Orange Mask, Naruto (rosso)

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Kasra;
icon12  view post Posted on 9/1/2015, 19:44 by: Kasra;
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ORANGE MASK





Non era un'Uchiha.
Avrei dovuto pensare al benessere del clan, ma non ero riuscito a trattenermi dal compiere quella scelta decisamente egoistica.

C'era in corso la guerra: un tempo avevo visto morire familiari e nemici uno dopo l'altro, le città distrutte e la disperazione e la paura regnare sovrane, ora lo scenario era di altrettanta devastazione, ma non c'era nessuno ad assistervi.
Era destino che io ed Hashirama – dannato! - ci saremmo scontrati, ma perché diavolo quella maledetta situazione avrebbe dovuto complicarsi ulteriormente?!
Gli occhi di mio fratello mi avevano reso praticamente invincibile eppure non avevano captato quel pericolo: Senju avrebbe dovuto tener meglio sott'occhio sua sorella. Per quanto ne poteva sapere era morta in battaglia. Si capiva da come combatteva, il suo dolore. Sfogava la sua rabbia su di me, eppure pareva volersi trattenere, quasi provasse rimorso.
Che cosa stupida, la pietà. Non ha senso aver compassione di un nemico, quanto l'unica cosa che egli brama è la vittoria, il riscatto, non importa a qual prezzo.




___うちは一 族___



Il rombo dei tuoni squarciava il cielo tempestoso con ruggiti feroci, i lampi rischiaravano le nubi e l'aria umida, satura dell'odore della pioggia, della terra bagnata e del sangue.
Si poteva quasi dire che fosse un momento di tregua, più quieto. Stavamo recuperando le forze ed il chakra, quando con la coda dell'occhio vidi avanzare a passi strascicati dei compagni, che portavano con sé una donna.
Mi bastò osservarla un solo istante, notare sui vestiti l'assenza del ventaglio rosso e bianco, ma anzi, l'ultimo simbolo sulla faccia della Terra che avrei voluto vedere per attivare il Mangekyou Sharingan.
Erika Senju.
«Che bastardo, mandarci la sorella!», sputai velenoso.
«Va' all'inferno!», ringhiò lei alzando il capo verso di me, i capelli biondo scuro intrisi di fango dondolavano inerti ai lati del viso, gli occhi color caramello colmi di odio e disprezzo.
«Ci stiamo già finendo, per mano vostra!».
«Ed è ciò che meritate, Uchiha!».
La vidi rabbrividire per un attimo al mio sguardo iroso ed omicida. Scattai verso di lei, dandole un violento schiaffo su una guancia e afferrandole subito i capelli, tirandoli per farle alzare il capo e guardarla bene in faccia.
«Non. Osare», la minacciai, facendo un cenno ad uno shinobi alle sue spalle. Venne imbavagliata all'istante, legata mani e piedi, le manette che le bloccavano il flusso di chakra.
«Non mi abbasserò ad usarti come ostaggio», dissi. I suoi occhi non si separavano dai miei nemmeno per un secondo, attenti e guardinghi.
«Ma non sperare di tornare dal tuo clan».
E la portarono via.


La battaglia continuava, incessante, come la pioggia ad Ame no Sato; ancora morti, feriti, sembrava impossibile quanto pochi eravamo rimasti.
Non si poteva respirare un istante, combattevamo quasi senza ricordarci il motivo, ma volevamo vincere, per non perdere più nessuno e, soprattutto, per orgoglio del Clan.

La Senju restava chiusa nella tenda tutto il giorno. Non ero così spietato da non darle nulla da mangiare, dal momento che non era mai stata in battaglia, ma nonostante ciò, lei non toccava nulla. Per lo meno, ne ammiravo la forza di volontà.
Purtroppo era il tipo di persona che non si dà mai per vinta e non smise un solo istante di cercare di scappare.


___うちは一 族___



Avevo perso. Hashirama era diventato Hokage.
Come poteva Konoha riconoscerlo come tale? Dopo il massacro, la strage procurata al nostro clan durante la guerra, con che coraggio ci guardavano in faccia, i Senju?
Non ne avevo idea, ma decisi di andarmene lontano da lui e dal clan, che dopo i numerosi lutti e seppellimenti dei nostri cari cui eravamo stati costretti, desiderava solo la pace. Non riuscivo a comprendere come si potesse dimenticare, accantonare l'odio, la sofferenza. Era una vergogna, quel cedimento, e ne ero nauseato.

Nel giro di due giorni avevo già preparato tutto il necessario per partire, lasciarmi alle spalle quel villaggio e quella guerra infamante.
Peccato che ad Hashirama fosse venuta in mente l'idea di convocarmi. Che ipocrita, avrebbe potuto venirmi a cercare di persona. A quanto pare non ero alla sua altezza. Digrignai di denti, infuriato, mentre mi dirigevo al palazzo dell'Hokage, borse in spalla. Avrei sentito le fesserie che doveva riferirmi e me ne sarei andato senza troppi complimenti.
Camminavo svelto lungo i corridoi illuminati, diretto al suo ufficio, scocciato, quando una porta si spalancò: ne uscì una ragazza dai lunghi capelli biondo scuro e le iridi color caramello. Non appena la vidi assottigliai gli occhi, infastidito. Volevo passare oltre senza fermarmi, ma si accorse di me e prese a rincorrermi lesta.
«Madara! Madara, matte! (1)».
I suoi passi erano sempre più vicini, ma non avevo voglia di correre e mi raggiunse poco dopo, afferrandomi il braccio. Mi fermai all'istante, come scottato e mi liberai immediatamente dalla presa, lo Sharingan attivo.
«Non toccarmi», la gelai.
Lei assunse un'espressione colpevole, che si aggiunse a quella sera precedente. Sembrava temere che sparissi da un momento all'altro, si torceva le mani in grembo come trattenendosi dal fermarmi di nuovo usando il contatto fisico. Ero stupito, e sospettoso.
«Mi dispiace che le cose siano andate così», confessò infine.
Strinsi gli occhi.
«Che ipocrita. Se non avessimo perso non sareste così privilegiati. Non credo ti sarebbe piaciuto finire come noi».
Il suo sguardo si indurì.
«Non intendevo questo. Non dovevamo combattere».
Che ingenua.
«E' inutile discuterne, ognuno crederebbe di aver ragione», replicai in tono feroce. «Ci siamo battuti. Avete vinto».
“Per ora”.
«Non ho nient'altro da dire».
Le voltai di nuovo le spalle, diretto dal fratello per farla finita, ma lei non demorse, riprendendo a rincorrermi.

«No, non va bene così! Finiremo per scontrarci di nuovo! E non voglio che ai nostri clan vengano arrecate altre perdite».
Un lieve spostamento d'aria mi informò che aveva nuovamente allungato il braccio per trattenermi, ma fui più rapido e la sbattei contro il muro, tenendola per il collo. Lei però non pareva spaventata.
«Sei libero di non credermi», disse tranquilla, le mani strette alla mia per cercare di allentare la presa, e le sue parole sembrarono ad un tratto spaventosamente sincere.
«Come puoi dirlo?», domandai, per poi cambiare idea. «Non importa».
Dopotutto era una quisquilia. Tolsi la mano.
«Tu te ne andrai però», fece lei, accennando alla sacca che avevo in spalla.
«E dunque? Non ho più niente da fare qui. Persino il mio clan … ». La frase restò sospesa. Che pena, raccontarlo così, alla sorella dell'Hokage…
«Fammi venire con te».
“Nani?!”, ero troppo sconvolto per pensare altro, la sua proposta era stata come un fulmine a ciel sereno.
«Ma che diavolo dici?!».
Si avvicinò ancora, stringendo le dita alla manica del mio mantello. Stavolta non la scostai, tanto era lo stupore.
«Voglio venire con te», ripeté sicura. «Durante la guerra… ho dovuto assistere e curare i membri del mio clan, senza poter realmente fare qualcosa per contribuire mentre gli altri morivano, si sacrificavano! Dovevo stare in silenzio, avere sempre i jutsu medici pronti. Ma volevo aiutare la mia famiglia in modo concreto. Hashirama e Tobirama non me lo hanno permesso!», esclamò poi, frustrata. Non mi perdevo una parola. «Sai cosa significa?! Ora avete stretto una tregua, fondato Konoha, ma come posso tollerare di andarmene in giro così? Non avrei il coraggio di guardare in faccia nessuno!».
Le sue parole scendevano lente nel mio cervello, le assimilavo. Nemmeno io potevo, seppur per un motivo differente. Tuttavia, la sua proposta restava fuori discussione.
«Non è il ca-… ».
«Madara», mi interruppe, aspramente, stavolta. «Di cosa hai paura?».
Grugnai infastidito. La paura non sapevo neppure cosa fosse, non l'avevo mai provata. Solo rabbia, frustrazione. Ma il terrore mi era sconosciuto. Tuttavia tenni per me questi pensieri e la rimproverai.
«Solo perché non hai potuto scendere sul campo di battaglia non significa che abbia senso seguire me».

Che cocciuta che era.
«Invece sì. Potrà essere una scelta egoista quella di fuggire e non curare più nessuno, ma volevo combattere. E anche se nemmeno tu me l'hai permesso, ho capito… che non sei crudele come pensavo. E' stupido, ma anche tu volevi proteggere il tuo clan».
Scossi la testa, la mia pazienza andava scemando.
«Io volevo solo diventare più potente, Erika. E anche i tuoi fratelli. Non sono sono così perfetti come credi», rivelai in tono sarcastico, facendole finalmente abbassare lo sguardo.
«Non è questo il punto».
«Kami, Erika! Sto per lasciare il villaggio, perché diavolo vuoi seguirmi?!», sbottai.
Lei aprì la bocca, come per parlare, ma solo per poi richiuderla e mordersi un labbro. Rialzò lo sguardo, fiera e seria di nuovo.
«Che fastidio ti darei? Sono anche un medic-ninja».
Non mi aveva risposto e non comprendevo le sue ragioni: l'avevo imprigionata, maltrattata, insultata e nonostante i Senju avessero vinto voleva venire con me. Continuava a fissarmi fiduciosa, aspettando una risposta. Ero certo che avrebbe insistito senza problemi.
Alla fine, sbuffai esasperato, voltandomi e facendole un cenno con la mano.
«E va bene. Preparati».



Avevo deciso di ignorare l'incontro con Hashirama, ma d'altronde dubito che sarebbe cambiato qualcosa se ci saremmo incontrati.
Eravamo partiti da un paio d'ore, camminavamo senza curarci dei confini. Erika poteva vantare un'ottima abilità di resistenza, teneva il passo ed imparava in fretta. Mi aveva praticamente costretto ad insegnarle a combattere, cosa che apprese rapidamente e mi permise di testare il suo Mokuton, che come ogni Senju possedeva. Dopotutto, averle concesso di seguirmi aveva i suoi vantaggi.

I giorni cominciarono a confondersi, le settimane passavano, gli allenamenti si intensificavano. Ero sorpreso di non aver ancora percepito alcun chakra di Konoha, anche se – poco ma sicuro – ci stavano seguendo.
Lavoravamo bene in squadra: ognuno riusciva ad adattarsi agli stili di combattimento dell'altro, sorprendendo il nemico ad ogni attacco. Non ci avvicinavamo però ai villaggi ninja, certi che le voci riguardo il primo Hokage si fossero diffuse ed io volevo passare inosservato, cosa che il simbolo del mio clan, svettante sui miei abiti, mi impediva di fare, senza contare che viaggiavo con la sorella di Shodai al seguito.
Tuttavia sfruttavamo parecchio le Henge, tramite cui riuscii poco alla volta ad informarmi sulla posizione ipotetica di Kyuubi no Youko. Erika mi aiutava nella ricerca, ma chiaramente la tenni all'oscuro dei miei piani, certo che non li avrebbe approvati. D'altronde anche se l'avesse scoperto, sarebbe stato un problema del quale disfarsi non era complicato.
Hashirama non avrebbe vinto stavolta: avrebbe pagato per l'umiliazione che aveva fatto subire agli Uchiha.


Una sera finimmo alle onsen per riposare. La stazione termale era fuori mano, ma molto confortevole: una volta fatta arrivare una bottiglia di saké nella stanza aprimmo la porta in carta di riso che dava sulla vasca privata e ci svestimmo senza troppi complimenti, portando l'alcolico con noi ed adagiando gli asciugamani vicino al bordo.
Non appena mi immersi nell'acqua caldissima sentii i muscoli sciogliersi e accanto a me Erika sospirò soddisfatta, un sorrisetto sul volto.
«Aah, ci voleva proprio, vero?», chiese chiudendo gli occhi, mentre anche le labbra si piegavano all'insù: era l'immagine del relax, con la testa reclinata all'indietro, appoggiata alle spugne candide.
Sì, un attimo di tranquillità non poteva far male.
Stavamo in silenzio, a goderci la sensazione di liberazione che diffondeva il liquido caldo attraverso la pelle accaldata.
I miei occhi si spostarono istintivamente sul corpo dell'altra, celata dall'acqua appannata in superficie per il calore.
“E' una bella sensazione dopotutto”, pensai mentre attivavo lo Sharingan e sbirciavo sott'acqua, leccandomi le labbra. Non provai nemmeno a scacciare i pensieri che mi avevano invaso la mente, chi se ne importava che fosse una Senju?
Ad un tratto lei aprì le palpebre – probabilmente si sentiva osservata – e mi guardò sorridente.
«Beviamo?», domandò, ed io, rialzando lo sguardo, allungai una mano ad afferrare il saké e due tazzine, riempiendole quasi fino all'orlo.
«Alla nostra», brindò, e facemmo scontrare le porcellane per poi mandar giù l'alcolico. Dopo il terzo bicchierino le sue guance si erano tinte di un rosato particolarmente stuzzicante.
«Sai, Madara … credo di non averti mai odiato quanto avrei dovuto», fece ad un certo punto. In condizioni normali probabilmente un'affermazione del genere mi avrebbe irritato e stupito al contempo, ma in quel momento ero brillo e mi fece sogghignare: magari avrei potuto trasgredire la regola che mi ero imposto quando il mio clan l'aveva catturata durante la guerra, e cioè non sfiorarla neppure con un dito – in senso lato, chiaramente. D'altronde all'epoca l'idea mi ripugnava, ed umiliarla in quel senso non sarebbe servito a niente. Ma lei, seguendomi, aveva ripudiato il suo clan, seppur per motivi che non comprendevo e non ero a conoscenza neppure della sua consapevolezza riguardo le proprie azioni.
«Io invece sì», commentai in tono leggero, voltandomi leggermente verso di lei. Sospirò.
«Già, suppongo sia co- … ».

Non finì la frase perché le mi labbra si posarono sulle sue, succhiandole voracemente. La sua sorpresa durò mezzo secondo, mentre quello successivo fremeva e ricambiava con altrettanta enfasi. Mi spostai velocemente tra le sue gambe, che prontamente allargò, e cominciai a sfiorarle il corpo con audaci carezze, sentendo sotto i polpastrelli la liscezza e la morbidezza di quella pelle, mentre lei gemeva piano nel bacio ed intrecciava le dita ai miei lunghi capelli per attirarmi a sé. Le nostre lingue danzavano estasiate, allacciandosi e gustandosi a vicenda, mentre le pizzicavo i capezzoli, strappandole ansimi che finivano intrappolati nella mia bocca.
Complici l'alcool ed il mio desiderio, decisi che per una volta si poteva fare … era così inebriante che mi ritrovai a chiedermi come mai non l'avessi fatto prima.
«Madara... », sospirò lasciva, facendomi eccitare ulteriormente, e con gli indici scivolò lungo la mia spina dorsale, provocandomi un brivido, finché la mano non giunse alla mia intimità, prendendo a masturbarla sapientemente.
«Aah … », gemetti, e mi separai dalle labbra di lei poggiando la fronte sulla sua spalla, ansimando, per poi voltarmi verso il suo collo e prendendo a succhiarlo, mordicchiandone la pelle morbida più o meno forte, a seconda dell'intensità delle strette.
Non un solo pensiero coerente mi attraversò la mente, sapevo solo di star godendo, e parecchio.
Mentre la sua mano continuava a muoversi sul mio pene, le mie scesero lungo i suoi fianchi sottili, giungendo alle natiche sode e prendendo a palparle, mentre la sollevavo e le facevo allacciare le gambe al mio bacino. A quel punto i seni non erano più celati dall'acqua, ma ben visibili: il cambio di temperatura le fece irrigidire ulteriormente i capezzoli, uno dei quali finì subito nella mia bocca famelica.
«Nnh … », avevo la sua voce lasciva per il piacere nell'orecchio, cosa che mi portò ad indurirmi ancora di più.
La volevo, la desideravo terribilmente. Una mano si spostò sulla sua pancia morbida, violò l'ombelico, penetrandolo appena e strappandole un altro sospiro per poi giungere alla sua femminilità e cominciare a stuzzicarle il clitoride con l'indice, mentre l'anulare cominciava ad infilarsi nella vulva, sfiorandone le morbide pareti interne.
«Kami, Madara … ah … », miagolò, cominciando a spingersi verso le mie dita ed io passavo all'altro seno, lasciando il precedente con un piccolo morsetto che le fece spalancare nuovamente la bocca.
Sapevo che non avrei resistito ancora per molto, e anche lei non sembrava voler attendere a lungo.
Ripresi a baciarla famelico, uno scontro di denti e lingue che non voleva aver fine, necessario ed eccitante.

«Erikaah … ti voglio … adesso! … Nnh … », biascicai, bloccandole la mano con cui mi stava masturbando ed estraendo le dita dalla sua intimità. Afferrai il mio pene e lo diressi subito alla sua entrata, bisognoso, senza staccare gli occhi dai suoi, e la penetrai.
«Aaah! … », un gemito le sfuggì dalle labbra, che morse subito per tentare di arginare il dolore. Chiuse gli occhi, concentrata, mentre affondavo ancora di più, il suo petto che si alzava ed abbassava rapidamente.
«Resisti, ti prego», le sussurrai, appoggiando nuovamente le mie labbra sulle sue, dolcemente, leccandole piano. Mi artigliò le spalle, schiudendo le labbra ed intraprendendo una lotta per la supremazia con la mia lingua, cercando di distrarsi dal fastidio.
Non mi ero mosso, aspettavo trepidante il via libera; non sapevo come riuscissi a trattenermi, quando desideravo solo prenderla fino allo sfinimento.
«Muoviti», disse infine ,ed uscii da quell'antro caldo ed accogliente per poi ritornarvi con maggiore impeto.
Presi a spingermi velocemente in lei e l'aria si riempì quasi immediatamente dei nostri gemiti, mentre l'acqua debordava dalla vasca. Avevamo concentrato il chakra nei nostri bacini, rendendo il ritmo frenetico.
«Ma … dara … aaaaah! Sì … ».
Kami, sentirla così eccitata era una gioia per le mie orecchie e per il mio cazzo, sempre più duro. Eravamo avvolti dalla goduria, non sentivamo niente che non fosse l'altro e quando centrai un punto in lei che la fece ansimare senza ritegno, il piacere sfiorò livelli che non avrei mai pensato di raggiungere.
Erika continuava ad incitarmi mentre mi spingevo selvaggiamente in lei, stordito dalla libidine.
E poi esplosi, quasi senza accorgermene, riempiendola del mio seme che andò a mischiarsi con i suoi liquidi e gemiti liberatori sfuggirono al nostro controllo. La forza dell'orgasmo mi impedì di muovermi e rimasi in lei ancora qualche minuto, ansimando pesantemente, ascoltando il suo respiro affannoso, il battito del suo cuore.
Infine uscii, mettendomi a sedere, ma lei non mi lasciò, tirandomi verso di sé e baciandomi dolcemente, senza approfondire, mentre con una mano mi accarezzava il volto, lasciandomi stupefatto. Aprimmo gli occhi e ci guardammo: riuscivo a specchiarmi nei suoi, ancora lucidi per l'eccitazione di poco prima ed appoggiai la fronte sulla sua, le nostre labbra vicinissime, i respiri ancora non completamente regolari che si mescolavano.

«Madara … », mi chiamò.
«Sì?», domandai, quasi in trance.
«Sai quando ti ho chiesto di portarti con me, e mi sono trattenuta dal dirti qualcosa?».
«N-hn».
«Era solo … che sono innamorata di te».
Sgranai gli occhi e feci per allontanarmi, turbato, ma lei mi trattenne.
«No, ascolta. Magari tu non ricambi, ma… è ciò che sento io. Te l'ho detto, è da molto tempo che non ti odio più».
La guardavo ammutolito, senza sapere cosa dire.
“È una Senju, una Senju...”, insistevo a ripetermi, ma neppure la razionalità aiutava.
«Eppure quando eravamo in guerra non parevi così … bendisposta».
«Già … », fece lei pensierosa. «Ma era solo per via della battaglia, di ciò che mi avevano insegnato. Non chiedermi cosa sia cambiato, non lo so. Ma è successo».
Scossi la testa.
«Erika … non sono così buono come credi tu, anzi. Te l'assicuro. Non esiterei a distruggere Konoha se vi tornassi, né ad ammazzare i tuoi fratelli, come non ho esitato ad uccidere il mio».
Finalmente un lampo di paura le attraversò le iridi caramellate.
«Ma non mi imp- … ».
Le posai un dito sulle labbra.
«Non dire che non t'importa, lo so che è una menzogna».
Mi spostò il dito, voltando il capo altrove, lo sguardo basso.
«È una mia scelta».
La fissai, concentrato, per poi chinarmi e prenderla in braccio, portandola fino al futon, dove la depositai con delicatezza. Il suo sguardo era stupefatto, ma aveva ragione, la scelta era sua.
Mi sdraiai su di lei, sorreggendomi con le braccia.
«E va bene», concordai, e mi chinai a baciarla di nuovo.


___うちは一 族___


Avevo avuto un figlio. Kagami, così l'avevamo chiamato. Kagami Uchiha, dagli occhi e capelli scuri come la pece, e che ora aveva sei anni. Gli avevamo insegnato tutto ciò che sapevamo, era abile e molto intelligente, senza contare che possedeva già lo Sharingan a due tomoe. Tuttavia, la sua maggior abilità consisteva nel creare jutsu spazio-temporali di livello base, cosa che ci sorprese quanto sconcertò.
Non ci eravamo stabiliti da nessuna parte, viaggiavamo di continuo, fermandoci solo di tanto in tanto in qualche piccolo agglomerato. Kagami non sembrava infastidito dalla vita del ramingo e ogni qual volta ci imbattevamo in qualche nemico era pronto a combattere, lanciare kunai, predisporre trappole.
Man mano che passavano le settimane ero sempre più turbato: sentivo che era giunto il momento che tornassi a Konoha. Ormai possedevo il Kyuubi e avevo limato ogni dettaglio: tirarla per le lunghe non sarebbe servito a nulla, perciò da qualche giorno avevo deviato il cammino verso la Foglia. Erika se n'era accorta, ma non disse niente e quando finalmente varcammo le enormi porte del villaggio provammo una strana sensazione, nemmeno troppo piacevole. Kagami osservava incuriosito gli edifici colorati, i ninja che passeggiavano per strada.
Ad un certo punto Erika rallentò fino a fermarsi, e mi guardò preoccupata, stringendo il figlio a sé.
«Non so quanto ci convenga dirlo ai miei fratelli», disse accennando al ragazzino tra di noi.
«Pensavo lo stesso».
L'unica cosa da fare era tenerlo tra gli Uchiha, e al mio clan apparteneva, dopotutto.


Separarci da lui ci fece dolere il petto.
Avevamo raccomandato ad un mio cugino di prendersene cura, dal momento che non potevamo più occuparci della sua educazione. La sete di vendetta verso Shodai che covavo da annì si acuì ulteriormente al pensiero che non avrebbe mai riconosciuto Kagami, e mi bruciò le vene: non solo avevo subito umiliazioni da parte sua, ma se avesse saputo che la sorella era la madre di mio figlio avremmo finito tutti di vivere. Probabilmente non l'avrebbe scelto lui, ma Tobirama ed il villaggio diffidavano ancora fortemente degli Uchiha. Strinsi i denti.
Kagami ci aveva salutato con uno sguardo triste ed un po' duro, ma sapevamo che se la sarebbe cavata e sarebbe diventato forte.



Eccomi al piano di Hashirama. Erika era con il minore dei fratelli, che non appena l'aveva vista, aveva cominciato a porle infinite domande. Grazie a Kami avevo deciso di entrare nell'edificio dopo di lei, che come da accordi non disse nulla riguardante me o Kagami.
Toc Toc!
«Hai, doozo (2)», sentii dall'interno e spalancai la porta, avanzando sicuro verso la scrivania dell'Hokage che sollevò subito lo sguardo, stupefatto, e si alzò subito in piedi.
«Madara! … ».
Aggirò rapidamente il tavolo, venendomi incontro, ma fui più rapido ed estrassi la katana, puntandogliela al collo, a due millimetri dalla giugulare.
«Sei morto, Senju».




Pioggia.
Gocce di pioggia mi bagnavano i vestiti, attaccandomeli alla pelle, il mal di testa mi impediva quasi di aprire gli occhi.
Ero certo di essere prossimo alla morte, il sangue si mischiava alle lacrime che mi piovevano addosso, la ferita nel petto, aperta, rendeva ogni respiro un'agonia, come fossi infilzato da mille kunai.
Stavo perdendo pian piano la sensibilità delle dita, il manico della katana che stringevo era come impalpabile, inesistente. Sul mio palmo non percepivo più nulla.
Quella dannata Uzumaki (3)… come avesse fatto a sigillare il Kyuubi prima che potessi evocarlo non riuscivo a spiegarmelo, non fosse stato per lei avrei vinto, invece si era tutto concluso con l'ennesimo pareggio, ed il corpo di Hashirama ora giaceva di fronte a me, senza vita, ed io stavo per raggiungerlo.
Ripudiato dal clan, dal villaggio… non stavo lasciando il mondo con onore, come si conviene ad un Uchiha.
Per un attimo il volto di Erika mi balunginò davanti agli occhi, sostituito poi dall'immagine di mio figlio … ormai era lui il capo del clan, sarebbe divenuto inarrestabile e l'avrebbe vendicato, ne ero certo.
“Kagami … ora tocca a te …”



___うちは一 族___



Un giovane ragazzo sorrise amaramente, fissando con espressione dura la sontuosa tomba in cui giaceva il corpo del padre. Il nome del defunto spiccava sotto il simbolo del clan, fiammeggiante sul marmo bianco, il bel volto di lui rovinato dal tanto rammarico che vi era dipinto.
Era tutta colpa di quelle insensate lotte per il potere se era finita così: non spettava a semplici shinobi il controllo delle regioni e dei villaggi, sarebbe finita in un massacro, un lago di sangue. Il mondo era già stato sconvolto da due grandi guerre che non erano state utili ad appianare alcuna divergenza, anzi, i conflitti continuavano ad esserci, ed i ninja ad ammazzarsi a vicenda.
Era la pace che doveva regnare, per quanto fittizia o temporanea, pensò osservando la luna. Dopotutto il mondo shinobi era già pieno di menzogne, tradimenti e disonore.
L'astro argenteo si rifletté nel suo Sharingan e nella mente del giovane, poco a poco, cominciò a prendere forma un'idea …
Si diresse subito verso casa, raccattò le proprie cose e si preparò a partire, non aveva tempo da perdere.
Mentre frugava tra i suoi effetti gli capitò tra le mani una maschera di quando era ancora bambino, regalatagli dallo zio: era bianca, con una spirale color pece che convergeva nell'occhio destro. La osservò per qualche istante, ipnotizzato, per poi intascarla quasi inconsciamente, ed uscì dal quartiere.
Il suo clan, così fiero, relegato ai margini del villaggio, come fosse appestato, magra consolazione l'essere a capo della polizia di Konoha … Tobirama li aveva solo presi in giro.
Il ragazzo digrignò i denti, amareggiato, e superò le porte est, lasciando quel posto tanto odiato, pronto a cominciare le proprie ricerche.
La caccia al Juubi era aperta.



おわり~





1: Madara, aspetta!
2: Avanti!
3: Mito Uzumaki


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