. Non aveva bisogno di prepararlo, lo faceva solo per poter godere dei gemiti osceni del minore. Perciò si ritrasse, osservando il panorama: la fessura pulsava leggermente, come se non attendesse altro che essere spaccata.
A quella visione il Sannin si leccò le labbra e terminò di svestirsi, per poi posizionarsi tra i glutei sodi e lisci del più piccolo. Pregustando quel caldo paradiso in cui di lì a qualche istante si sarebbe immerso, afferrò la propria erezione e lo penetrò con una sola, poderosa spinta.
«Aaaah!», Soryu si contorse sotto di lui, dolorante e voglioso. Il modo sadico di Orochimaru di prenderlo lo faceva impazzire, andava istintivamente incontro alle spinte dell'altro, incurante del bruciore, concentrandosi solo sulla sensazione di venire posseduto e quasi spaccato da quell'uomo. La sua asta, già fastidiosamente bagnata dai precedenti umori, era di nuovo eretta ed invitante, ma il Sannin non se ne curò.

Il ragazzino urlava il suo godimento senza vergogna, mentre cercava di trovare sollievo strusciandosi contro le lenzuola del letto. Sapeva che al suo padrone piaceva da morire sentire quanto lo mandava fuori di testa. All'ennesima spinta, quando vene sfiorato un punto in lui che lo mandò letteralmente in estasi provò tanto piacere che non temette di richiederlo, cosa che raramente si azzardava a fare.
«Sìì... aaaaaah... aaancora... Oromimaru... samaaah....!!», lo pregò e l'uomo, ammaliato dalla voce chiara e gaudente del ragazzo, prese a fotterlo con maggiore forza ed energia, stordito dalla goduria che stava provando.
Soryu sentiva le viscere in fiamme, il membro pronto ad esplodere un'altra volta. Poche altre spinte ed Orochimaru venne copiosamente in lui, con un gemito roco e pienamente soddisfatto, mentre anche Soryu finalmente si liberava. Si rigirò tremante, il respiro affannoso, mentre il Sannin gli scioglieva la benda. Il giovane era certo che non sarebbe riuscito a reggersi in piedi neppure volendo: ogni volta rimaneva senza energie, ma aveva sempre la sensazione che non gli bastasse mai. I suoi occhi lilla, liquidi per l'orgasmo, catturarono lo sguardo malizioso ed eccitato del maggiore che scese ad attaccargli il collo, seguendo solamente il suo istinto ed il ragazzo spalancava le gambe. Voleva ancora quel pene dentro di sé, sentirsi aperto, palpare il puro, bianco piacere.
Orochimaru gli afferrò le gambe, che si allacciarono subito alle sue spalle e riprese a spingere forte.

I gemiti dei due amanti rieccheggiavano nella stanza, mentre le candele andavano poco a poco esaurendosi. La cera colava densa dai bordi dei piattini, finché una goccia non cadde sull'addome del piccolo, che urlò.
«Nnh... aah!», il bruciore si mischiava alla voglia. Orochimaru se ne accorse e, afferrata la candela, cominciò a passarla, ancora scottante, sulla pancia di Soryu.
«Sìì... aaah... sìì...!», gridò stravolto dai brividi mentre il pene del Sannin entrava ed usciva da lui sconnessamente.
L'orgasmo travolse entrambi di nuovo, lo sperma vischioso del maggiore colava lungo le gambe del ragazzo, l'addome ancora coperto di seme e cera.
I respiri affannosi, soddisfatti saturavano la stanza e poco a poco il fiatare rapido di Orochimaru si trasformò in una risatina soddisfatta: quel piccoletto sembrava nato per farlo andare su di giri.
Rimasero entrambi sdraiati per qualche minuto, una patina di stanchezza cominciava ad avvolgerli, finché l'uomo non slegò Soryu, che abbassò le braccia, massaggiandosi i polsi arrossati ed Orochimaru si alzava, per poi rivestirsi svelto.
Il ragazzino quindi lo imitò, afferrando a sua volta i propri indumenti, celando la sua nudità all'altro.

Infine, inchinatosi leggermente, uscì, trovando Kabuto ad aspettarlo, fissandolo truce, per poi aggiustare la propria espressione in una più rispettosa quando Orochimaru gli ordinò di portarlo a lavarsi.
Una volta solo, il Sannin ghignò, lanciando un'occhiata al letto sfatto, e si passò nuovamente la lingua sulle labbra, assaporando il gusto dolciastro del prossimo incontro.



おわり~




1: seguimi. Ormai è un classico XD
Link EFP nel titolo
77 replies since 28/7/2010