Deserve, Assassin's Creed III (rosso)

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Kasra;
view post Posted on 9/1/2015, 19:55 by: Kasra;
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DESERVE





Preso!” esultò l’uomo trionfante, raggiungendo il cervo trafitto dal tomohawk nella radura ed estraendo dal torace ferito la sua arma.
Era stato un colpo da maestro: l’animale stava scappando, percepiva il pericolo, ma Connor era stato più rapido, un infallibile predatore.
Si accostò alle narici per verificare che non respirasse più ed una volta constatato che ormai non era altro che un cumulo dicarne da macello, assicurò il corpo ad una fune, pronto a trascinarselo a casa, quando ai margini del suo campo visivo qualcosa catturò la sua attenzione.
Sulla riva del placido lago vi era una figura esanime.
Incuriosito, si avvicinò, scoprendo una ragazza che, pallidissima, giaceva sulla sabbia, i vestiti zuppi di acqua gelida.
Stupito, si guardò intorno cercando di capire se venisse da un qualche luogo vicino, ma non c’erano tracce di altre presenze così riportò gli occhi scuri sulla giovane e con un sospiro risoluto se la caricò in spalla, sibilando per il ghiaccio che aveva imprigionato anche i suoi vestiti e si diresse verso casa, lanciando un’occhiata alla carcassa del cervo che sarebbe presto diventata preda del primo orso di passaggio.

Mentre si addentrava nella foresta, provava un certo disagio all’idea che la stava portando a casa di Achille, ma d’altronde non poteva fare altrimenti. Così, una volta arrivati, la adagiò con cautela nel lettino, rimboccandole le coperte nella speranza che riacquistasse - oltre al calore – anche un po’ di colorito.



Ci vollero almeno ventiquattr’ore prima che la sconosciuta riprendesse conoscenza, durante le quali Connor si era fastidiosamente sentito come una madre iperprotettiva, attenta al minimo cambiamento di temperatura del suo pargolo in modo da essere pronta se per caso avesse dovuto portarla all’ospedale. Tuttavia, Connor non aveva intenzione di ricorrere a mezzi così drastici, e in ogni caso non fu nemmeno necessario.
La vide aprire faticosamente gli occhi alla luce della candela sul comodino e sbadigliare mentre anche gli arti indolenziti ricominciavano a muoversi.
Il giovane non proferì parola mentre lei esaminava la stanza cercando di capire dove fosse, anche se, di certo, in quel luogo non viaveva mai messo piede.
Poi si accorse di non essere sola e puntò le sue iridi color nocciola sull’uomo che, seduto su una seggiola di legno, la osservava in silenzio.
Si guardarono, o almeno, così pensò lei dal momento che non riusciva a vedergli il volto. Lo identificò come il proprietario della casa, anche se non aveva idea del perché si trovasse lì.
Ad un certo punto, stanca di quell’assenza di suoni, aprì la bocca per chiedere almeno un’indicazione geografica e qualche informazione.
Tuttavia, inaspettatamente, fu l’uomo a precederla.
«Chi sei?» domandò, con uno strano accento che la ragazza non aveva mai sentito.
Trovava inappropriato quell’interrogativo, dal momento che non era lui a trovarsi con un estraneo chissà dove.
Nonostante ciò rispose, sperando che in quel modo avrebbe avviato una conversazione e che avrebbe scoperto ciò che desiderava sapere.
«Erika. Erika Edevain»
Tacque, fissandolo come a voler rigirare il quesito. Il suo sguardo era palese quindi o il giovane non aveva colto o l’aveva deliberatamente ignorata.
Invece, si alzò in piedi e le passò un panno sulla fronte ed il dorso dell’altra mano sul collo, accertandosi che la sua temperatura corporea fosse scesa ad un livello accettabile.
Erika sentì la pelle ruvida di lui sfiorarla e ne dedusse che era lui ad occuparsi di sé, caccia compresa e che difficilmente doveva vivere con qualcuno, nonostante la casa fosse piuttosto grande per una sola persona.
«Hai ancora bisogno di riposo» le disse lo sconosciuto, lasciando la stanza e la sua inquilina subito dopo.
Erika si chiese la ragione di tanta reticenza solo per un nome, magari era ricercato e temeva che lei facesse la spia? Eppure non pareva il tipo d’uomo da farsi intimidire d un manipolo di cacciatori di taglie.
Decise di lasciar perdere e pensare a ristabilirsi, come minimo in segno di rispetto per il suo salvatore.




Era passato un mese ed Erika alloggiava ancora in casa sua.
Connor non si spiegava la ragione della sua persistente presenza nella dimora di Achille, ma soprattutto stava cercando di comprendere come mai non avesse nemmeno accennato al discorso.
D’altro canto nemmeno lui aveva mi tentato di discuterne quindi non poteva lamentarsi di niente, almeno finché lei non l’avrebbe intralciato.

Un pomeriggio era a caccia. Aveva avvistato un cinghiale dei migliori ed era a due passi dal renderlo sua preda per quella sera. La bestia si fermò in una radura, a cibarsi prima di riprendere la marcia, ma quando era pronto a lanciare il tomohawk una feccia sbucò dallefronte, sfiorando il cinghiale e conficcandosi nell’erba.
L’animale, spaventato, scattò nella fitta boscaglia e Connor, dapprima sorpreso, gli fu subito dietro. Raggiunto l’altro lato dello spiazzo però, dovette arrestarsi nuovamente: il cinghiale teneva intrappolata una ragazza contro l’albero, impedendole di fuggire.
Sentendo una familiare irritazione, lanciò la sua arma, tramortendo la bestia ed evitando ulteriori fughe, per poi raggiungere la giovane.
Controllò che la preda fosse morta ma il colpo era stato talmente preciso che la trachea era stata mozzata come fosse burro. Aquel punto indirizzò la propria attenzione all’altra.
«Erika… è la terza volta che tiintrometti nella caccia. Non puoi rimanere a casa?» la rimproverò in tono duro, senza riuscire tuttavia a farla perdere d’animo.
«Se tu ti decidessi ad insegnarmi, non farei scappare ogni volta la cena. E poi a casa non ti sono utile» rimbeccò lei piccata.
«Non ho tempo di improvvisarmi insegnante di una ragazzina» continuò Connor ignorandola e legando il cinghiale a delle corde.
Erika si staccò dall’albero, sistemandosi l’arco sulla schiena e si affrettò ad afferrare una delle due cime per tirare con l’uomo.
«Hai un sacco di tempo libero invece» ribatté lei. «Non ho idea di cosa facessi prima, ma non credo che sarebbe tanto male»
Connor non rispose, continuando a camminare.
«E se tu fossi fuori e qualcuno venisse a rubare a casa? Non sarei in grado di fare niente fosse»
Ancora silenzio. Connor cercava di ignorarla, ma la ragazza era più cocciuta di quanto pensasse.
«Perché non impari da sola?» le suggerì amaramente.
«Come hai fatto tu?»
« … »

A quel punto Connor si fermò, smettendo di trascinare il cinghiale.
«E va bene… ma bada, non voglio chiacchiere inutili, esulti o imprecazioni. Se sbagli, rifai»
Erika annuì, seria.
«E soprattutto, il tempo che ti dedicherò sarà più che sufficiente, niente lezioni extra»
Lei esitò per un stante, prima di ammettere che non poteva chiedere oltre.
«Va bene»



Erika, con la fronte imperlata di sudore ed il fiatocorto, correva, maledicendo la vita che aveva condotto in Inghilterra e poi nel Maryland.
Non ha senso…che le donne… non possano… difendersi da sole…” pensò, stringendo i denti per l’ultimo centinaio di metri, finché non raggiunse il lago e si sdraiò a pancia in su sull’erba, il sole negli occhi, il petto che si alzava ed abbassava velocemente, pensando alle settimane che stava passando con il suo maestro a diventare quello che aveva sempre voluto essere: una donna capace di badare a sé stessa.
Connor la faceva correre, saltare, fare esercizi fisici di ogni tipo, attività di tiro con differenti armi e simulazioni di lotte corpo a corpo.
Dopo la prima decina di giorni, i peggiori senza dubbio, aveva cominciato ad abituarsi alla routine: aveva migliorato enormemente la sua resistenza e riusciva a padroneggiare l’arco, pertanto aveva deciso di concentrarsi sull’arrampicata e l’equilibrio: passare da un ramo all’altro ancora le risultava difficile quanto bloccare i montanti nelle lotte frontali e doveva irrobustirsi le braccia ancora un po’.
Il suo mentore non la seguiva per tutta la durata dell’allenamento, ma verificava le sue condizioni al termine e la aiutava a migliorare negli scontri fisici.

La tenacia di Erika la portò ad ottenere ottimi risultati in un lasso di tempo che Connor non si aspettava ed una sera, mentre cenavano, si concesse un complimento che le fece brillare gli occhi, per poi abbassare nuovamente il capo verso il piatto e mormorare un grazie carico di riconoscenza, il cuore che le batteva.
Attendeva di sentire quelle parole da mesi e finalmente le aveva udite: aveva sperato di riuscire a scoprire qualcosa dell’uomo,della sua vita, ma anche quando gli aveva rivelato qualcosa di sé stessa non aveva ottenuto reazioni.
Non sapeva esattamente come mai si fosse affezionata tanto a lui, ma era certa che riuscire ad ottenere un riconoscimento da quell’uomo sarebbe stata una soddisfazione enorme.




Quella mattina Connor le aveva dato ordine di andare a recuperare dell’acqua al lago. Erika l’aveva squadrato sbuffando, ma lui aveva chiuso il discorso lasciando la stanza e lei era stata costretta ad obbedire senza possibilità di replica.
Aveva già riempito le tre giare quando udì degli scricchiolii provenienti da nord-ovest. Pensò a degli scoiattoli o ad un branco di cervi, ma aveva un brutto presentimento.
Così, adagiate le giare contro un tronco, estrasse un pugnale ed avanzò tra le conifere. Ad una ventina di metri si arrestò di colpo e, attenta a non emettere il più flebile rumore, si concentrò sui suoni in avvicinamento, finché non udì delle voci.
Bracconieri? Briganti?” si chiese, quasi decisa a lasciarli andare, se non fosse che in quel frangente uno di loro accennò alla casa bianca vicino allo strapiombo.
Casa sua, no!”imprecò, stringendo più forte la lama nel palmo ed affacciandosi per contare i suoi rivali.
Uno… due…”mormorava, finché non terminò il calcolo.
Sette… posso farcela…
Ripose il pugnale, dato che una volta lanciato non avrebbe avuto altre armi e si sistemò, uscendo allo scoperto come niente fosse, fingendo di non vederli.
Come sperato, il manipolo di malfattori si accorse della sua presenza e, scambiatisi un cenno d’intesa, i sette le si avvicinarono, cominciando subito ad importunarla.
Quello che sembrava il capo fu il primo a parlare, mostrando i suoi denti ingialliti mentre sorrideva viscidamente.
«Ehi bellezza» la salutò, ed Erika si trattenne dal mollargli un gancio dritto sulla mascella squadrata che si ritrovava. «Che ci fa un bocconcino come te a spasso per i boschi del New York?»
«Ero andata a prendere acqua ed erbe per il mio padrone, signore» rispose lei, ingenua e remissiva con un piccolo inchino nel capo.
Subito un mormorio eccitato corse tra gli uomini, che incitavano il loro leader a domandare ulteriori informazioni mentre alcuni fischiavano rozzamente, cercando di allungare le mani sulle sue curve.
«E chi sarebbe il tuo capo, dolcezza?»
«Oh, non posso dirlo» sussurrò lei scusandosi. «Ma abita nella villa bianca, vicino al precipizio»
«Interessante… »
esultò soddisfatto il capo, accarezzandole una guancia con le dita sporche e tozze e facendola rabbrividire con un’unghia sudicia e spaccata, mentre lei cercava di reprimere il disgusto.
«Magari potresti condurci lì, eh?» domandò con voce zuccherina.
Erika sorrise. «Si,potrei, ma… » si separò dalle dita dell’uomo, indietreggiando. «Non lo farò» concluse con voce sicura, estraendo rapidamente il pugnale e ferendo repentinamente la gamba dell’uomo dietro di lei. Sentì la lama affondargli nella coscia fino al manico, il sangue caldo di lui bruciarle la mano.
Le urla strazianti riempirono la piccola radura mentre Erika estraeva l’arma e tornava all’attacco.
Meno uno…
Il capo della banda la fissò un attimo tra lo sconvolto e l’eccitato, passandosi la lingua sulle labbra secche e spellate a quella vista.
La bambina ha del fegato…” pensò, compiaciuto all’idea di quella sfida.
Con un cenno delle dita ordinò ad altri due di attaccarla, ma Erika, fulminea, schivò il primo fendente, scansandosi ed abbassandosi al colpo dell’altro; da quella posizione ne approfittò subito e conficcò il pugnale nella pancia del ladro, che rantolò come un topo ferito, accasciandosi al suolo. La caduta dell’uomo però le fece perdere l’equilibrio e gli altri compagni colsero l’occasione: rapidamente la accerchiarono, il pugnale insanguinato accanto al malfattore ferito.
Erika, disarmata, indietreggiò, ostentando tuttavia uno sguardo sicuro e controllando a che altezza fossero i rami. Sfortunatamente era finita in un piccolo boschetto di aceri e non c’era modo di evadere con quella via di fuga. Più presto di quanto si aspettasse, la sua schiena si infranse contro il tronco della pianta.
Maledizione, sono in trappola!
I cinque uomini rimanenti sorridevano malignamente, mangiandosela con gli occhi pur sapendo che spettava il primo giro al loro capo.
Erika, con muto ribrezzo, tirò un potente calcio inmezzo alle gambe del più vicino che, chinatosi per il dolore, lasciò un varco.
Lei scattò, piantando un piede sulla schiena dell’uomo usandola come trampolino per il salto.
Ma fu troppo lenta.
Il capo le afferrò fulmineo la caviglia che aveva usato per darsi lo slancio, facendola rovinare in terra.
I tre uomini ancora in piedi si fiondarono immediatamente sulla ragazza, bloccandola braccia e gambe e cominciando a spogliarla, ignorando le sue urla e reggendosi al tronco lì vicino per i continui strattoni che dava.
Il capo, nel frattempo, provvedeva a slacciarsi la cinta e godersi lo spettacolo della fanciulla che si ribellava. Non avrebbe resistito ancora molto, si sentiva sempre più eccitato ed infatti in quel frangente calò su di lei, cercando di abbassarle i pantaloni ed estrarre la sua erezione dai propri.
«Allora dolcezza, sei pronta?» sogghignò, ma Erika gli sputò in faccia, senza smettere di dare violenti strattoni agli uomini.
«Tu… piccola insolente, come osi... » la minacciò e fece un cenno agli altri i quali, soddisfatti, le strapparono la camicia, scoprendole il seno e cominciando a palparla.
Erika urlò, mentre il capo di quegli schifosi energumeni si premurava di aprirle le gambe ormai nude.
«Nooo!» strillò lei ed un attimo prima che il malvivente la stuprasse, se lo vide crollare addosso, la guancia ispida sul suo ventre.
Il cuore le batteva all’impazzata per lo spavento e come lei, anche gli altri si immobilizzarono, fissando il tomohawk che spuntava dal cranio insanguinato del loro leader.
Alzarono timorosamente lo sguardo verso l’alto e subito lasciarono le braccia di Erika che, rialzatasi, afferrò il pugnale e lo conficcò nella schiena del più vicino, mentre Connor ammortizzava il salto con le ginocchia ed estratta la piccola ascia dal capo dell’uomo, in due rapidi colpi faceva fuori i superstiti.
Uno stormo di uccelli si levò dalle cime degli alberi e quando tacquero, la radura parve ancora più silenziosa, l’atmosfera sospesa.
Poi Erika lasciò cadere il pugnale sull’erba secca e rapidamente si riallacciò gli abiti sgualciti.
Connor taceva. Recuperò il tomohawk, riassicurandolo alla cintura e si voltò per tornare a casa. Avrebbe voluto rimproverarla per la sua incoscienza, ma l’orgoglio lo fermò.
Si morse la guancia, prima di prendere fiato e dirle di andare, ma non fece in tempo a parlare che venne bloccato dalla voce di lei.
«Questa… è già la seconda volta che mi salvi»
Notò l’amarezza e la vergogna in quelle parole ed Erika sentì le membra prudere. Dopo tutto quel tempo non era ancora in grado di difendersi come avrebbe voluto e sicuramente Connor avrebbe pensato di aver sprecato mesi interi ad istruire un’incapace.
Strinse i pugni e prese a camminare. Non voleva guardare la sua schiena, si sentiva come se non l’avrebbe mai raggiunto così. Allungò il passo, ritrovando le giare d’acqua che aveva depositato prima del combattimento e se le issò in spalla, pronta a riprendere il cammino.
«Ratonhnhaké:ton»
Erika si voltò, confusa. Sperava di incontrare lo sguardo di lui, ma l’uomo teneva ancora il viso celato dal cappuccio.
«È il mio nome. Non te l’avevo ancora detto»
«Già»
commentò lei in un sussurro.
Se n’era ricordato. La cosa le infuse una strana e calda soddisfazione. Lo guardò accennando un sorriso mentre il suo sguardo correva ai corpi senza vita dei malviventi dietro di loro.
«Grazie» mormorò e Connor non sapeva se quella riconoscenza fosse per il salvataggio o la rivelazione.
Riprese a camminare con Erika accanto, un po’ ansante per il recente scontro, diretto a casa.
Lei non poteva saperlo, ma sotto l’ombra del cappuccio era celato un sorriso sincero.



Connor si affrettava a tornare alla scogliera, dopo l’accaduto dei briganti e con Erika sempre più esperta di quei boschi era improvabile che qualcuno tenesse sott’occhio la casa. Non che fosse preoccupato di subire furti, ma non era sua, quella dimora e desiderava che l’anima di Achille potesse riposare in pace.
Nelle ultime settimane poi aveva cercato di ignorare quella voce nella sua testa, voce che continuava a tentare di fargli capire perché cercasse il più possibile di evitare lo sguardo della ragazza, in modo differente da come aveva sempre fatto. Non più per rimanere un mistero ai suoi occhi, ma perché la vicinanza lo rendeva nervoso. Aveva notato il volto di Erika rabbuiarsi più volte di fronte al suo atteggiamento scostante e ogni volta sentiva una spiacevole nausea invadergli lo stomaco.
Aveva deciso di ignorare quelle sensazioni e concentrarsi solo su ciò che faceva di solito, incluso occuparsi dei trasgressori.
Passando per la radura del lago però, qualcosa lo distrasse. Dovette rimettere prima a fuoco per ritrovare ciò che aveva catturato la sua attenzione e quando lo individuò, gli si seccò la gola.
Sotto l’acqua della cascata, un’affusolata e pallida figura stava allungando e rilassando le braccia verso l’alto, la testa reclinata all’indietro, la lunga chioma color miele scuro sciolta sulla schiena snella ed umida.
Avidamente, senza accorgersene, l’uomo seguì con lo sguardo le curve si quel giovane corpo oltre i lombi, perdendosi nelle rotondità del bacino e scivolando per le gambe, ammaliato.
Si ritrovò con la mente incapace di formulare pensieri razionali mentre Erika gettava ancora una volta il capo sotto l’acqua ed un paio di ciocche le finivano oltre le scapole, nascoste al suo sguardo.
Poi la ragazza fece per voltarsi e Connor, facendo un passo in avanti per poter osservare meglio, si sbilanciò, perdendo l’equilibrio e rovinando tra i cespugli sottostanti.
Attirata dal tonfo, la giovane si voltò verso il rumore, per verificare se si trattasse di cacciatori o selvaggina, ma quando vide il familiare copricapo candido e la veste tinta dei colori nazionali istintivamente si ritrasse, coprendosi con le braccia e le mani dove i capelli non arrivavano, arrossendo ma senza indietreggiare. Sentiva il cuore batterle all’impazzata speranzoso ed ansioso.
Tuttavia la caduta parve far riscuotere l’uomo che, lanciandole un’ultima occhiata, prese la rincorsa e saltò sugli alberi, sfrecciando verso casa spinto dal forte desiderio di lasciarsi alle spalle quel luogo il più in fretta possibile.
Erika vide il mantello svolazzare dietro di lui e sparire tra le fronte, rapido come uno sbattere di ciglia. Continuò a fissare il punto dove lui era scomparso finché, scuotendo la testa e sospirando profondamente, si tuffò elegantemente nello specchio d’acqua ai suoi piedi, diventando un’ombra rosata e sfumata sotto la superficie limpida e vibrante.



Non riusciva a levarsela dalla testa. Nonostante ci avesse provato insistentemente, l’immagine di Erika sotto la cascata continuava a popolargli i pensieri. Aveva tentato di calmarsi sedendosi sul divano, facendosi una doccia ghiacciata, ma quella strana e nervosa pulsazione che si era impossessata delle sue membra non accennava ad abbandonarlo.
Alla fine aveva optato per sfogare la sua tensione con l’attività fisica, così, indossato un paio di pantaloni di pelle chiara, montò sull’albero più vicino e, tenendosi appeso solo con le game, calò all’indietro, tenendo le mani ben salde dietro la nuca per poi fare leva ed arrivare col petto a toccarsi le ginocchia.
Sentiva tutti i muscoli contrarsi ed allungarsi, il familiare ma sopportabile dolore all’addome, ma continuò imperterrito a concentrarsi sull’esercizio finché non udì dalla vetrata aperta che dava sul parco il portone d’ingresso sbattere.
In un attimo tutta la calma che era riuscito a guadagnarsi svanì come neve al sole. Prese un profondo respiro e dopo essersi massaggiato le tempie, aver afferrato una maglia di cotone intrecciato dal portico ed essersela infilata, avanzò nel salone, incedendo con aria decisa.
Sentì i passi di Erika dirigersi verso la scala e seguitoli, la bloccò col piede sul primo gradino, in tono serio.
«Erika… aspetta» la chiamò grave e lei si voltò nella sua direzione.
Aveva legato i capelli ancora umidi in una treccia che teneva sulla spalla, in volto un’espressione stupefatta, incredula ed imbarazzata che lo sorprese.
Capì solo in un secondo momento che era la prima volta che lo vedeva senza cappuccio, a volto scoperto. Una piccola parte di lui si domandò che impressione le dovesse aver fatto, ma non ci fece più di tanto caso.
«Cosa succede?» rispose infine lei, con una nota di preoccupazione nella voce.
«Credo che… questa situazione sia durata anche troppo»
Lei sgranò gli occhi, le labbra schioccarono nel separarsi.
«Che intendi dire?»
Il suo cuore dolse mente si preparava a cacciarla via.
E’ anche per questo che deve andarsene
«Non puoi più stare qui, questo non è il tuo posto» dichiarò Connor duro e sbrigativo, i suoi battiti che, furiosi, gli martellavano nelle orecchie mentre si voltava ed allungava il passo verso l’uscita, considerando chiuso il discorso.
«Come scusa?» esclamò lei shokkata, facendo un passo avanti e scendendo dalla scala, tirandolo per un braccio per farlo girare e guardarla in volto. «Tu mi avevi detto che… »
«Che potevi restare finché non ti fossi rimessa»
replicò lui liberandosi dalla stretta. «E mi pare di aver fatto anche troppo per te»
La ragazza ingoiò il groppo che le era salito in gola e sollevò fieramente il mento.
«Se è per quello che è successo oggi alla cascata, i-... »
«No, non c’entra nulla»
mentì lui in tono severo, troncando la frase. «Quindi ora prendi la tua roba e vattene»
Erika però non aveva intenzione di dirgli addio in quel modo, quindi lo tirò nuovamente, stringendo più forte e guardandolo accigliata.
«Mi avevi promesso che mi avresti insegnato tutto ciò che sai» gli ricordò.
«Quel patto non è più valido» ruggì lui, sciogliendo la presa ancora una volta mentre lei spalancava la bocca, oltraggiata, pronta a scatenare su di lui la sua furia ed indignazione. Allungò una mano rapidamente, pregustando l’infrangersi delle proprie dita sulla guancia di lui, ma l’uomo fu più rapido e la bloccò, inchiodandole il polso al lato della testa, contro il muro. Erika soffocò un gemito di dolore.
«Sei davvero… » si morse la lingua per impedirsi di parlare mentre il cuore minacciava di esploderle in petto. Non era abituata a tutta quella vicinanza, dentro si sentiva in tumulto.
«Davvero cosa?» rimbeccò lui denigratorio, immobilizzandole anche l’altra mano quando questa si levò per vendicare vanamente la gemella.
Le nocche di Erika scricchiolarono per l’impatto contro la parete, mentre l’aria le veniva a mancare: il corpo del giovane a causa dell’impeto di quel gesto, si era schiacciato contro il suo, tanto che potevano sentire il fiato l’uno dell’altra e vedere il proprio riflesso nei loro occhi.
E poi, nonostante fosse senza fiato ed energie per quella discussione tesa, Erika si sporse in avanti, catturando le labbra del giovane con le proprie, cercando di trasmetterli tutta la confusione e la frustrazione che stava provando.
Connor però non rispose e quando la ragazza si separò per riprendere aria la fissò turbato.
Erano entrambi sorpresi di non riuscire a sentire i propri cuori che pompavano furiosi, il cui suono era coperto dai loro respiri profondi ed affannosi. Le loro iridi non si separarono per un solo istante, ognuno cercando di capire cosa stesse pensando l’altro.
Quando poi però Erika cominciò a pentirsi del suo gesto e fece per distogliere lo sguardo, Connor unì le loro bocche con irruenza, il suo corpo che cercava istintivamente un contatto con quelle dell’altra. Erano morbide e calde, quelle labbra, qualcosa in esse gli impediva di separarsene.
Solo quando si ritrovarono nuovamente entrambi ansanti Connor le lasciò i polsi, permettendole di allacciargli le braccia al collo esentire le sue forme sul proprio torace.
Erano storditi, ammaliati, quasi ubriachi ed il cervello di Connor si sconnesse definitivamente, perdendo ogni capacità logica e razionale.
Le sue mani le accarezzarono lascivamente i fianchi, intercettando dapprima la morbida ed eccitante concavità laterale dei seni e lacurva del bacino per poi sgusciare verso il bordo anteriore della camicia dilino di lei, strattonandola e prendendo a tirarla verso l’alto. Nel contempo Erika si affrettava a condurre il compagno di sopra, tirandolo mentre lei cominciava a salire i gradini camminando all’indietro.
A metà della scala il giovane riuscì finalmente a farle passare la maglia oltre la testa e gettarla sui gradini. L’istante successivo era nuovamente ancorato ai fianchi di Erika, incidendo con irruenza i segni delle proprie dita sulla pelle di lei mentre sentiva le morbide colline della giovane schiacciarsi ed espandersi sul suo petto nudo, i capezzoli che si sfioravano leggermente facendoli ansimare.
Le mani di Connor scesero ancora, arpionandosi al fondoschiena della ragazza e toccandole un gluteo con delicatezza, indirizzandole sue dita in mezzo alle gambe di lei e sfiorandola attraverso i corti pantaloncini di pelle.
«Ngh… » gemette lei, soffocando le labbra nella spalla del compagno che continuava imperterrito a torturarla lentamente, continuando a salire le scale. Erika si era aggrappata alla schiena di Connor, incapace di muoversi, così, mentre lui giungeva in cima alla rampa, lei si ritrovò praticamente seduta su una delle sue gambe, la sua intimità che sfregava fastidiosamente contro il tessuto.
Prese inconsciamente a strisciarsi su di lui, mentre Connor le slacciava concitato anche quell’indumento, pronto ad abbandonarlo nel corridoio.
Ancora pochi passi e sarebbero giunti alla sua camera da letto. A quel punto l’uomo era riuscito nella sua impresa, ritrovandosi la compagna nuda e fremente stretta al suo corpo.
Dio…” pensava, stordito dal desiderio. La fece rimettere in piedi, trascinandosela fino all’uscio che era la loro meta. Erika però aveva ripreso a baciarlo, impedendogli di aprire la porta.
L’aveva spinta contro il muro e baciata furiosamente sulla bocca, sul collo, sulla clavicola, sul seno, carezzando la gamba che lei aveva allacciato al suo fianco.
Poi si riscosse abbastanza da poter girare il pomello metallico ed entrare. Iniziò immediatamente ad armeggiare con i propri pantaloni, mentre Erika si slacciava i sandali in cuoio e li abbandonava sul tappeto.
Quindi, completamente svestita, si chinò di fronte all’uomo, strattonandogli l’indumento verso il basso e liberando la sua pulsante e gonfia erezione.
Ingoiò a vuoto, prima di fiondarvisi, prendendola in bocca e dandole delle lunghe lappate, donando all’uomo un po’ di sollievo. Connor gemette, la testa che gli vorticava mentre intrecciava le proprie dita ai capelli biondo scuro della compagna, reclinandola testa all’indietro.
«Aah… Erikaaah… »
Sentire quella lingua calda e quelle labbra vezzeggiare la sua erezione a quel modo, mentre con le mani gli stuzzicava i testicoli lostava facendo lentamente impazzire. Aveva bisogno di appoggiarsi, reggersi a qualcosa o sarebbe crollato.
«Erika… baah…!» quasi urlò quando sentì la lingua di lei quasi avvolgerglisi attorno, inumidendogli la cappella.
Ingoiò, accaldato. Si sentiva madido di sudore, cercava disperatamente un modo per spegnere il fuoco che gli attanagliava le viscere.
«Basta» la pregò flebilmente, il cuore che gli rimbombava nei timpani mentre lei si rialzava, asciugandosi un rivolo di saliva che le scendeva dal labbro e attirando per una spalla il compagno verso il letto. Vi si sdraiò supina, a gambe aperte, in una posizione che pareva urlare “fammi tua ora”.
Dopo averla squadrata per un istante, trattenendosi dal leccarsi le labbra, si avvicinò al talamo, salendovi e sovrastando il corpo della compagna. Calò su di lei, schiacciandosi sul suo ventre, mentre la baciava focosamente e lui si sfregava tra le sue gambe, entrambi terribilmente umidi.
Erika si aggrappò alle sue spalle, gli cinse i fianchi e Connor, portata la propria virilità all’entrata di lei, senza attendere un secondo di più, la penetrò d’un sol colpo.
«Aah!» Erika ansimò pesantemente, mentre gli graffiava le spalle e l’uomo usciva, ma incapace di restare a lungo lontano da quel calore.
Il ritmo divenne subito incalzante, furioso, rapido, turbolento. Non riuscivano a saziarsi l’una dell’altro, cambiavano continuamente posizione, alternavano la supremazia finché Erika non si ritrovò sopra il compagno e cominciò a muovere il bacino, impalandosi su di lui.
Mente Connor muoveva quasi in trance le mano sui suoi fianchi, sul ventre e le stringeva i glutei e i seni, lei ansimava profondamente, i loro nomi divenuti un’erotica litania urlata fra un sospiro di piacere e l’altro.
Connor vedeva le collinette danzanti di Erika si di lui, eccitandosi ulteriormente e così, in preda all’estasi, si tirò con fatica a sedere, stringendo la ragazza mentre si gemevano nelle orecchie.
L’uomo le attaccò ancora una volta l’orecchio, il collo, succhiando e leccando con avidità quella morbida pelle accaldata, mentre entrambi raggiungevano l’apice.
Erika, che aveva già toccato il piacere diverse volte, sentì Connor venirle dentro e cedette, stremata, sulle soffici coltri del talamo, insieme al compagno.
I loro petti si alzavano ed abbassavano rapidamente, le gole arrochite, i corpi pieni di segni e tremanti sotto il venticello serale di fine stagione.
Ormai i colori brillanti del tramonto erano stati sostituiti da una scura e delicata trapunta di stelle.
Non dissero niente, non c’era bisogno di parole. Poco alla volta i loro respiri si calmarono ed Erika posò il capo sul torace dell’uomo, che la stinse a sé.
Qualche minuto dopo udì la compagna dormire serenamente accanto al lui e, probabilmente per la prima volta da quando ricordasse, sorrise senza più pensare che gliel’avrebbe negato ancora.
La luna splendeva, alta nel cielo.



Epilogo



Il lieve tonfo delle sottili zampe della cerva era l’unico rumore che si udiva nella fitta foresta che li circondava.
La notte precedente aveva piovuto ed ora l’aria era satura dell’odore forte dell’humus bagnato, del muschio e delle felci, quasi fosforescenti nella foresta immersa nella bassa ed acquosa nebbiolina del mattino.
I due cacciatori seguivano svelti la preda, le pupille fisse sul capo affusolato dell’animale, mentre dietro di sé lasciavano rami spezzati e terriccio umido e divelso dagli zoccoli.
L’uomo incappucciato mise mano alla cinta, saldando le dita attorno al manico della sua arma ricurva ed affilata, che scintillò inquietante sotto un raggio di sole filtrava attraverso le fronde alte e fitte.
La estrasse, sollevandola letalmente sul capo per accumulare potenza ed una volta caricato il lancio fu pronto a scagliarla.
Un secondo prima che mollasse la presa però, una freccia gli sibilò leggera accanto all’orecchio, distraendolo e facendogli sbagliare il tiro.
Si fermò di colpo per evitare di cadere, mentre il tomohawk si conficcava in un tronco mentre la punta dell’altra arma trapassava il collo della cerva, tramortendola ed abbattendola al suolo.
Rimase di sasso, mentre la compagna lo superava, raggiungendo la preda, abbassandosi il cappuccio e risistemandosi l’arco sulla schiena, la faretra ancora pressoché piena.
Tastò l’animale nella zona di addome e stomaco, appurando che era morto.
Sorrise, colpito, estraendo la sua ascia dalla corteccia ed avvicinandosi all’altra, che replicò con uno sguardo soddisfatto.
Ormai non aveva più bisogno di imparare nulla. Era diventata degna di stare al suo fianco.

THE END

 
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